Radici lombarde, passioni europee. Il “limpido” Mario Didò

Stefano Rolando [1]

Ho conosciuto Mario Didò nella prima metà degli anni ’70. Credo lui fosse ancora responsabile internazionale della CGIL e comunque faceva parte del Comitato Economico Sociale della CEE (come allora si chiamava l’Unione Europea). Era un sindacalista di punta che dal 1969 era giunto alla segreteria nazionale della CGIL con il gruppo dirigente storicamente più rilevante di quella organizzazione: Novella, Santi, Lama, Foa.

Nel mio piccolo (anche per età) avevo cominciato a lavorare come ricercatore con la fortuna di arrivare (grazie a Gerardo Mombelli che era il suo portavoce a Bruxelles) ad Altiero Spinelli (allora commissario all’industria e alla tecnologia) che, giovanissimo, mi spedì nei paesi arabi per una ricerca sullo sviluppo decennale della siderurgia dei paesi del bacino del Mediterraneo.

Poi ero rientrato a Roma dove per cinque anni lavorai nel campo della comunicazione di impresa per grandi aziende del gruppo IRI e verso la fine del decennio alla Rai, dove mi chiamò, come suo assistente, Paolo Grassi. In quegli anni, dunque, girando il mondo diedi senso alla mia adesione al Partito Socialista soprattutto scrivendo sulla stampa socialista e, specificatamente per l’Avanti!, soprattutto attento alla politica internazionale. Proprio per una serie di corrispondenze sulla “morte” della Primavera di Praga, poi sul ritorno della Grecia alla democrazia, soprattutto sui diritti umani nei paesi dell’America latina, mi ero fatto la fama di essere un anziano diplomatico magari in pensione che metteva mano alle sue esperienze di vita vissuta per raccontare cose da tante parti del mondo. In realtà ero un giovanotto che, approfittando di qualche ora di cambio aerei o di passaggi forzati per il mio lavoro, esprimeva la sua passione per il giornalismo e cercava di stare sulla notizia anche rinunciando al sonno. E Didò incontrandomi in un evento romano e raccontandomi che era reduce da viaggi in America latina nel cui quadro aveva notato miei articoli, fece la sorpresa di trovare uno “sbarbatello” al posto dello stagionato commentatore che credeva io fossi. Alla scoperta che ero lombardo come lui, lui più “nordico” perché di Varese e io milanese  reduce dalla politica studentesca giovanile pre-sessantottina, mi raccontò anche con fierezza di avere preso il suo titolo di studio superiore all’Istituto Cattaneo a Milano, recuperando la dura esperienza del lavoro in fabbrica dall’età di quindici anni, dopo il ritorno in condizioni difficili della sua famiglia dalla Francia entrata in guerra con l’Italia, Francia in cui il padre era emigrato da Somma Lombarda dagli anni ’20 e dove lui stesso era nato ai margini di Parigi.

Ognuno di noi due in quell’occasione era diverso dall’immagine che – attraverso la stampa, come avveniva in epoca senza internet e senza telefonini – ci eravamo reciprocamente fatti.

Così che nella sua seconda vita, ai vertici del Parlamento Europeo (dove era approdato nel 1979 diventando vice-presidente dell’assemblea con una marea di preferenze del suo vasto collegio e anche vicepresidente del gruppo dei Socialisti europei), anch’io mi ritrovavo dalla metà degli anni ’80 in una sorta di seconda vita, direttore generale dell’informazione e dell’editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una frequentazione assidua delle istituzioni comunitarie e con la possibilità di scambiarci informazioni e punti di vista certi ormai della nostra rispettiva identità. In una occasione anche di interagire insieme al ministro Antonio Ruberti con cui all’inizio degli anni ’90 collaboravo per la realizzazione di un ampio progetto, nazionale ed europeo, di promozione della cultura scientifica di cui era coordinatore Paolo Galluzzi, progetto a cui Mario Didò si interessò, offrendo la sua sponda istituzionale.

Era legato alle sue terre in una forma glocale, radici chiare ma sentimenti di storie che avevano intersecato molto i confini, quelli nazionali, quelli sociali, quelli politici. La sua appartenenza alla storia sindacale era la radice più profonda, con battaglie di fabbrica e di territorio in gioventù e ormai con la possibilità di guardare a come la stessa Europa poteva favorire, con il diritto allo studio e con accessi a opportunità di conoscenza più elevate anche in zone più periferiche. Cosa che gli permise di fare molto per Varese, contando sia su ISPRA sia sulla formazione della LIUC che dell’Università dell’Insubria attorno a cui diede contributi essenziali.

“Socialista e europeista limpido e appassionato” ha detto di lui il presidente Napolitano in occasione della scomparsa dieci anni or sono, conoscendolo da vicino in quel Parlamento insieme frequentato e restituendo alla sua immagine quattro parole di sintesi perfetta. Io voglio aggiungere l’aggettivo di “simpatico” perché la connotazione umana apparteneva a ciascuno dei suoi profili, come tutti gli riconoscevano.

[1] Testo redatto il 19 ottobre 2017 per contribuire al dossier di testimonianze curato da Monica Didò in occasione del decennale della scomparsa di Mario Didò

 

 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *