Professore, militante, scrittore
Stefano Rolando
(scritto per la rivista Mondoperaio il 25 giugno 2017)
Per noi Giuseppe Tamburrano era tre cose: la sua effervescenza oratoria, al tempo stesso meridionale e con la cultura della riscossa; il ritorno a un po’ di tradizione ideologica, politologica e umanistica dopo il modernismo di Claudio Martelli alla guida della sezione culturale del PSI; la poltrona di Pietro Nenni, lascito materiale sostanziale che lui mostrava a ogni visitatore e che svolgeva un’immediata funzione simbolica.
Così il Tamburrano professore, militante, scrittore. Quello dei comitati centrali, della convegnistica, del racconto sui libri e nei media dei risvolti della storia. Ma anche quello della fine della grande organizzazione socialista a cui ha fatto seguito – per chi ha voluto e potuto – il fiorire delle fondazioni legate agli idola tribus (per lui naturalmente Nenni, di cui era stato consigliere politico all’epoca della sua vicepresidenza del Consiglio dei Ministri). E quindi impegnato nella costruzione di una fondazione per anni alla ricerca di sostegni, ma anche indomita nei programmi e nelle iniziative. E che alla fine, dopo una intesa salvifica fatta con la UIL, ha lasciato nelle mani di Giorgio Benvenuto che oggi la presiede essendo stato parte del dibattito culturale e politico di non pochi degli studi di Tamburrano storico della politica, tra cui da ultimo La sinistra italiana – 1892/1992 (Bibliotheka Edizioni, 2016) che l’autore ha avuto la soddisfazione di un’autorevole presentazione, promossa appunto da Benvenuto alla Biblioteca del Senato, con Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso, Riccardo Nencini, Cesare Salvi, Giuseppe Vacca, Walter Veltroni, Lucio Villari e Sergio Zavoli. In questo testo vi è il compendio di tanti scritti, di tanta saggistica, di tante occasioni divulgative, didattiche e di battaglia delle idee, che da quella prima Storia e cronaca del centrosinistra, edita da Feltrinelli nel 1971, segna 45 anni di pubblicistica dedicata principalmente al socialismo.
Ma – raccogliendo, un po’ alla rinfusa, le tracce di una vita pubblica che la rete, con un po’ di scavo, fa facilmente affiorare – di Tamburrano escono anche altri profili.
Esce, per esempio, il suo paese d’origine, San Giovanni Rotondo, nel foggiano, in cui il padre, Luigi Tamburrano, socialista (poi anche sindaco della città e senatore), finì esule e confinato, con il solo conforto di una amicizia non occasionale con Padre Pio. Così che Padre Pio finirà per essere al centro di una sua appassionata, laica e documentata difesa, fatta sull’Osservatore Romano nel 2008 per stigmatizzare gli argomenti di Sergio Luzzatto, non in generale sul giudizio storico-politico dell’Italia del tempo, ma sulla figura del così discusso e poi santificato cappuccino[1].
“È un libro documentato e scritto con pazienza – dice Tamburrano nella lunga intervista rilasciata a Maurizio Fontana – che mira a offrire uno spaccato sociale, culturale e politico dell’Italia di quegli anni: questo è il suo scopo principale. E Luzzatto lo fa con ricchezza di particolari. La scelta che sinceramente non mi sembra appropriata è quella di passare attraverso padre Pio. Ma padre Pio non riflette quell’Italia, né come uomo né come sacerdote”[2]. Al giudizio severo di Luzzatto su “Padre Pio impostore” Tamburrano contrappone la storia e la conoscenza personale di un ragazzo cresciuto frequentandolo, da giovane figlio di un avvocato laico socialista e confinato, con sequenze di memoria rimaste poco conosciute e interessanti anche per la storia del rapporto tra lo stesso Tamburrano e Luzzatto, storico per altro con cui era in relazione e in amicizia.
E dalle tracce di un’ampia produzione storiografica esce anche un’altra appassionata difesa, di una figura ben diversa, parte integrante della storia del socialismo italiano, ma altrettanto discussa e con accuse di avere svolto prestazioni per i servizi di informazione del fascismo, che fu Ignazio Silone.
Il 17 marzo del 2006 il Corriere della Sera, a firma di Dario Fertilio, racconta la vicenda di un vero e proprio “processo culturale” svoltosi all’Aquila su “Silone eroe o spione”, una giornata di studio dal titolo perentorio «Silone aveva ragione» promossa da Ottaviano Del Turco e da Aldo Forbice, presidente della Fondazione che porta il nome dello scrittore abruzzese. E con moltissimi interventi (Antonio Landolfi, Bruno Falcetto, Alceo Riosa, Piero Craveri, Aldo Ricci, Mimmo Franzinelli, Ottorino Gurgo, eccetera) per affrontare l’accusa a Silone di Mauro Canali e Dario Biocca[3] e la difesa di Giuseppe Tamburrano, a seguito dei suoi due libri dedicati a Silone negli anni precedenti[4]. Entrare qui nel merito della disputa (prove o non prove dell’appartenenza all’Ovra) è impossibile perché i resoconti sono lunghi e dettagliatissimi, da una parte e dall’altra. Per Tamburrano, in estrema sintesi, solo il condizionamento legato alla carcerazione del fratello Romolo e il proposito di Silone di giovargli costituiscono la logica motivazionale di un ambiguo scambio circoscritto al triennio 1928-30 che era (ed è rimasto) al centro della disputa.
Anche qui emerge il profilo di uno storico non pago di ambientare o descrivere le vicende, ma appena possibile proiettato nell’individuazione di una tesi, di una posizione, attorno a cui argomentare la sua scelta.
Già, figlio di un avvocato. Ma anche con la passione politica non sottomessa a quella dello studioso.
Ed ecco un terzo spunto rimasto forse in ombra. Il Ministero della Pubblica Istruzione sceglie nel 2007 un brano di Giuseppe Tamburrano – di trenta anni prima – per il riferimento da interpretare in un esame di maturità nel cosiddetto settore “generale”. Questo: “L’industrializzazione ha distrutto il villaggio, e l’uomo, che viveva in comunità, è diventato folla solitaria nelle megalopoli. La televisione ha ricostruito il «villaggio globale», ma non c’è il dialogo corale al quale tutti partecipavano nel borgo attorno al castello o alla pieve. Ed è cosa molto diversa guardare i fatti del mondo passivamente, o partecipare ai fatti della comunità”[5]. L’invito agli studenti era specifico: “Discuti l’affermazione citata, precisando se, a tuo avviso, in essa possa ravvisarsi un senso di “nostalgia” per il passato o l’esigenza, nella società contemporanea, di intessere un dialogo meno formale con la comunità circostante”. Non si addice ad un ricordo di congedo, ma – per la scherzosa amicizia con lo stesso Tamburrano (che mi fece anche l’onore di coinvolgimento nel comitato scientifico della Fondazione Nenni) – avrei osservato, anche con lui, che l’episodio doveva essere stato il picco della sua notorietà con i giovani italiani.
La citazione serve però a richiamare la responsabilità che Tamburrano assunse nel campo della cultura e dei media nel Partito Socialista, dopo gli anni di progettazione della “modernizzazione del sistema” a cui, con la spinta di Claudio Martelli, alcuni di noi avevano lavorato con una certa intensità, recuperando – lo si coglie anche da questo breve spunto – elementi di una cultura popolare italiana, di una antropologia della comunità sociale in mutamento, in un certo senso minacciati dal nuovo, in particolare dalla commistione tra business e tecnologia. Anche qui è inutile ricamare su un’ovvia necessità di contemperare le due esigenze diverse. Ma nel ricordare qui Tamburrano è corretto segnalare una dialettica che qui, come in altri campi, univa e distingueva un ceto politico che si era formato interpretando Italie diverse.
Nel recente citato testo La sinistra italiana- 1892-1992, i cento anni sono ben distillati ma si arriva anche alla crisi finale dei socialisti italiani.
Da una parte Tamburrano attribuisce al Psi di Craxi il successo culturale nel cosiddetto duello a sinistra:
“Craxi… coglie un punto di verità: l’Italia degli anni ’80 ha un gran bisogno di innovazione… il nostro è un paese ingessato, con una struttura produttiva cresciuta al riparo di ombrelli protezionistici, un’organizzazione sociale statica e rigida, un sistema politico e istituzionale consociativo e privo di alternanze… La sfida di Craxi coglie i comunisti impreparati e mette a nudo il loro ritardo a misurarsi con la modernità. Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un’insidia anziché una opportunità e si arrocca in un atteggiamento difensivo che ne ridurrà influenza e credibilità politica. Mi ha sempre colpito l’inspiegabile contraddizione per cui la sinistra nasce da un’intuizione di Marx – il movimento è il motore della storia – ma poi guarda spesso con timore e ostilità a tutto ciò che si muove… Come poi si vedrà sarebbe stato più saggio, per lui e per noi, dedicare meno energie a combatterci reciprocamente, perché quella “guerra civile” a sinistra porterà alla distruzione della sinistra, travolgendo non solo il vinto ma anche il vincitore”.
Ma dall’altra parte – utilizzo qui spunti di intervista che ho raccolto qualche anno fa in un quadro corale di commenti sulla parabola comunicativa del PSI[6] – Tamburrano critica i modi di gestione di Craxi del partito e delle relazioni con il gruppo dirigente:
“Nel Psi vi fu il capo investito direttamente dal Congresso (con una riforma dello Statuto proposta e preparata da me, la quale però prevedeva anche la contestuale elezione congressuale della direzione per bilanciare il potere del leder che fu ovviamente rinviata). Bettino, che aveva oltre all’investitura congressuale un personale carisma, dispensava con un sistema di tipo feudale, benefici (cariche) in cambio di risorse e di voti, nel partito e soprattutto alle elezioni. Si crearono così dei veri e propri potentati con un potere relativamente autonomo (come i signori del sistema feudale)”.
A chi di recente gli chiedeva un giudizio sul nuovo ceto politico italiano, sperando di spuntargli un “bravo” o un “cattivo” a proposito di nuovi leader che agivano spesso fuori dai suoi riferimenti abituali, Tamburrano ebbe di recente a dire: “È stato bravo Cavour che pur volendo solo un grande Piemonte ha unito l’Italia. E’ stato bravo Giolitti che pur essendo solo un abile tessitore ha fatto un’Italia più civile e più moderna e ha accettato di rendere un proletariato miserabile ed estraneo cittadini partecipi e motore del progresso”[7].
Era pur sempre un professore di storia, che altro avrebbe dovuto dire?