Banalità del male e rapporto tra menzogna e politica.

Cresce di nuovo l’attenzione per il pensiero di Hannah Arendt

Stefano Rolando

Pubblicato su Linkiesta (2 febbraio 2017)

 

Allo Spazio Oberdan a Milano si proietta in questi giorni “Vita Activa – The Spirit of Hannah Arendt“, film documentario di produzione israeliana-canadese del 2015 (già circolante da tempo, premiato, quindi non più una “notizia”), diretto da Ada Ushpiz. Analoga proposta avviene in altre sale e altri ambiti culturali in Italia e in altri paesi del mondo con uno specifico rialzo, proprio in questo periodo, di attenzione dell’opinione pubblica.

Voce e volto della Arendt – nella fase matura, cosciente di sé e dell’originalità della sua storia – insieme a uno straordinario repertorio di archivi internazionali sulla questione ebraica e alle sequenze del processo Eichmann a Tel Aviv del 1961, seguito nel dettaglio da Hanna Arendt in una ormai storica interpretazione (che ha generato appunto il paradigma della “banalità del male” per abbassare la soglia demoniaca del nemico ma anche per dichiararne così la maggiore pericolosità e quindi la probabile viralità), rendono questo film (ispirato al testo “La condizione umana” del 1958[1]) importante.

Si conferma insomma l’attualità di una figura culturalmente e ideologicamente indipendente che, più di quaranta anni dopo la sua morte, è ancora riferimento internazionale per evitare che le maggiori lacerazioni del ‘900 – violenza, sopruso, genocidio, razzismo, distruzione, autodistruzione – siano narrate in forme così sacrali ovvero così apodittiche da diventare “archivio”.

L’interpretazione narrativa assume così ruolo politico adeguato alla centralità della comunicazione contemporanea. E infatti perché il film riempia le nostre sale di questi tempi si capisce. Così come nella sala si sente un silenzio accorato che si sforza di tener viva l’idea che con quel genere di irrisolti del ‘900 i conti si debbono fare ancora, anche per interpretare il presente.

Ciò appare più importante, adesso, che riprendere il dibattito sugli aspetti controversi della Arendt in relazione ai suoi rapporti con Martin Heidegger (con i suoi cedimenti al nazismo montante). Persino forse anche più importante di riproporre la polemica interna alla comunità internazionale ebraica in relazione alla diffusa critica che la Arendt ricevette in vita da parte dell’establishment ebraico internazionale appunto per il suo sforzo di non uniformarsi all’idea del nazismo come “male assoluto” preferendo sferrare l’attacco (e la figura di Eichmann si prestò egregiamente a quella lettura) sulla mediocrità burocratica della violenza del potere nazista. Anche se però grazie a questa tesi il conformismo, l’adattamento, l’irresponsabilità, il consenso, l’omertà vengono meglio compresi come sentimenti del carattere popolare e vincente delle dittature, fino al loro inevitabile schianto.

Inutile negare che il mito americano che ha tenuta aperta nel corso del ‘900 la speranza di una larga parte dell’Europa di non soccombere alla sua stessa duplice follia suicidaria, ha ricevuto ora un colpo. E anche questo spiega il nuovo richiamo attorno all’indagine di Hannah Arendt sul male.

Fuori dal racconto esplicito del film di Ada Ushpiz, ma dentro uno dei filoni centrali di ricerca della Arendt che è intimamente connesso sia alla critica del totalitarismo, ma anche alla critica della “politica di immagine” perseguita da stati democratici, vi è il tema del rapporto tra politica e menzogna[2], che aggiunge una sollecitazione di evidente attualità all’interesse mondiale verso la filosofa di Hannover (dove era nata nel 1906, spentasi a New York, cittadina naturalizzata americana, per un attacco cardiaco a 69 anni, nel 1975) e al suo sguardo pendolare tra l’etica della responsabilità e la dinamica del potere. Nell’inquadrare la modernità del punto di vista della Arendt, è stato di recente scritto che “menzogna e politica sembrano del tutto compatibili” e anche che “azione, politica e menzogna sembrano profondamente interconnesse[3].

Con una citazione della stessa Arendt che è un argomento forte anche per leggere il crescente dibattito in corso sulla cosiddetta post-verità: “Il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità di fatto non è che le menzogne saranno ora accettate come verità e che la verità sarà denigrata  facendone una menzogna, ma che il senso grazie al quale  ci orientiamo nel mondo reale  – e la categoria di verità versus falsità è tra i mezzi mentali a tal fine – viene distrutto. E a questo danno non c’è alcun rimedio”. Arrivando ad una annotazione anticonformista che ci aiuta a capire il destino naturale dell’antipolitica: “Il suddito reale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più[4].

 

 
[1] Edito in Italia da Bompiani nel 1964 e riproposto nel 1989.
[2] Hanna Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, 1985 e La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, Marietti 1820, 2006.
[3] Vincenzo Sorrentino, Hannah Arendt. Verità, politica e mondo comune, in Antonella Besussi (a cura di) Verità e politica. Filosofie contemporanee, Carocci editore 2013
[4] Hannah Arendt, The Origins of Totalitarism, Harcourt Brace & World, New York, 1966, prima edizione 1951 (in Italia, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1967).

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