Migrazioni e paralisi identitaria dell’Europa
Stefano Rolando [1]
pubblicato da Linkiesta il 26 gennaio 2017
Non è difficile cogliere che la questione migratoria ha contribuito più di altre alla fase più acuta di paralisi identitaria dell’Europa.
Tra allarmi e buonismi, tra tragedie e rimozioni, tra paure e speculazioni, il grosso dei paesi europei ha rifiutato il tavolo della condivisione dei problemi, credendo di potere isolare il pericolo confinandolo nei due lembi d’Europa più aggrediti, l’Italia e la Grecia.
Mentre molti uffici interni agli apparati europei avrebbero conoscenze e possibilità di cercare strade per gestire soluzioni, i vertici politici ancorati all’azionariato degli Stati e quindi alla condizione di rischio per molti paesi membri di vedere saltare maggioranze di governo a favore dell’onda anti-migratoria hanno deciso di non decidere.
E’ in corso un tentativo di includere, in un progetto di ricerca Horizon 2020 inter-universitaria europea per misurare qualche superamento di questa “non decisione”[2], la questione migratoria riconducendola alle componenti valoriali del dibattito pubblico sui caratteri del brand Europa, ovvero del nostro patrimonio simbolico europeo. E di produrre altresì modelli semplici per misurare il conflitto d’opinione – e quindi di “comunicazione” – che sta dietro il congelamento delle scelte. Riassumo in due punti questo approccio.
Brand Europa.
Si parla delle grandi storie valoriali che hanno costituito eredità ineludibili e costitutive della cultura comune di un popolo e di un territorio. Se si discute di migrazioni, vengono subito in mente tre storie, tre epoche, tre visioni fondanti e un tratto, quindi, di continuità epocali.
- La prima storia è quella che racconta l’Antico Testamento, libro comune delle religioni europee, in cui – per dirla con il cardinale Martini – i luoghi in questione sono quelli “dove l’esperienza dello straniero è un fatto quotidiano”. E, appunto, la frequenza dei popoli migranti – per l’indiscusso diritto di scegliere la migrazione in nome del diritto alla libertà e alla sopravvivenza – fa sì che si capovolga l’alterità e il sentimento di paura. Sempre il biblista Martini dice: “Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso di missione”.
- La seconda storia appartiene al grande, poderoso e inquietante processo che noi post-latini abbiamo tentato di esorcizzare riferendolo alle “invasioni dei barbari”, ma che le culture mitteleuropee hanno piuttosto individuato come “migrazioni dei popoli”. Solo evocare i nomi dei protagonisti della grandi “scorrerie” che posero fine all’impero romano fa tuttora vibrare la nostra latina repulsione: Burgundi, Marcomanni, Quadi, Lugi,Vandali, Iutungi, Gepidi, Goti, le tribù daciche dei Carpi, piuttosto che quelle sarmatiche di Iazigi, Roxolani ed Oltre a Bastarni, Sciti, Borani, Eruli e Unni. Le vicende di queste sconvolgenti apparizioni nello scenario europeo sono ricondotte, nel termine tedesco di Völkerwanderung (appunto “migrazioni di popoli“) in una storia che si si conclude sostanzialmente con la formazione dei Regni latino-germanici dalla disgregazione dell’Impero romano d’Occidente, ovvero alla fine definitiva del cosiddetto Mondo Classico e all’entrata dell’Europa nell’alto Medioevo, costruendo la transizione che porterà il continente ad evolvere verso una nuova modernità culturale che, letta nell’ultimo millennio di grandezze e tragedie, è la stessa sintesi della nostra complessità contemporanea.
- La terza storia è costituita dalle migrazioni stesse generate dall’Europa tra l’800 e il ‘900 e quindi di parti dei suoi popoli storici che sono alla base della costruzione antropologica, culturale, civile del “Nuovo Mondo”. Storia che riguarda componenti latine e sassoni, friulane e olandesi, siciliane e irlandesi, attraverso cui le grandi diaspore sono alla base di una immensa proiezione moderna nel metling pot americano (nome che appare all’inizio del ‘900 grazie al drammaturgo Israel Zangwil) del nord e del sud.
Abbiamo tanto il diritto (noi latini e greci) di rivendicare la nostra età del ferro e dell’oro (l’impero romano rispettoso dei filosofi ateniesi e il Rinascimento italiano) per caratterizzare il Brand Europa, quanto ha diritto l’intera Europa di dipingere quel complesso “marchio simbolico” con i colori di quelle tre storie. Il patto che i padri dell’Europa hanno immaginato dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale è sostanzialmente basato sulla dialettica tra potere e migrazioni, che ci obbliga a valutare paritariamente tali concetti fondanti.
Il coraggio di riportare la storia migratoria come parte integrante della cultura europea nel “patrimonio simbolico” ineludibile è un passo politico preliminare a ogni politica della contingenza.
La dialettica della comunicazione
La rappresentazione dei processi migratori costituisce poi la trama moderna di un dibattito spesso violento, forzato dalle circostanze, raramente soppesato. Ma anche di grande potenza narrativa e quindi fortemente incidente sulla vulnerabilità dell’opinione pubblica e sulla reticenza della politica.
Il modello della dialettica ci permette di immaginare quattro essenziali fattori distribuiti sulle ascisse e sulle ordinate, due nell’ordine della integrabilità degli attuali processi migratori, due nell’ordine della resistenza anche ad oltranza circa qualunque forma di integrabilità.
- Vi sono profili di integrabilità nelle dinamiche culturali, religiose e linguistiche che rendono i trasferimenti da alcune aree del mondo come preferenziali per l’adattamento in Europa (sia pure considerando che la grande esperienza storica della Gran Bretagna ha aiutato ad ampliare molto quel perimetro) e nelle dinamiche economiche, occupazionali e ormai imprenditoriali che ridisegnano oggi mappe di compatibilità fondate su evidenti bisogni delle società evolute europee di allargare la base etnico-sociale dei propri processi produttivi e di consumo.
- Vi sono profili di radicamento degli stereotipi e dei pregiudizi che investono ambiti sociali non sufficientemente fronteggiati dall’educazione alla modernità, che sono anche la base di sostegno di una robusta offerta di post-verità (in connubio tra media e politica) che ha dimensioni prima di tutto di mercato rispetto ai consumi mediatici e ai comportamenti elettorali.
Ogni paese europeo è oggi misurabile dalla dialettica di questi quattro fattori, ovvero di due coppie contrapposte. E una piccola base di metodologia della ricerca sociale è in grado di rivelarci se il “patto di sostenibilità sociale” delle politiche migratorie pende da una parte o dall’altra facendoci ampiamente e correttamente sapere – territorio per territorio, nazione per nazione, area macro-regionale per area macro-regionale – la praticabilità del superamento dell’impasse che domina la scena (forse per la mancanza di un coraggioso monitoraggio) ormai da molti anni.
[1] Professore di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università IULM di Milano, presidente del Club of Venice, coordinamento dei responsabili della comunicazione istituzionale dei governi e delle istituzioni UE (presso il Consiglio UE).
[2] Questa nota è stata scritta come “verbale tematico” a seguito di una discussione interna ad un gruppo di docenti dell’Università IULM impegnati nella progettazione metodologica per un programma Horizon 2020 sul tema “The Risk of Change”.