Riproduco nel mio blog (con qualche ritardo) la nota pubblicata l’8.9.2018 su Rivista italiana della comunicazione pubblica.
Rivista italiana di comunicazione pubblica
Oggi ricorrenza dell’8 settembre – Occasione per parlare della cultura civile della spiegazione
Stefano Rolando
Articolo che aggiunge una pagina non scritta al libro “Il dilemma del re dell’Epiro – Vinta o persa la guerra della comunicazione pubblica in Italia? [1]
Abstract
La comunicazione delle istituzioni ha avuto molti anni per sviluppare una grande funzione di spiegazione e accompagnamento sociale, venendo però frenata e impoverita dall’idea del ceto politico (quello costruito sul principio di delega) che contasse di più agire per la visibilità (delle politiche e delle persone) attraverso funzioni giornalistiche. Quando la rivolta contro la delega ha preso le forme che ora conosciamo, una delle cause più forti del nuovo urto si è rivelata la mancanza di una grande gestione pubblica dei sentimenti di spaesamento, incertezza, paura che soprattutto nei vasti ambiti non garantiti della società sono cresciuti anche per le assenze o le mancanze dei soggetti pubblici, malgrado tanti sforzi compiuti da molti e in varie direzioni, per sostituire (legge 241 del 1990) il “silenzio segreto” con “trasparenza e accesso”. La rivoluzione tecnologica in parte ha sopperito, in parte ha aumentato le divaricazioni. Chi è ora in grado di rilanciare una politica pubblica di profondità e di qualità europea su questa materia, mentre le forze di governo sono in fase prevalentemente di annuncio e quelle di opposizione attraversano una vera e propria entropia identitaria?
Una premessa sull’8 settembre
Ho scritto numerose volte attorno all’8 settembre, nel convincimento – che appartiene a una certa storiografia che si occupa delle relazioni tra fatti simbolici, date epocali e significati socioculturali – che quella data chiude un ciclo nel rapporto tra Stato e cittadini e ne apre un altro. Il più delle volte ho scritto – e altri, molto più autorevolmente di me, hanno scritto – con lo sguardo al passato. Cioè rispetto al senso di quella data in riferimento al “buco nero” del fascismo e della guerra. Talvolta si è andati più lontano pensando a Stato e Popolo in tutto il quadro dell’Unità. Al centro delle analisi il crollo dei valori principali della identità nazionale, provocato non solo dalle promesse mancate da parte della classe dirigente, ma soprattutto dagli esiti disastrosi al tempo stesso del collasso istituzionale e della proletarizzazione della società. Questa volta – nella giornata del 75° anniversario di quella “data epocale”, appunto l’8 settembre del 1943 – vorrei scriverne per guardare avanti. Cioè per guardare alla proiezione dell’ombra di quella data sui nostri 75 anni di fuoriuscita dal dramma bellico. Anni della ricostruzione, della convivenza tra le forme della democrazia e la sostanza dello sviluppo economico, civile e culturale dell’Italia.
Ogni approccio disciplinare, si sa, propone una lettura diversa di questo film. Gli economisti scorgono il consolidamento (pur attraversato da infragilimenti) della capacità produttive e competitive; i sociologi scorgono i caratteri collettivi che accompagnano mobilità e reattività sociale; gli psicologi indagano l’evoluzione della natura della consistenza individuale a fronte dei fattori di pressione e di liberazione (autoritarismo e responsabilità); gli storici inanellano le continuità e le discontinuità della narrativa fenomenologica. Eccetera.
Come si percepirà dalla testata su cui qui scrivo, ora in rete dopo quindici anni su carta, il mio oblò è ben più modesto e ridotto, fa parte cioè di un sistema disciplinare – le Scienze della Comunicazione – istituito universitariamente all’inizio degli anni ’90 ma sciaguratamente mai pervenuto ad assumere autonomia e responsabilità disciplinare e accademica, quindi in sostanza tenuto sotto scorta stretta da maggiori e più consolidati raggruppamenti, ad uno dei quali ho faticosamente appartenuto[2].
In questo campo il terreno della mia coltivazione è ancora più minuto, riguarda la comunicazione pubblica, una volta concepita come il canale istituzioni-cittadini e poi diventato (nella cultura di rete) l’agorà circolare tra istanze pubbliche e sociali con fenomeni verticali che sopravvivono e fenomeni orizzontali interattivi che si formano a grande velocità.
Perché abbiamo tirato in ballo l’8 settembre, per entrare in questo territorio e soprattutto non per guardare indietro ma per vedere quella data sperduta a metà del ‘900 in rapporto a ciò che oggi ci pare la questione in agenda?
Perché, essendo possibile raccontare l’8 settembre in molte maniere[3], un approccio che mi ha sempre colpito di quella “giornata particolare” è stato quello di considerarlo il primo giorno di ascolto e di spiegazione, dopo tanti anni di autoritarismo (prima guerra compresa), di propaganda e di sottrazione della verità.
Ben inteso, ascolto magari un po’ retorico e spiegazione certamente confusa. Ma segnale di una politica che solo costruendo l’Italia democratica avrebbe potuto avere contenuti adeguati. Già, avrebbe potuto. E tutto il problema sta appunto nel fare ora un bilancio: se si è voluto, se si è potuto, se si è riuscito.
Mi si consenta di ricordare qui che è attorno a questo bilancio – limitatamente ad una politica di comunicazione pubblica capace di coprire i ritardi e rilanciare un ruolo generale della cultura della spiegazione – che ho risposto a 170 domande nel libro-intervista di Stefano Sepe, pubblicato di recente da ES-Editoriale Scientifica (Napoli) libro intitolato proprio per segnalare al lettore che il bilancio non è chiaro: “Il dilemma del re dell’Epiro – Vinta o persa la guerra della comunicazione pubblica in Italia?“
Ripeto quello che ho provato a dire presentandolo e discutendolo sulle prime: non mi interessa fare nostalgicamente i muscoli sulle esperienze condotte, non mi interessa contribuire a una solitaria biografia. Anche se di quelle esperienze bisognava parlare per spiegare, metro per metro, come è evoluta la progettazione di una politica che voleva riparare a quarant’anni di ritardi, chiudendo la storica stagione del “silenzio e segreto” in Italia sostituendola con la stagione di “trasparenza e accesso“. Cioè come è stato possibile il quinquennio che ha anticipato, nel 1990, la legge 241 che quella sostituzione normò.
In questi giorni, in uno degli scambi avuti su questo tema, Franco D’Alfonso, un amico amministratore pubblico milanese (giunta Pisapia, poi Città Metropolitana ora Consiglio comunale) mi ha detto: ma si, forse avete avuto ragione voi, professori, a tener duro su un certo metodo di racconto, preparando le scalette, mostrando le slides, ragionando sulle fonti, spiegando le ragioni e le conseguenze delle storie. Vi abbiamo criticato perché un po’ noiosi, perché bisognava stringere sulla comunicazione politico-elettorale, perché bisognava replicare ogni minuto a qualcosa o qualcuno. Ma ora, se non si torna a spiegare, tutto è perduto.
Ecco, quell’8 settembre, migliaia di ragazzi italiani in armi, soprattutto quelli sparsi nel mondo, lontani dall’Italia, nelle disseminate isole greche, in Africa, altrove, per la prima volta nella loro vita sono stati chiamati in adunanza dai loro generali, perché lo Stato chiedeva loro, una volta letto il comunicato ambiguo di Badoglio, di esprimersi: cosa volete fare? Salvo poi non poter accogliere il coro delle voci che rispondeva con una sola cosa evidente: tornare a casa. E tornare a casa non si poteva, perché non c’erano navi e aerei per riportarli a casa. La scelta doveva misurarsi alla fine su un quesito più drammatico: visto che dovete stare qui, accettate l’ultimatum tedesco e consegnate le armi oppure al contrario tenete le armi in pugno con tutti i rischi che ne conseguono?
Forse quello fu un episodio di “rivelazione” più che di “spiegazione”. Ma conteneva la prima controtendenza dopo decenni di relazione autoritaria e propagandistica. A parte il racconto di questa inaudita sequenza (inaudita per una intera generazione) – attorno a cui resta ancora nella mia penna (malgrado le pagine già scritte) un libro a cui lavoro da alcuni anni e dedicato a mio padre, Emilio Rolando, tenente dell’Esercito italiano sull’isola di Samo che scelse di tenere le armi in pugno e andò in montagna insieme ai greci per tentare di salvare la pelle a tutta la sua Compagnia, in assenza di comandi e di scelte univoche della Divisione Cuneo (come si sa la Divisione Aqui a Cefalonia fu annientata dai tedeschi per aver fatto una scelta simile, pur se più tentennante) – l’ evento segnala che da quel giorno Stato e cittadini, anzi Stato e popolo soldato, hanno cominciato a parlare, a fare prove di ascolto, a cercare di capire insieme la Storia, quella brutale e quella fisiologica, quella grande e quella piccola, quella collettiva e quella delle piccole comunità[4].
Le occasioni colte, le occasioni perdute
Eppure, la cultura e la prassi della pubblica amministrazione italiana avrebbero dovuto aspettare 47 anni, cioè, come si è detto, l’anno 1990, per vedere una legge costruita per cassare la cultura del segreto e del silenzio e per iniziare una architettura lunga e complessa riguardante trasparenza e accesso.
Circa quei 47 anni sarebbe falso dire che ogni funzionario, ogni dirigente, ogni soggetto investito di pubblica responsabilità (medici, insegnanti, vigili urbani, pompieri, magistrati, diplomatici, carabinieri, eccetera, eccetera) si siano incerottati la bocca, si siano coperte le orecchie e abbiano rifiutato contatti con cittadini e utenti. Ma i comportamenti proattivi e quelli semplicemente reattivi avevano un vago fondamento costituzionale (certo più l’articolo 3 per rimuovere gli ostacoli posti all’affermazione dei principi generali della Carta che l’ art. 21, che conteneva il principio del diritto a informare ma non quello del principio a essere informati), ma erano per lo più regolati dal buon senso, dal contesto civico e dalla necessità di trovare soluzioni. Non da una norma chiara, non da una politica organica.
Aggiungo – è necessario – che lo Stato da solo non sarebbe bastato a generare una adeguata politica pubblica della spiegazione e dell’accompagnamento per il carattere inevitabilmente accentrato dello Stato stesso. Importante (grande il lavoro di spiegazione e civismo del mio amico prof. Gregorio Arena[5]) la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, verticale e orizzontale. Importanti dunque i patti formali e sostanziali per le sinergie territoriali che in un paese come l’Italia comporta un significato della parola Stato con caratteri attenti alla sua storia disunita. E comporta un ruolo ineludibile delle amministrazioni di prossimità. Importante, sempre importante, la scuola, nel suo tratto sempre e comunque civile, quello che fece dire a Gesualdo Bufalino che “la mafia sarà eliminata da un esercito di maestre elementari”. E ancora – nell’esperienza storica italiana ed europea – offre un ruolo importante al servizio pubblico radiotelevisivo che in una lunga fase post-bellica ha agito virtuosamente per l’unificazione linguistica, sociale e interpretativa del Paese.
Partendo da qui chiunque può valutare gli sforzi fatti e i progetti attivati. Un piccolo contributo a quel bilancio sta nelle pagine del libro citato. Ma tanti altri sono i contributi a registro, tante le figure che hanno fornito esempi ed esperienze, tante le norme secondarie che hanno costruito adattamenti.
Ma la domanda è inevitabile: che evoluzione ha avuto questa politica nel corso dell’ormai lunga e non conclusa cosiddetta “seconda Repubblica”?
A poco a poco la tecnologia ha offerto spinte a trovare soluzioni nuove e innovative, spingendo in avanti ma – attenzione – anche aprendo nuove divaricazioni, mentre la politica (di destra o di sinistra non ha fatto molta differenza) ha fatto prevalere un altro paradigma nella gestione di norme pure attivate e di aggiornamenti – anche su scala europea – attorno a questioni complesse sia di gestione degli apparati tecnici a disposizione, sia di fronteggiamento di una domanda sociale in continua evoluzione.
Quale paradigma? Il giudizio generale – non solo mio ma anche di molti tra coloro che hanno scritto anche in senso scientifico di comunicazione pubblica[6] – è che l’investimento sulla spiegazione e sull’ accompagnamento sociale generalizzato[7], qualcosa di ben più ampio e profondo della semplice costituzione degli URP o dei call center, è stato circoscritto, non programmato, non valutato, non reso strategico. A poco a poco indebolito. Centrale è diventata invece l’attenzione per le funzioni di valorizzazione delle politiche, di visibilità dell’azione di governo, di racconto (annuncio o rendiconto) delle politiche proposte, in sostanza di giornalistizzazione della funzione politica pubblica e di modesta crescita della socializzazione della funzione istituzionale di accompagnamento. Spiegazione circoscritta a norme e servizi, a regole e funzionalità, a diritti e doveri, al rapporto tra legalità e illegalità, soprattutto al rapporto che connette le regole a opportunità e rischi. Non un wikipedia tuttologico, ma la colonna sonora della responsabilità sociale.
Questo giudizio non intende criminalizzare la componente giornalistica che opera nel quadro delle strutture comunicative pubbliche, dato che essa ha un grande potenziale sinergico negli strumenti di sintesi narrativa e di spiegazione semplificate delle cose difficili. È proprio la finalizzazione del complesso delle funzioni che ha perso equilibrio, facendo dei portavoce dei vice-ministri oppure dei vice-sindaci (a volte poco informati sui caratteri tecnici delle funzioni istituzionali ma esperti di marketing politico) e dimostrando che i responsabili della comunicazione erano funzionari per due terzi (ricerca recente delle università francesi sulla tendenza in Europa) lontani dall’interazione sistematica con gli ambiti decisori.
In tema di accesso, la citata legge del ’90 si riferisce all’accesso agli atti amministrativi (e quindi alla libertà di regola e alla secretazione solo per deroga normata di utilizzo del patrimonio informativo pubblico) – che non vi è dubbio che sia parte dell’approccio qui indicato – mentre, proprio i comunicatori pubblici di allora (ricordo le prime istanze della Associazione della comunicazione pubblica e istituzionale fondata nello stesso 1990) cominciavano a pensare a un concetto più estensivo. Cioè legato alla caduta di barriere relazionali nel senso sia dell’ascolto che della condivisione. Riconoscendo ora che nell’evoluzione tecnologica dell’era internet questo tema ha aperto le porte alla tematica di Open Data, che è parte della sinergia Stato-Società e soprattutto Stato-Imprese.
Ecco, proviamo a domandarci, adesso, se è stato normale che i magistrati italiani abbiano aspettato questo 2018 per avere un (meritorio) primo quadro di profili per la comunicazione istituzionale definiti in sede di CSM e che non ci sia ancora un obbligo di spiegazione su cose di portata pesantissima per la gente come lo sono le” sentenze”. Proviamo ad aprire un reale dibattito in seno alle strutture militarizzate della difesa e della sicurezza per capire (pur con tutti i casi di straordinaria esperienza di socializzazione che alcune loro componenti continuano a vivere) che cosa realmente gli operatori sono autorizzati a concepire come quadro funzionale della loro comunicazione pubblica (con punti oscuri che riguardano vicende anche recenti[8]).
Proviamo a datare quando sistema scuola e sistema salute hanno modificato il principio che “spiegare” una bocciatura così come una malattia avrebbe fatto correre il rischio di veder diminuito un principio di autorità. Parlo di due mondi che hanno fatto molto cammino, molte trasformazioni, molte esperienze. Ma se si pensa allo spettro vero del potenziale di spiegazione che c’è dietro a professioni di questo genere, si capiscono anche le fragilità di questi tragitti, non sempre adeguatamente sostenuti. Se pensiamo alla rottura sociale determinata dai nuovi linguaggi e dalla nuova comunicazione digitale, misuriamo che cosa si poteva fare per i processi di nuova alfabetizzazione.
Un trattamento a sé merita l’ambito delle pubbliche amministrazioni esposte ad un dialogo socialmente limitato alle categorie “alte” del sistema produttivo e professionale, in cui si sono inquadrate culture non solo giuridico-amministrative ma anche tecnico-economiche e che hanno espresso capacità di dialogo importanti. Ma anche qui il risvolto del dialogo sociale non è stato curato a sufficienza, basti pensare alla difficile e incompiuta evoluzione del sistema fiscale italiano (altrimenti non avremmo ancora l’evasione che abbiamo) in ordine alla normalizzazione dei comportamenti fiscali degli italiani. Vorrei aggiungere considerazioni sull’ambito delle questioni scientifiche e bioetiche, dove le resistenze alla “spiegazione” sono generate anche da molti fattori extra-amministrativi, ma devo contenere in modo allusivo questo quadro di riferimenti.
Attuazioni lente, mentre la velocità cambia il mondo
Nel 2005 svolsi una indagine nazionale per conto del Ministero della Funzione Pubblica per capire il primo quinquennio di applicazione della legge 150, quella che istituiva l’obbligatorietà della funzione comunicativa, riscontrando che il 50% delle amministrazioni non applicava nulla di quella legge e che pochissime applicavano, almeno nel quadro di autodichiarazioni, tutto il potenziale supportato dalla normativa. Si capiva che i tempi di recupero – così come per la legge 241 del 1990 – sarebbero stati lunghi perché culturali. Dunque virtuosi solo se sostenuti da grande volontà politica, da educazione civica della domanda, dal sostegno dell’intelligenza della progettazione tecnologica. Sciocco dire che il sistema si sia fermato. Sciocco dire che il sistema sia evoluto integralmente con un raggiungimento del livello di cultura del servizio e dell’accompagnamento che alcune esperienze nazionali europee vantano da anni.
Introduco qui il tema dello sguardo all’oggi che avevo annunciato all’inizio.
Chiunque abbia buon senso ammetterà che il potenziale di servizio e di accompagnamento non può limitarsi a sostenere le politiche di adempimento verso lo Stato, ma deve svilupparsi alle politiche di bisogno, di spaesamento, di orientamento egualitario delle opportunità, di fronteggiamento di disgrazie che riguardano catastrofi e crisi produttive, eccetera, svolte da uno Stato che dovrebbe “spingere” la società alla sinergia di crescita e di competizione, ricevendo dalla società a sua volta la spinta cognitiva e anche finanziaria che la società può dare per attivare gli obiettivi che lo Stato non può seguire in forma autarchica.
Vi sono molti temi in cui la società corre più velocemente delle leggi e della burocrazia, dalla ricerca all’evoluzione dell’impresa alle spinte emancipatorie di cui sono protagoniste parti immense della società stessa, si pensi alla vicenda delle donne nel ‘900 (che in Italia hanno conquistato il diritto di voto solo nel 1946 e che dal ’68 a fine secolo hanno trainato il più grande cambiamento sociale della storia d’Italia). Dunque non è lo Stato la fonte culturale primaria della “spiegazione”, ma è quella che ha disposizione la maggior parte degli strumenti per aiutare la fasatura pubblica tra regole e comportamenti, ivi compresa la fisiologica spinta al cambiamento delle stesse regole.
E allora, se è vero che quel potenziale è stato ridotto, sviato e non collocato nelle strategie sociali prevalenti, si disegna grande come una casa lo spazio dentro una società che, soprattutto nei suoi vasti ambiti meno garantiti e meno alfabetizzati, ha costruito, nel vuoto di conoscenze di pubblica utilità adeguate (tra cui primeggiano oggi nel mondo le conoscenze statistiche corrette), una domanda sempre meno razionale di gestione di paure, di sospetti, di incertezze, di trascinamento provocato dal taglio allarmistico e spettacolaristico del sistema mediatico, spesso capace di alimentare quelle incertezze e quelle paure solo e unicamente per ragioni di marketing mediatico. Appunto una domanda sempre “meno razionale”, dunque covata fuori dalle regole e dalle parole del dibattito pubblico omologato. Una domanda che l’antropologia e la psicologia sociale hanno indagato da oltre un secolo nel campo della cosiddetta “psicologia delle folle”[9].
È evidente che il ceto politico (sono pronto a controfirmare un elenco dei virtuosi, ma quando si perdono le guerre perdono tutti) ha trascinato nel senso descritto un processo che chiedeva invece investimento a crescere. Mi si consenta qui un solo dato biografico, che riporta al citato libro-intervista, che riguarda le ragioni della mia sofferta ma volontaria uscita dalle funzioni di capo Dipartimento alla Presidenza del Consiglio nel 1995 (ne ero stato preposto nel 1985) quando il governo in carica, dopo cinque anni di tentativi di varare il “secondo tempo” di quella esperienza considerò le proposte sul tavolo interessanti ma non praticabili, come per altro i precedenti e i successivi governi. Essendo le proposte la agenzializzazione trasversale competente ed efficace sia della comunicazione pubblica (modello inglese), sia della promozione culturale e comunicativa internazionale (modello tedesco). Rifacendosi entrambe le ipotesi al proflo che allora Giuseppe De Rita chiamava dello “Stato funzione” per distinguersi dal profilo dello “Stato soggetto”.
Quel ceto politico – con alcune lodevoli eccezioni – aveva orientato il tema comunicativo soprattutto in funzione della proprio battaglia di visibilità, sempre più difficile per la progressiva dequalificazione organizzativa e professionale del sistema dei partiti. Così da far immaginare che la comunicazione istituzionale avrebbe dovuto caricarsi sulle spalle l’infragilimento progressivo della comunicazione politica dei partiti. Una cosa che ha nella mancata riforma dei partiti l’errore tragico di pensarli come istituzioni ma di farli vivere come soggetti privati.
Un ceto politico, che anche nelle nuove leve, non ha avvertito a fondo il rischio di questa pratica, in fondo perché ognuna delle sue componenti si sentiva legata al modello della delega. Magari con lanci casuali di parole d’ordine partecipativo, ma nella sostanza costruito sulla forza della cultura della democrazia rappresentativa che tuttavia in molte parti del mondo inquadra pratiche di democrazia partecipativa per alimentarsi e per rendersi credibile, ma che in Italia non ha nemmeno normato e promosso davvero le regole basilari del “dibattito pubblico” sull’attuazione delle grandi infrastrutture. Se la partecipazione è una predica occasionale, si rafforza la certezza che il regime della delega non sia contestato all’interno del sistema e si diffonde l’idea che sia sciocco e inutile mollare un privilegio[10]. Una cosa però va detta: la formula della delega è stata vissuta in generale con lo spirito churchilliano della “democrazia come male minore”. Vi è stato chi, negli anni, l’ha anche vissuta soprattutto come responsabilità rendicontante. Non tutti.
Oggi la deriva, oggi l’incertezza, oggi l’assenza di attori competenti per una riforma necessaria
Questa lenta deriva ha travolto (naturalmente insieme ad altre immense concause) il quadro politico dopo il 4 marzo disegnando un passaggio ad una stagione che ha sciolto come neve al vento quello che pareva inamovibile cemento. Come nei contraccolpi meteorologici, il contesto elettorale ha accolto, alla fine unendoli, venti diversi ma con potenziale distruttivo: sia il vento della protesta costruita sull’esacerbazione delle paure, sia il vento della proposta di mirare al cuore di quella politica della delega, fumosamente sostituita da forme di democrazia diretta.
Cosi il “muro di Berlino” del trascinamento della prima Repubblica in un terreno di sempre minori qualità è caduto al suolo con una discontinuità che doveva esprimersi. Pur facendo comprendere fin dalle prime battute che i due apparati di scontro che hanno vinto e assunto il governo erano per lo più impreparati. Impreparati a gestire la complessità dei problemi, impreparati a disporre di un vero ceto tecnico di supporto, impreparati a costruire – in alternativa alle mancanze accumulate – finalmente adeguare politiche di spiegazione. Perché – salvo in certi ambiti territoriali – mancano con evidenza ancora le cognizioni necessarie, le regole e la formazione professionale per cambiare rapidamente quella velocità che si è sempre più ridotta nell’esperienza collettiva.
Insomma il quadro istituzionale avrebbe avuto almeno quasi una trentina di anni (dal 1990) per dare consolidamento ad una politica di rapporti con i cittadini capace di costruire un fondamento moderno di rassicurazione. Pur ammettendo la lotta tra due culture dell’amministrazione che si sono fronteggiate in questi anni, il risultato è che li ha usati invece per determinare per lo più incertezza e disorientamento, su cui hanno costruito consenso non i più capaci, i più competenti, i più sperimentati nelle soluzioni, ma (Massimo Recalcati su Repubblica del 5 settembre) i più orientati a cogliere pulsioni profonde e pericolose oppure (Fabrizio Luisi su Sinistrainrete del 22 agosto[11] ) i più orientati a colpire la cultura politica della delega.
Il dibattito sulle conseguenze di questo passaggio è molto complesso e non appartiene ora al breve spazio di conclusione di questa nota buttare lì qualche parola non sufficientemente pesata.
Limito la conclusione a qualche spunto che riguarda i principali soggetti in campo.
1. Si dovrebbe discutere anche del quadro di responsabilità oggi in atto nelle pubbliche amministrazioni e nei servizi pubblici. Esso potrebbe pure essere sufficiente a far maturare un autonomo salto di qualità, anche se temporaneo, rispetto ai temi qui trattati. Ho provato a interrogare qualificati operatori interni, dotati di senso critico. Mi pare che la risposta veda queste responsabilità, ancorché residuali, ma che le veda capaci di esprimersi ormai con poca luce autonoma. Cioè solo se coperte dalla politica di turno, con il vecchio stile delle “canne al vento” della burocrazia italiana degli anni postbellici, in cui questo esercito ormai ben pagato e in molti casi dotato di poteri tecnici di istruzione e di proposta, preferisce non esporsi e salvaguardare le prerogative. Insomma non ci si aspetta che in generale (proverei in principio a concedere ad alcune categorie – educazione, salute, ricerca – la speranza invece di una crescente ansia di trasferimento della conoscenza) possa venire un grosso contributo spontaneo immaginando che la maggior parte dei comportamenti assuma più la forma della deresponsabilizzazione che prende anche gli aspetti della formalistica autoprotezione.
2. Prima di rilanciare la motivazione e l’orientamento ad una cultura non occasionale del sociale, l’attuale quadro di governo dovrà metabolizzare molte cose. E dovrà anche uscire dall’attuale stile di fronteggiamento dei problemi più con annunci che con spiegazioni, più con provocazione produttiva di consenso a breve che di gestione della fisiologia dello sviluppo. Certo evolverà, certo andrà verso orientamenti oggi non prevedibili. Magari si riformerà in senso più maturo. Difficile dire tempi e modi del cambiamento che servirebbe ai cittadini; mente per ora il cambiamento raccontato riguarda soprattutto la sostituzione degli incarichi di governo. Colpisce la gittata corta della vis polemica sulla delega, che dovrebbe essere l’arma più forte. Sono bastati gli inevitabili attacchi a raffica dei media e ora decisioni coerenti con le premesse dei fatti della magistratura per far gridare i leader di M5S e della Lega, rispettivamente nel mirino, proprio all’invocazione della delega, esattamente come ha fatto il ceto politico di sempre, con Matteo Salvini che ha addirittura chiamato i suoi elettori “complici” e ha creduto di delegittimare i magistrati perché “non eletti da nessuno”. Il vento non soffia più?
3. Intanto anche l’Europa non ha la forza di reggere la spinta sul terreno dell’armonizzazione, svolta in altri tempi (salvo che per aspetti molto tecnici che continuano con automatismi) proprio perché nel campo comunicativo lo scontro tra le due Europe (pro e contro il sovranismo) ha isterilito soprattutto le azioni istituzionali. Se non si troverà la quadratura di un rapporto paritario di diritti e doveri in materia di migrazioni (dove tutto richiede “spiegazione”, dalle cause alle conseguenze, passando per le verità statistiche e per la cooperazione internazionale atta alla prevenzione) lo stallo rasenterà il rischio di fallimento generale.
4. Così la transizione che si è profilata per ora non risulta nemmeno disturbata da un grande progetto reattivo delle opposizioni, in cui a destra e a sinistra prevale lo scontro interno identitario. Si vedrà se qualità e velocità terranno in considerazione i dati precipitati della situazione.
5. Circa il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, è giusto riprendere qui il cenno fatto in precedenza sulla funzione storica di “spiegazione” collettiva e innovativa, per interrogarci sul presente. Solo la vera autonomia non dalla vigilanza delle istituzioni ma dall’invasione della politica garantirebbe alla Rai questa continuità, adeguata al presente. Ma l’approccio alla ricomposizione della governance della Rai che è in corso si va scrivendo con il peggior manuale di comportamenti di sempre, a cominciare dall’ininfluenza dei profili reali delle candidature e dalle scelte compiute solo per misurare i muscoli dei proponenti e dei decisori.
6. Sia consentito infine (ma in fine soltanto per dare cornice istituzionale ai cenni fatti) richiamare il ruolo – che dall’epoca del presidente Sandro Pertini a oggi è sempre meno “olimpico” rispetto al quadro politico diffuso, e sempre più legato ad un rapporto morale con i cittadini – del presidente della Repubblica, che essendo soggetto per definizione che traina la comunicazione simbolica istituzionale riveste rilievo. Il nostro stesso presidente in carica, Sergio Mattarella, ha dimostrato di utilizzare il potere delle sue scelte (si pensi alla chiamata di Liliana Segre come senatrice a vita) con compenetrazione rispetto al tema che qui dibattiamo. Potrebbe essere che il suo triennio di compimento di incarico porti a sistema la consapevolezza di gestione di questa alta responsabilità.
Ecco dunque che l’esacerbazione mista al consenso cieco verso la proposta magica o miracolistica – questa la sequenza in atto – riporta al clima, agli irrisolti, al trascinamento alla deriva attorno a cui quel lontano 8 settembre del ’43 fu un punto di disvelamento e per alcuni l’inizio di una coraggiosa ricostruzione.
I punti di riequilibrio non sembrano rocciosi e dal quadro fatto sembra prevalere un ragionevole pessimismo.
Tuttavia non possono né l’ex funzionario “responsabile” né il professore ancora in servizio accettare una non soluzione, per non individuazione di soggetti trainanti. Almeno qui si può e si deve guardare agli studenti e ai giovani, a coloro che stanno riconoscendo nell’apprendimento – magari quello un po’ sofferto e partecipato – una leva per la riorganizzazione della speranza, anche esigendo qualità nel nuovismo elettorale che essi stessi hanno determinato, immaginando che per essi la parola “spiegazione” non riguardi solo l’astrusità delle materie scolastiche ma anche la formazione di una domanda civile con l’obbligo altrettanto civile delle istituzioni di depurare la propaganda e servire il consolidamento critico.
Ciò a una condizione: che la serietà, anzi la gravità del passaggio storico che stiamo vivendo, metta la parte migliore di questa generazione in condizione di provare il brivido e l’ebbrezza della intuizione di un futuro possibile, come la ebbero i giovani che diedero “popolo” al Risorgimento e i giovani che diedero “dignità” alla Resistenza. Ora solo con le armi della ragione e della passione, si intende. Sarebbe questo il punto di connessione più forte rispetto ai “ragazzi” diventati uomini in quel lontano 8 settembre del 1943.
Note
[1] Stefano Rolando con Stefano Sepe, Il dilemma del re dell’Epiro. Vinta o persa la guerra della comunicazione pubblica in Italia?, ES-Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.
[2] Economia e gestione delle imprese, nel cui ambito è collocato – con molte appartenenze – il Marketing, nel cui sotto-ambito ho cercato poco fruttuosamente di concepire come accettabile l’idea del Marketing pubblico, che ha sviluppato in verità poche appartenenze.
[3] Per una base storica che consenta ampia condivisione: Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze. Bologna, Il Mulino, 2003.
[4] La foto, straordinario scatto del sottufficiale ricognitore della Compagnia, fissa alla fase finale di quella vicenda il trasferimento della Compagnia dall’isola greca alle coste turche (mio padre è al centro con cinturone di traverso).
[5] Gregorio Arena; Cittadini attivi. Un altro modo di pensare l’Italia, Laterza, Roma-Bari, 2006. In materia di sussidiarietà: http://www.labsus.org/author/gregorioarena/
[6] Un buon compendio critico della letteratura accademica e saggistica sulla materia in Letizia Materassi, Comunicare le Amministrazioni. Problemi e prospettive, Carocci, Roma, 2017.
[7] Rinvio a una buona definizione colta in rete (https://unaparolaalgiorno.it/significato/S/spiegare Spiegare, spiegazione. “Aprire completamente qualcosa; far capire, rendere chiaro. Dal latino: explicare, composto da ex fuori e plicare piegare. È una parola facile, di pronto uso, che scivola continuamente nei nostri discorsi; ma la sua immagine etimologica merita una riflessione più profonda. Spiegare significa aprire qualcosa di piegato su sé stesso: si possono spiegare vele, teli da mare, giornali. Ma è nel suo senso figurato che questa parola mostra il suo significato più pregnante: quell’azione viene estesa all’apertura di un sapere. Si tratta della prima fase della trasmissione della conoscenza, in cui questa viene dipanata e resa palese, chiara, fruibile. Il riferimento alla piega non è peregrino o casuale: l’origami di una disciplina va spiegato passo per passo secondo le sue successive involuzioni; il costo di una spiegazione bruta è uno strappo, o un accartocciamento ancora più contorto. Si spiega il complesso, si spiega il semplice: anche questi due concetti sgorgano da quello di piega, e differiscono solo per il numero e la difficoltà delle loro falde”.
[8] Un quadro significativo di irrisolti è stato offerto di recente da Ernesto Bellisario e Guido Romeo nel loro Silenzi di Stato – Storie di trasparenza negata e di cittadini che non si arrendono, edito da Chiarelettere, 2016.
[9] Gustave Le Bon (1841-1931) è considerato il fondatore della psicologia delle masse. Fu il primo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, entrate allora prepotentemente tra gli attori della storia con gli sviluppi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, cercando di identificarne i caratteri peculiari e proponendo tecniche volte a guidarle e controllarle. Applicando un paradigma di studio scientifico derivato dall’approccio clinico, Le Bon utilizza i concetti di contagio e suggestione per spiegare i meccanismi della folla che portano all’emergere dell’emotività dall’istintualità e dall’inconscio, altrimenti repressi negli individui dal controllo sociale (Wikipedia).
[10] Argomento sviluppato in Stefano Rolando, Comunicazione, poteri e cittadini. Tra propaganda e partecipazione, EGEA, Milano 2015.