Aggiornamento di un approfondimento. Oggi Rino Formica, rispondendo a Walter Veltroni, dice qualcosa in più.

Il 15 giugno sul giornale on line Linkiesta ho scritto un commento ad una (per altro riuscita) commemorazione di Gianni De Michelis[1], in cui, concludendo, ho svolto questa riflessione, che per la verità ha ottenuto qualche commento di attenzione e interesse, che ripropongo qui chiedendo scusa di ciò ma considerando alcune parole necessarie all’aggiornamento della questione, che mi ha – come si leggerà – colpito ma non sorpreso:
“Si dovrebbe provare a rispondere con più coraggio al perché del processo destruens. Quello in cui finora le voci in campo hanno tendenzialmente scaricato su altri le ragioni più evidenti – quindi a buoni conti esistenti – dell’annientamento (i comunisti, i magistrati, i media, persino i “corpi interni” di uno Stato conservatore abituato – già dal fascismo – a liquidare per primi i riformatori). Negli ultimi anni il mio personale pensiero è andato a una insufficienza strutturale della formazione della classe dirigente socialista a cui nello schieramento riformista mancava (abbastanza) il pessimismo lamalfiano, il minoritarismo pannelliano, il diplomatismo dei miglioristi, il primato sociale dei cattolici, eccetera. C’era diffusamente – e la giornata di oggi è stata una solare rappresentazione – la certezza del successo, la percezione di vivere nel film giusto e di perseguire obiettivi giusti e raggiungibili. C’era in molti l’auto-conforto del lieto fine. Detta con altre parole, nella formazione di quella “generazione” (con mia “appartenenza”, anche a quello spirito, da metà degli anni ’70 a metà degli anni ’80) non c’è stata sufficiente e temprante educazione alla sofferenza, ovvero alla sconfitta possibile (che apparteneva tendenzialmente ad altre culture politiche). E quindi a vivere l’occasione storica come un laboratorio a metà tra l’entusiasmo della costruzione e la simulazione del “piano B”, fatto di meditate reazioni a delusioni, mascalzonate, sabotaggi, insufficienze. E persino reazioni al destino imprevedibile (leggibile in modo tanto storico-laico quanto religioso) che rovescia spesso piani e volontà. Un clima psicologico che assomigliava al tempo del positivismo di fine ottocento che non voleva o non poteva neppure immaginare gli esiti nefasti che il ‘900 stava per riversare su tutti. Claudio Martelli una volta (credo in occasione della conferenza di Rimini) si interessò al tema del “dolore”, ma forse per intuizione scenaristica. Quello che forse aveva più intuito l’esigenza del “piano B”, ovvero del tempo lungo di una marcia sofferta, era il tuttora vivo e vegeto Rino Formica che sintetizzava la politica professionale con due parole: “sangue e merda”. Ma al tempo era un monito che si confinava nella tornitura trotzkista di un compagno un po’ più anziano e un po’ particolare. Il copione ai più faceva leggere un’altra sceneggiatura. E in un lampo il film finì in modo imprevisto”.
Leggo oggi sul Corriere la lunga intervista che Walter Veltroni fa proprio a Rino Formica, ultranovantenne, come prima puntata di una serie dedicata a “I misteri e la fine della prima Repubblica”[2]. In essa l’ex-ministro socialista, dopo aver riposto a disparate questioni su molteplici argomenti, dice:
“La sinistra non esiste senza la sofferenza. Io ricordo sempre una frase che la Kuliscioff aveva pronunciato nel 1926, intervistata da Giovanni Ansaldo, allora ancora antifascista, che le chiese: “Ma dove avete sbagliato?”. Una domanda che si può, si deve, fare sempre quando un grande patrimonio viene improvvisamente distrutto. Lei rispose: “Non vi esercitate in grandi elucubrazioni, cercate di capire una cosa: alla base di una sconfitta, vi è sempre una dirigenza che non ha sofferto”.
[1] https://www.linkiesta.it/it/blog-post/2019/06/15/maratona-de-michelis-racconto-di-una-bella-generazione-ma-risposta-fra/28117/
[2] Walter Veltroni, “La prigione di Moro? Lo Stato non ha voluto trovarla”. Intervista a Rino Formica, Corriere della Sera, pagg. 16-17, 8 luglio 2019.