In Rivista italiana di comunicazione pubblica – 25 agosto 2019 – https://www.facebook.com/notes/rivista-italiana-di-comunicazione-pubblica/dopo-aver-chiesto-a-gran-voce-alla-comunicazione-politica-di-rinnovarsi-siamo-st/2752374018114604/

Stefano Rolando (1)
C’è una discussione che prima o poi andrebbe affrontata seriamente. Quella del “disinteresse” della società e in particolare dei giovani per la politica. L’argomento ha attraversato molti paesi europei e, in Italia, lunghi decenni. Più si succedevano diciamo “governi grigi”, di destra o di sinistra, con figure a volte anche dignitose, ma vittime dello sfiorire di una dote narrativa, poco idonei a sollevare tensioni ideali, portati ad attitudini da “addetti ai lavori” con un sistema parlamentare cornice quasi sempre incapace di fare notizia, più era difficile dire ai giovani di “appassionarsi”, più era difficile immaginare i cittadini davvero partecipi di questo anello di Saturno visibile ma distaccato.
Poi sono entrate in scena figure politiche più giovani, più assertive, talvolta più divisive, comunque con una comunicazione in generale più semplificata. La percezione che qualcosa cambiasse nella relazione con i cittadini – in particolare con i giovani – si è avuta per esempio nei nostri corsi universitari di comunicazione. L’interesse di molti studenti del settore, che una volta sarebbe andata piuttosto alla comunicazione di impresa, con tradizione creativa e linguaggi d’avanguardia, andava diminuendo anche per la progressiva banalizzazione del prodotto di questo segmento. E aumentava l’interesse per il carattere più agonistico, più sfoderato, certamente anche più virulento della comunicazione politica. Con l’affermazione dei nazionalpopulisti interesse e partecipazione hanno cominciato a riguardare anche segmenti sociali più estranei: casalinghe, geometri, impiegati del catasto, precari, vattelapesca in coda per il più banale dei comizi con toni sempre più esclamativi. Fino alle corse nei paesi per accompagnare il solo arrivo di uno dei dioscuri del governo gialloverde, fino alle esultanze dai balconi di Palazzo Chigi, fino alle code dei villeggianti per accedere a un selfie praticato sul proprio cellulare dallo stesso ministro dell’Interno.
La comunicazione politica torna in auge
Veniamo al punto. E’ evidente che la ormai superata critica alla crisi di comunicazione della politica rimuginava modelli di partecipazione che appartenevano a storie smarrite della prima Repubblica. Anzi a momenti eroici e quindi davvero lontani di quelle storie. Al massimo erano modelli che si erano allungati alla stagione di un grande affabulatore democratico come Barack Obama, tuttavia con poca influenza sulle trasformazioni già in atto in Italia (2). Il ritorno in auge della politica e soprattutto della sua comunicazione è arrivato con i modi, le forme, i linguaggi di un cambiamento sociale che è stato motore sostanziale non solo della cambiata comunicazione ma soprattutto della cambiata sostanza del ruolo affidato alla politica riguardo al rapporto simbolico tra rappresentanza, narrazione del presente e evocazione del futuro.
Dopo lo stupore, ora pare crescere un po’ di orrore verso questo protagonismo di modelli costruiti su valori scadenti assurti a metafora di una relazione diretta e liberata con la politica. Sono molti – io stesso che qui scrivo – a chiedere più “sobrietà”, pensando non solo alle forme comunicative ma anche a quelle antropologiche, diventate una forma insopportabile di “papeetizzazione” della politica. Ha sollevato diffusa irritazione, nell’episodio di Milano Marittima, “l’inno di Papeete” una sorta di coro sguaiato e cornice al vero inno di Mameli diventato colonna sonora per ballare in spiaggia. Il mio amico Gianluca Veronesi (molti anni in Rai) criticando le forme recenti della comunicazione politica ha scritto che “stiamo assistendo alla prima crisi politica “virtuale”: la politica digitale a forza di vivere su internet finisce per prendere sul serio i sondaggi che essa stessa inventa”. Insomma il “cambiamento” è arrivato così forte da rimettere in movimento una nuova dialettica, forse generazionale, tra esterrefatti e soddisfatti.
Togliere qualche aureola al “nuovismo”
Non possiamo insomma sfuggire a questa possibile discussione che forse finirà per spiegarci anche i caratteri di incomponibilità del “far politica” tra chi si ostina a leggere la dialettica come destra/sinistra e chi ormai – prendo qui per buono il paradigma di Veronesi – preferisce spostarsi sull’antagonismo tra contenuti e virtualità. In realtà sarebbe importante per la società italiana ritrovare il baricentro delle proprie aspirazioni, delle proprie delusioni, delle proprie possibilità di adattamento. Le critiche ai vecchi sistemi sono ormai piuttosto acquisite. Forse sarebbe utile cominciare a togliere qualche aureola al “nuovismo”. Il passaggio che viviamo, infatti, non è esattamente lo stesso del Futurismo che sbeffeggiava la società solenne del primo Novecento. O del rock&roll che mandava in pensione i cantanti melodici alla fine degli anni cinquanta. Pare piuttosto il protagonismo della relazione identificativa con modelli che abbandonano l’eleganza della comunicazione borghese (che arrivò anche a contenere al proprio interno spezzoni di comunicazione politica estremista) e al tempo stesso la pacata forza di contrasto della comunicazione operaia e contadina, per decretare la grande vittoria dei modelli simbolici della politica che mescola due caratteri involuti per una società in crescita e in sviluppo: protezione ed esibizione.
Non c’è dubbio che un programma come “Propaganda live” di Diego Bianchi – pur con la sua estrema quanto facilitante romanizzazione del linguaggio (3) – abbia dato e stia dando un bel contributo ad aiutare molti a fare un passo avanti verso un nuovo baricentro, moderando gli stizzosi e problematizzando gli entusiasti. Ma il dovere di chi tenta un po’ di analisi è anche quello di non mettere tutto in caciara e di propore qualche punto fermo. So di rischiare qualche contumelia ma mi azzardo a leggere almeno una parte di ciò che passa oggi in particolare in rete sotto la voce “comunicazione politica” come una inarrestabile evaporazione dei riferimenti agli interessi generali (che comportano riferimenti storici, costituzionali, sociologici corretti).
Una storia che cominciò in piena seconda Repubblica quando parve non produrre scandalo più di tanto il fatto che dietro alla storia vecchia come il mondo delle olgettine apparve la storia in qualche modo “nuova” delle loro madri scatenate per ottenere dal Cavaliere “giuste” mercedi. Ora siamo a una sequenza inarrestabile di tripudi di piazza per i messaggi più demagogici e poveri della storia repubblicana (ostentazione pseudo religiosa compresa) a cui abbiamo assistito fino alla deflagrazione della crisi del governo giallo-verde (in qualche modo persino sanzionata dal capo di quel governo, Giuseppe Conte, con il limite politico di aver voluto leggere un solo reo nella gara a due di quella vicenda involutiva).
Con breve sguardo all’Europa andrebbe detto che la vera novità dell’introdursi in molti paesi europei del tema della sostenibilità ambientale come nuovo collante di politica, economia, cultura, scienza e questioni identitarie ha fermato in più contesti derive con caratteri simili, mentre l’Italia è stata finora solo lambita dal fenomeno.
Ciclo lungo o ciclo corto?
Non riguarda questa nota immaginare quale sia ora la soluzione a breve della crisi politica e di governo. Pochi in questo momento azzarderebbero un nettissimo exit. Ma riguarda questa nota cercare di rispondere alla domanda: potrà la soluzione di questa crisi modificare il ciclo di comunicazione politica che si è innescato e che ha maturato a sua volta naturalmente dissensi ma anche consensi, ovvero allontanando qualcuno dalla sala da ballo ma generando anche nuovi pubblici?
La qualità comunicativa di una fase storica (rappresentazione) fa percepire in modo magari rude ma anche autentico il senso di marcia del destino comune. L’impressione che trapela dagli addetti ai lavori della comunicazione politica (non si è fatto un serio sondaggio, ma la percezione delle nuove “letture” induce a pensarlo) è che il nuovo ciclo innescato sia probabilmente ben più lungo del tracciato separabile da una crisi di governo. Pochi pensano che il saliscendi di un governo o di una maggioranza possa in questa fase socio-culturale interrompere il percorso simbolico della politica che, non solo in Italia, ha cambiato vistosamente i suoi colori. Anche se ogni sforzo di re-indirizzo è naturalmente auspicabile.
Si sono infatti consolidati tre fattori destinati a incontrarsi e a piacersi: chi cavalca questa onda lunga della virtualità agonistica si diverte un sacco; chi interpreta le parti in commedia assiste a fenomeni di fluidità elettorale eccitanti che erano imprevisti nel passato; chi una volta doveva limitarsi all’applauso ai comizi e al solitario e nascosto diritto di voto, ora può distribuire centinaia di pagelle digitali ogni giorno sfogando il più popolar-populista dei bisogni collettivi, quello di parlare male degli altri e credere di avere sempre ragione. Aggiungo, dal mio abituale punto di vista, un quarto fattore che ha ancora di più distaccato l’Italia dall’Europa dove – non sempre senza difficoltà – vige ancora la distinzione delle fonti tra quella politica e quella istituzionale, che – questo è appunto il quarto fattore – in Italia è stata travolta(4). Proprio misurandosi sulla grande difficoltà di mettere in campo una classe dirigente (anche qui vi è il senso al richiamo al nuovo ambientalismo europeo) capace di tenere la connessione con le giovani generazioni ma al tempo stesso di rettificare l’immensa proletarizzazione linguistica in atto (5) si capisce che non basta trovare l’accordo su vecchie o nuove forme di “contratto di governo” per innestare la marcia che serve all’Italia per stare in corsa. La presenza puramente simbolica del premier italiano al G7 di Biarritz oggi è la più netta fotografia di questo impasse.
Note
- Docente di Comunicazione pubblica e politica (IULM Milano) e presidente del Club of Venice (coordinamento informale dei responsabili della comunicazione dei governi e delle istituzioni UE).
- E’ stata la stagione in cui la comunicazione politica in evoluzione coniava il suo nuovo verbo-bussola: narrazione. Un riferimento: Christian Salmon, Storytelling, Fazi, 2008.
- Senza trascurare la sua maturità classica al Liceo Augusto di Roma e la sua laurea in Scienze Politiche, relatore di tesi il prof. Domenico Fisichella. E segnalando la crescita dei 37,5% di audience del programma nella stagione 2018-2019 (Francesco Siliato su Huffington Post)
- Leggendo gli auspici alla trasformazione “onesta e veritiera” dei linguaggi pubblici che fa Gianrico Carofiglio (Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità, con Jacopo Rosatelli, Ed. Gruppo Abele, 2018), si capisce meglio la deriva della situazione italiana.
- Ne hanno scritto in tanti. Per l’autorevolezza della fonte e delle esperienze: Mark Thompson, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia, Feltrinelli 2017.