Se la UE decidesse di rilanciare sul serio la sua comunicazione…

La presidente designata della Commissione UE Ursula von der Leyen espone il suo programma al Parlamento Europeo (Michael Kappeler/picture-alliance/dpa/AP Images)

Pubblicato il 17.10.2019 su Rivista italiana di comunicazione pubblica (pagina FB on line)

Stefano Rolando [1]

Sono stato invitato dal team della Rappresentanza della Commissione UE
in Italia ad un incontro “visione/azione” su questo tema a ruota libera con alcuni altri esperti.Anche in vista dei piani annuali che, se l’iter diventato più accidentato dell’insediamento della nuova Commissione avesse ora
la velocità riprogrammata – dovrebbero iniziare la loro elaborazione
dopo l’1 novembre.  Solo parte di ciò che qui è raccolto in sintesi si è
potuto dire a voce. Integro volentieri questo “pensiero con gli occhi in
avanti”, anche in prossimità degli incontri dei comunicatori istituzionali europei (il Club of Venice, che presiedo) previsti a Bruxelles il 23 ottobre, ad Atene il 9 novembre e a Venezia il 5 dicembre, che tratterranno questa materia.

Dopo due fasi di stallo comunicativo

Si è detto più volte che, nel ciclone della crisi finanziaria innescata nel 2008, l’Europa ha conosciuto divisioni interne pesanti che hanno, come è evidente quando si contrappongono parti del commitment, ridotto, rimpicciolito e a volte anche azzerato un serio processo comunicativo, tanto valoriale quanto funzionale.

Dapprima contrapponendo governi e popoli che pensano che l’identità europea sia confinata nel concetto di mercato contro quelli che pensano che si debba parlare di identità politica. Poi contrapponendo Stati con maggioranze parlamentari europeiste a Stati con maggioranze (a volte solo con forti minoranze) parlamentari dette “sovraniste”. Si sono indeboliti i toni e i caratteri dei messaggi (più del tipo andate a votare che perché votare) e si sono cominciati a derubricare alcuni contenuti (per esempio sulle questioni migratorie e altro).

Ora, sulla carta, la svolta è determinata da una risposta elettorale che ha fatto prevalere un patto politico e una preliminare opzione verso il “progetto”. Anche se il Parlamento sarà terreno di non pochi conflitti abbiamo alcuni elementi di ripresa di una politica “comunicativa” (ancorché per il momento scomparsa dalle competenze di primo piano assegnate in Commissione, ma sottintendendo un’avocazione generale da parte della presidente Ursula von der Leyen).

Viene da dire al riguardo che lo scontro tra europeisti e sovranisti non dovrebbe essere letto solo come un rischio. In realtà esso ha rivitalizzato almeno il bisogno di una strategia europeista, basata sul fatto che le competenze comunitarie vanno piuttosto bene, mentre quelle intergovernative vanno piuttosto male, ovvero presentano le maggiori ulcere. Esso ha altresì mostrato che il sovranismo non unisce ma produce più conflittualità interna. E ha persino riportato una certa inclinazione – che pareva perduta – alla valorizzazione della memoria storica che riguarda anche la comunicazione.

Cercare di qualificare meglio i dati sulla fiducia e la credibilità

Il tema dello scontro “europeisti/sovranisti” resta però importante per il posizionamento dei gruppi politici e ha quindi il suo rilievo per il Parlamento, restando evidente che la Commissione non potrà infischiarsene ma anche che l’asse centrale della dialettica che la riguarderà sarà sull’agenda.

E l’agenda sarà determinata da processi reali e quindi l’analisi rischi/opportunità va proposta ora non tanto sul tema politico della campagna elettorale quanto sui nodi delle principali policies. Questa è – al momento – l’anticamera di qualunque scelta comunicativa. Con una premessa ancora che riguarda un dato centralissimo per qualunque piano di comunicazione: la condizione fiduciaria dei target. I dati sono pochi, aggregati e non studiati in termini qualitativi. Si sa che Eurobarometro (organismo finanziato dalle istituzioni UE) classifica il dato di fiducia verso l’Europa dell’insieme dei cittadini europei al 37% (dato che – pur lontano dal costituire una maggioranza fiduciosa – fu salutato come un’inversione di tendenza). Ma diventa essenziale non solo spacchettarlo per nazioni e territori ma anche per fonti sociali, economiche e culturali, corredandolo anche di distinzioni tra “fiducia, “credibilità” e “attendibilità”.

Dopo di che l’azione comunicativa potrà essere più mirata e più selezionata rispetto all’annuncio che la nuova Commissione ha fatto tenendo dentro – nelle priorità –  tutto il grosso dell’agenda: ambiente, digitale, economia sociale, qualità della democrazia, “stile di vita” (tema che impropriamente ha voluto anche riguardare, ma senza mettere “il tema in copertina”, le migrazioni e senza prendere di petto un dato statisticamente spinoso come la demografia). E infine il ruolo dell’Europa nei processi globali. Si sa che un tema sugli altri ha avuto l’onore di fare da cornice, cioè l’annuncio – traguardabile nel 2021 – del lancio di un Green Deal for Europe che dovrebbe avvenire “nei primi 100 giorni in carica”. “Proporrò – ha detto la presidente von der Layen ancora non insediata – un piano di investimenti per l’Europa sostenibile e trasformerò alcune parti della Banca europea per gli investimenti in una banca per il clima. Questo sbloccherà 1.000 miliardi di euro di investimenti nel prossimo decennio”. Precisando che sul clima “ogni settore dovrà contribuire, dall’aviazione al trasporto marittimo al modo in cui ognuno di noi viaggia e vive”.

E’ vero che si muove qualcosa rispetto alla selettività e alla visionarietà che un possibile successo comunicativo dovrebbe comportare. Ma si tratta di indicazioni ancora da vedere strutturate e progettate anche sotto il profilo comunicativo. Si sa bene, tuttavia, da che cosa siamo reduci. Dal perdurare di comunicazioni assediate dai conflitti inter-europei che hanno fatto emergere un’Europa al di sotto delle potenzialità circa la sua forza negoziale planetaria  attorno a vari temi: la fragilità nella coerenza interna sulla politica internazionale; l’approccio solidale ai processi migratori; la non adeguata promozione di un punto alto di equilibrio possibile tra crescita e uguaglianza (con dentro anche i nodi ambientali e sui modelli di sviluppo); la necessità di assicurare in tutti gli stati e a tutti i cittadini sempre misure di welfare competitive contro la crisi sociale; e infine – pur a fronte di molte parole spese e anche di misure in parte adottate –  la coerente scelta strategica a favore dellinnovazione. Lo stand by comunicativo della stagione Juncker è segnato anche dalla mancata ridefinizione identitaria dell’Europa a cui si è fatto prima cenno. Non per colpa specifica di Juncker ma perché quella stagione ha segnalato un diffuso ceto politico al potere che si è per lo più collocato nella dimensione della “visione corta”, certamente nel contesto degli stati nazionali. Insomma accettando i limiti del “presentismo” della politica contemporanea e così riducendo a vaghe aspirazioni quelle che dovrebbero essere vere e proprie strategie.

L’opportunità si chiama visione a medio e lungo termine

Fare piani a cinque anni, per molti di quei temi, significa ricopiare per lo più scelte già effettuate in relazione al rapporto conosciuto tra tecnologia e risorse. E questo genere di “piani” parlano soprattutto agli operatori (istituzionali e di impresa) che sono ora in sella, che ora hanno maggior potere, che ora gestiscono politiche di orientamento e consenso.

E’ evidente che resta un vuoto immenso: di iniziativa e di copertura di un target delicatissimo.

Il target è quello dei giovani e dei giovanissimi e l’iniziativa non può che riguardare un piano a medio-lungo cioè la proposta di un disegno tendenziale (di sviluppo nel quadro delle resilienze immaginabili) che faccia prefigurare la “casa comune” per il tempo in cui, per dire, i nostri millenials (1980-1995) e i nostri gen z (1996-2010) saranno a loro volta in sella in materia di responsabilità e decisioni.

Al tempo stesso la decisione di progettare (e quindi di comunicare) attorno alle tendenze di medio-lungo ha enorme importanza sui riflessi operativi riguardanti la formazione dei nuovi gruppi dirigenti. Cioè sulla partita della profilazione strategica dell’Amministrazione europea non tanto come rappresentanza di interessi nazionali (oggi criterio prevalente degli equilibri selettivi) ma come quadri formati nell’ibridazione linguistico-culturale e nelle culture progettuali (tecniche, creative, amministrative) che richiedono visione.

Insomma Il piano delle opportunità – elementi ricavati dalla realtà ma da potenziare – potrebbe così essere alla base di uno sforzo di elaborazione, magari affidato a contributi di soggetti e ambiti di forte esperienza progettuale nel sistema soprattutto dei paesi fondatori per arrivare a offrire all’Europa dei giovani un documento di visione che faccia individuare il tempo della loro vita matura. Così da impegnarli (estensione della pura mobilitazione generica della attuale vague sulle questioni del climate change) culturalmente, professionalmente e civilmente sulle garanzie che l’Europa può dare rispetto alla proibizione di sognare che appartiene oggi agli Stati membri, alcuni dei quali addirittura in fuga dall’Europa (Brexit) perché ha vinto la condizione di paura proposta dagli anziani.

Lanciare il tema del Green Deal for Europe solo in risposta allo scontro Greta/Trump è mediaticamente e forse anche politicamente comprensibile, ma culturalmente insufficiente. Quello scontro (tra una sedicenne sdegnata e un ultrasettantenne smaliziato) assomiglia ai tanti scontri ambientalisti del nostro ‘900, tra – come li descrisse Umberto Eco – Apocalittici e Integrati. Noi oggi dobbiamo leggere un programma tendenziale basato su ogni sfaccettatura della sostenibilità. Questo formerebbe nuovi cittadini europeisti e nuova amministrazione socialmente sensibile.

Sarebbe bello se – in questo quadro – la parte italiana di una progettazione di visione programmata, ovviamente insieme a reti universitarie di alcuni altri paesi magari fondatori, potesse utilizzare il suo potenziale universitario per una Scuola di comunicazione politico-istituzionale europea, che offerta in estensione del modello dell’Istituto Europeo di Firenze, fosse capace di agire sia sui quadri UE sia sulla formazione delle dirigenze nazionali che si occupa di relazioni europee, lavorando sulla relazione tra processi informativi e comunicativi e le grandi variabili delle politiche pubbliche, quali ad esempio: economia e innovazione; sviluppo della democrazia; profilo storico-valoriale dell’Europa; tema dell’identità e dell’appartenenza (tra territori, nazioni e visione unitaria dell’Europa).

Gli ambiti e gli strumenti della comunicazione

Abbiamo anche appreso che la nuova Commissione ha indicato cinque ambiti preferenziali di esercizio bilaterale della comunicazione istituzionale. Si comincia doverosamente con la responsabilità condivisa con gli Stati membri (dispiacendoci di non trovare finalmente citati i soggetti della prossimità e in particolare quelli dei sistemi urbani) e si toccano poi quattro direttrici: il coinvolgimento e l’interazione rispetto ai cittadini; la concezione di campagne corporate; la cooperazione mirata a combattere la disinformazione (con paesi membri che oggi consacrano una parte rilevante della loro comunicazione istituzionale contro le fake news nelle relazioni internazionali e altri ancora disattenti alla materia); il sostegno all’informazione educativa in materia di Europa.

Lodevoli, quanto forse non sufficienti superfici, rispetto a cui si potrebbero qui fare alcune conclusive chiose.

Promuovere oggi la cultura comunicativa europea significa agire su più piani. L’approfondimento di questi temi costituirebbe un’altra precondizione delle nuova fondamenta della politica comunicativa.

Vi è certamente un problema di miglioramento della relazione con lo spazio mediatico, che ancora soffre in molti paesi membri per essere riguardato nel ghetto della “politica estera”. Ma soprattutto si tratta di discutere come il nodo narrativo centrale possa migliorare l’orientamento a saper offrire argomenti supportati da notizia su l’Europa come soluzione e non come problema. Con tutta la revisione di argomenti di formazione specialistica per gli operatori dell’informazione e con la questione di adeguamento del supporto di immagini in queste narrazioni.

Vi è oggi con pari importanza un bilancio da svolgere circa la multistrada rappresentata dai social e in generale degli spazi formali e informali della rete.  Vanno costruite vere e proprie guide-lines capaci di intercettare sentimento e pratica della democrazia partecipativa, quindi affiancamento e per alcuni versi anche stimolazione con ampia sintonia a ciò che nella dinamica europea riguarda non solo gli stati-membri (che sono poveri di contenuto al riguardo) ma soprattutto le società intese come soggetto-membro, cioè l’europeismo sociale, che è altra cosa rispetto a quello di cui più si parla. L’intelligenza della Commissione – e in generale delle istituzioni UE – deve qui essere messa alla prova per ricucire proprio sul terreno del web il rapporto con le dinamiche politiche civiche e sociali quello che oggi la UE confina nel quadro delle dinamiche degli Stati (spesso nemmeno arrivando a interagire con le istituzioni di prossimità).

Siccome comunicazione pubblica non deve essere propaganda, è necessario immaginare un piano di sollecitazione e di accesso allo storytelling dei soggetti culturali e creativi (arte, cinema, teatro, letteratura, ecc.), che si rende possibile solo offrendo loro un percorso nell’immaginazione del cambiamento a medio e lungo termine. E passa attraverso un fondo di sostegno alla creatività attorno a quei contenuti con il presupposto che ci sia una politica e che ci siano ambiti percepibili di elaborazione.

Di pari rilievo è il rapporto con il sistema della formazione – anche ma non solo quello specifico delle formazione delle professioni del sistema informativo, comunicativo e relazionale – in cui misure di incentivazione possono essere studiate, sostenendo piani e progetti di cooperazione (almeno a tre soggetti di diverse nazionalità) e con ipotesi di formazione continua assicurata a professionisti che si occupano nei media di materia europea.

Infine – ma per l’ottica di chi scrive questa è una preoccupazione preliminare –  vi è la  rete degli operatori di comunicazione istituzionale, oggi anche individuabile nell’esperienza informale ma ultratrentennale del Club of Venice, ma anche da reti nazionali come quella francese di Cap Com, che deve essere materia di ampio ripensamento con un progetto di interazione e sostegno ben distante dalla semplice politica di testimonianza che oggi viene praticata nella convegnistica di settore, ma poi con scarsa interazione reale tra Bruxelles, governi e istituzioni nazionali e territoriali, persistendo ancora un tasso di gelosia alto che ha reso l’informalità del Club of Venice un rimedio importante ma non risolutivo perché nell’informalità vi è naturalmente anche la non decisionalità.  


[1] Professore di Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM di Milano, Presidente del Club of Venice e Vice presidente di Eurovisioni.

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