Smart city e trasformazione digitale. Importante l’integrazione di approccio con i temi del public branding

 Stefano Rolando 1

Nota per Rivista italiana di comunicazione pubblica (4.11.2019) https://www.facebook.com/notes/rivista-italiana-di-comunicazione-pubblica/smart-city-e-trasformazione-digitale-importante-lintegrazione-di-approccio-con-i/2907340005951337

Università IULM ha posto in essere nel 2018 un Osservatorio dedicato alla ricerca applicata e a progetti formativi attorno a tre ambiti disciplinari tra di loro molto connessi e sostanzialmente riferiti agli ambiti pubblici. Si tratta della comunicazione pubblica, che è materia il cui insegnamento proprio in quell’ateneo è stato attivato fin dall’inizio degli anni ’90; del public branding, un segmento di evoluzione applicativa, che ha trovato spazio per una didattica innovativa più di recente; e della trasformazione digitale che indaga alcuni aspetti di una immensa evoluzione, che investe naturalmente anche la pubblica amministrazione, in cui si vanno formando nuovi ambiti di espressione e relazione tra pubblico e privato, tra istituzioni, imprese e cittadini. Sollecitato a svolgere una riflessione per un convegno su finanza, tecnologia e democrazia, che in un certo senso connette questi tre ambiti, parlando delle politiche di sviluppo delle smart cities, riconduco qui i passaggi essenziali.

Milano, 3 novembre 2019

Attorno all’idea di smart city, pur essendo incerto il primato della definizione, si hanno approcci e circolazione del concetto soprattutto a partire dalla seconda parte del primo decennio di questo nuovo secolo. Quando, con una certa insistenza, il tema della progettazione delle infrastrutture materiali delle città vedeva un nuovo nesso con il capitale umano, intellettuale e sociale dei cittadini che le abitano. Capitale ovviamente messo a sistema dalle infrastrutture immateriali del web.

Fece discutere un progetto di implementazione “intelligente” pionieristico alla città di Rio de Janeiro nel 2010. In ogni caso l’Unione Europea dal 2009 mette in movimento il progetto “EU e smart city” che vuol traguardare il 2020 sostenendo con 12 miliardi di euro l’accelerazione per regioni e città di interventi di trasformazione tecnologica ambientale che hanno assunto nel decennio forma e caratteri in continua evoluzione. Dunque siccome ci siamo al 2020 sarebbero pure maturi i tempi per un bilancio di realizzazioni ma anche di concettualizzazioni con una immensa letteratura ormai disponibile.

Netta è la collocazione di questo capitolo di uno dei grandi disegni della modernizzazione dell’età digitale nel pianeta della “interdisciplinarità”. Basta sfogliare la stessa bibliografia di avviamento attorno al tema (sotto gli occhi il rapporto “Smart cities in Europe”, della Facoltà di Economia dell’Università di Amsterdam (2009) 2, per leggere tutte di un fiato le parole storia, urbanistica, architettura, progresso, comunicazione, ambiente, efficienza energetica, processi della conoscenza, e naturalmente rete e tecnologie, per vedere come questo ambito applicativo ha saputo tenere insieme componenti del fare, del saper fare e delle strategie di progettazione per innovare ogni genere di servizio pubblico.

Tanto le aziende quanto i governi delle città hanno messo in campo una stretta relazione tra investimenti e cambiamenti per rendere possibili piani di sviluppo e adeguamento di brevetti e performances. Dunque il marketing è entrato sollecitamente nello schema di progettazione delle smart cities per la necessità di mobilitare le necessarie risorse finanziarie, soprattutto private, in una partita che ha la sua prima ragione di “intelligenza” nel dialogo serrato su utilizzi e fini tra pubblico e privato. Terreno che sarà quello che farà appunto compiere il rapido passaggio concettuale da città digitale a città intelligente. E al tempo stesso che offrirà un vasto perimetro di ricadute progettuali attorno alle potenzialità di metropolitanizzazione soprattutto dei contesti urbani più connessi che conflittuali rispetto al loro hinterland. E – con una grande velocità di adattamento, trainato dai Politecnici di tutto il mondo – un coinvolgimento importante delle reti universitarie e di ricerca che si sono dimostrate idonee ad essere il laboratorio della sostenibilità di quei cambiamenti.

Forte di questo zoccolo robusto di implicazioni positive, la trasformazione del dialogo politico, scientifico e amministrativo degli ultimi dieci anni mostra che la grande centralità tematica del rapporto tra investimenti e fruizioni non esaurisce il potenziale interesse della materia.

Così che ambiti di analisi più collocati nella tradizione socio-economico-culturale delle comunicazioni (e soprattutto della comunicazione pubblica) hanno provato ad estendere approcci e contributi sulla complessità di argomenti che apparivano più in ombra in quel dibattito: attese, riluttanze, desideri, partecipazione, coinvolgimenti, marginalizzazioni e altri fenomeni collocati nella cornice più ampia della trasformazione digitale riguardante le città e i territori, tutti non difficilmente situati in una parallela domanda di nuova forma di governo.

Una cornice più allargata del dibattito pubblico sulla TD

Da alcune di queste questioni prendono le mosse gli stimoli di iniziativa di Osservatorio IULM. Un tema riguarda con evidenza la tenuta identitaria complessiva delle comunità investite nei processi di trasformazione. Esse riguardano le implicazioni (positive, ma anche divisive) riguardanti la coesione sociale messa in atto dai rapporti di appartenenza che vengono segnati non solo dai fenomeni di flusso (mobilità, migrazioni, urbanizzazione) ma anche da fenomeni di adeguata inclusione e quindi di gestione di opportunità tra di loro meno polarizzate. L’evidente contributo al progresso delle smart cities non è socialmente automatico, se non vengono accompagnate con attento e costante presidio tutte le interazioni di un ovvio ciclo di metabolizzazione pubblica.

Un altro tema che interagisce con evidenza è quello delle dinamiche narrative, che poggiano spesso sul bagaglio di una adesione alla tradizione a un certo punto mescolata anche alla resistenza degli stereotipi. La stessa invasività tecnologica delle forme dello spettacolo e della comunicazione porta nel radar quotidiano molte forme di esplorazione di linguaggi mutati e perfino di forme simboliche di futuro che possono esplodere ma anche modificare gli stereotipi, che possono rappresentare o escludere sentimenti collettivi, che possono restare intellegibili come racconto del nostro tempo oppure suscitare repulsione, non diversamente dall’impatto che, per esempio, arte e musica contemporanee producono in presenza o in assenza di mediazione.

Questi caratteri sempre più vengono a comporre il tema evolutivo del brand pubblico. Già questa stessa parola suscita a volte diffidenze politiche e professionali, se non imprecisa interpretazione. Dunque il terreno di marcia dei fautori dell’evoluzione dell’infrastrutturazione innovativa materiale (spesso sostenuto da investimenti comunicativi importanti) deve trovare incrocio e integrazione con il terreno di una più sottile marcia dei fautori dell’evoluzione dell’infrastrutturazione innovativa immateriale.

Nella dimensione urbana – in cui la dinamica di brand (identità e narrativa) prende ormai con un certo successo il nome di citytelling 3 – la gestione tra amministrazioni pubbliche e soggetti della rappresentanza è non solo auspicabile ma anche l’unica fruttuosa per non collocare i punti di convergenza né sul terreno dei soli interessi politici né su quello dei soli interessi economici.

Una “gestione equilibrata” è così fonte di sintesi e di chiarezza.

Comporta sintesi per esprimere con estreme concisioni definitorie ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà in una rappresentazione non necessariamente di discontinuità della cultura della comunità. Fino ad arrivare a perseguire una nuova costruzione reputazionale delle città stesse.

Comporta chiarezza sul fatto, mai abbastanza sottolineato, che brand non è proprietà del potere (di qualunque natura esso sia) ma è proprietà del popolo e quindi sopporta abitualmente male narrative verticalizzate, dichiaratamente propagandistiche, mono-vocalizzate. E tende (come nel passato, infrangendosi più volte con gli assetti autoritari e liberticidi) ad una segmentabilità per propria natura scomponibile, plurale, conflittuale ma anche, sempre per propria natura, tesa a convergenza con il bisogno di fare “patto” attorno ad un assetto narrativo collettivo accettabile. Spesso è proprio la battaglia tra alimentazione e riduzione dello stereotipo quella che vede il maggiore frizionamento. Ma a guardare bene essa è per definizione la battaglia più importante di tutto il processo innovativo innescato, più importante anche dei vantaggi sociali ed economici che il progresso tecnico mette a disposizione.

Comporta riscontri e quindi misurabilità. Statistici e operatori di ranking non vanno abitualmente d’accordo, così come analisti della realtà divergono per principio dagli analisti della percezione. Qui tuttavia le componenti allusive, simboliche, immaginifiche richiedono un certo avvicinamento dei piani della valutazione. Infatti la “trasformazione” ha indicatori utilizzabili, il successo o l’insuccesso del cambiamento non deve essere polvere gettata dagli amministratori sotto il tappeto perché questa trasparenza è parte di una responsabilizzazione collettiva. E infine la proposta di accoglienza e di integrazione deve trovare una lettura più ampia di quella finora riservata a fenomeni compresi solo negli immigrati, nei turisti o negli studenti. Esiste – con grande importanza – anche il flusso delle cose immateriali; delle buone o delle cattive idee; delle buone o delle cattive mode; del sostenibile o dell’insostenibile ritorno dello stereotipo altrove percepito; della variazione di giudizio sulle forme urbane e sugli stessi servizi urbani provocata nei cittadini che per un certo periodo fanno esperienze di altre residenze e tornano con attitudini giudicanti.

Cultura e responsabilità degli amministratori pubblici

Si assiste – non sempre, ma con una certa perduranza – ad una titubante e a volte confusa posizione degli amministratori pubblici di voler o poter connettere progetti di smart city solo in ordine alla realizzazione del dato finanziario.

Il che significa spesso una predilezione per il solo accompagnamento della leva di marketing nel disegno di questa progettazione. Anni di comunicazione sostenuta soprattutto dagli operatori industriali e tecnologici unicamente attorno alla “promessa” del posare cavi e fibre, argomento che ha certo il suo rilievo, senza tuttavia accompagnare un racconto capace di tenere in evidenza il senso complessivo del “cambiamento” che fin qui, pur in grande sintesi, si è cercato di descrivere, finiscono per essere un esempio di “vista corta” e soprattutto di “esito socialmente limitato”. Ciò che rende ora apprezzabile in alcuni casi la percezione anche di una articolazione comunicativa all’altezza della complessità dei temi.

Un esempio lo ha dato di recente l’assessore alla Trasformazione digitale del Comune di Milano Roberta Cocco, che ha indicato in quattro pilastri l’intero approccio alla materia. Due pilastri infrastrutturali: appunto l’infrastruttura digitale e i servizi digitali ai cittadini. E due pilastri sociali: l’educazione digitale (conoscenze di base per l’accesso) e le competenze digitali (diffondere il valore di avere un profilo digitale)4 .

Infatti la riclassificazione delle tipologie di “smart city” va ormai prendendo l’articolazione dimensionale che questo approccio – come molti altri – tendono a tenere a vista. La parola “intelligente” viene declinata per l’economia, la mobilità, l’ambiente, le persone e, naturalmente, per la vita e per la governance. Quest’ultima è a volte il problema, laddove la rigidità delle competenze non trova una adeguata mediazione interna e laddove le stesse diverse culture amministrative (un caso di scuola è il conflitto non sempre risolto tra cultura e turismo) non favoriscono una composizione. Ma a livello ancora più alto questa materia pone una questione di livello di conoscenza e responsabilità tra i decisori che dovrebbe avere connotati non sempre rispettati.

Dapprima la conoscenza profonda e critica del passato (che aiuta a riconoscere i caratteri irrisolti dell’evoluzione); poi la conoscenza del presente per non cedere alla demagogia di una intermediazione apparentemente filo-tecnologica che spesso sottende nuovi poteri di intermediazione. E ancora lo sguardo al futuro nutrito dall’attenzione costante a due indicatori: la sostenibilità del cambiamento e la relazione con le condizioni di manutenzione della democrazia 5. In quel futuro la tecnologia non deve stare dalla parte della riduzione ma della espansione degli equilibri tra diritti e doveri e, come è noto, qui si gioca quasi tutta la partita del controllo e della governabilità dei pur affascinanti percorsi dell’intelligenza artificiale.

Si aggiungono solo pochi cenni, a proposito, sui processi paralleli dei grandi sviluppi della trasformazione digitale.

Con altri presupposti, altri attori, altri contenuti, abbiamo imparato proprio in questi stessi ultimi dieci anni ad affrontare le opportunità e soprattutto i rischi del sistema di utilizzazione dei “Big Data”, che in taluni casi si rivela al servizio di interessi collettivi, in altri casi appare come materia di violazione preoccupante delle soglie non eludibili della trasparenza6 . Nei limiti di questa nostra nota il tema è ricordato perché riporta agli stessi decisori, agli stessi controllori, agli stessi utilizzatori la coscienza di piani di sviluppo che, al di là del rapporto tra investimenti e profitti, comportano oggi una capacità di lettura – talvolta necessariamente con ancora rari interventi preventivi – a condizioni incidenti tanto sulla qualità della vita quanto sul controllo invasivo sulla nostra vita.

Così come in parallelo scorre un altro aspetto della trasformazione digitale che si incardina sia nel dibattito sulla disintermediazione che su quello riguardante la partecipazione. Lo affronta di recente Geert Lovink, fondatore e direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, autore di Nichilismo digitale 7 che, in occasione dell’imminente Festival della Tecnologia di Torino, ha spiegato così quel titolo al settimanale La Lettura: “Nell’attuale stadio di sviluppo di internet abbiamo a che fare con infrastrutture e sistemi centralizzati che chiamiamo piattaforme e che sono completamente opposte alla precedente idea di architettura informatica. La piattaforma è infatti l’esatto contrario della rete, la quale è per definizione decentralizzata e distribuita”8 .

Nel quadro di una rigenerazione della comunicazione pubblica

Tutto ciò che si è fin qui detto è la pre-condizione di una rigenerazione della comunicazione pubblica nell’età della trasformazione digitale avanzata. Rigenerazione di voci, di superfici, di linguaggi, per alcuni anche di regole (anche se basterebbe al riguardo uno strumento di legittimazione culturale più che un articolato “organizzativo”). La fasatura multimediale della comunicazione pubblica avviene ancora per induzione degli spazi tecnologici, mentre ormai dovrebbe prevalere una formazione e una progettazione ambientale del rapporto relazionale tra comunicazione e comunità. Se così fosse non continueremmo a subire la più evidente sconfitta della comunicazione pubblica in Italia – materia che è prassi da trentacinque anni e legge da venti anni – attorno al dato confermato anche di recente di un analfabetismo funzionale del 47% 9.

Il recente avvio del “Festival delle città narranti” (Maratea, 25 e 26 ottobre 2109 , 10) – a cui Osservatorio IULM ha collaborato progettualmente – ha posto qualche premessa al rinnovamento dello sguardo ai caratteri del citytelling. Affiancare le dinamiche partecipative all’efficacia dei servizi, come il caso principale all’esame di questa edizione sperimentale, ha permesso in questa esperienza di fare emergere attorno ad alcune città in osservazione, tra cui Barcellona e la capitale europea della cultura 2019, cioè Matera, un modo inusuale di valutazione. Ed è evidentemente qui in gioco la nascita di nuove forme professionali e quindi di veri e propri nuovi mestieri ciò che stimola le università a tenere aperti cantieri adatti a trasferire con rapidità elementi di verifica dei contesti a nuove formule formative.

E’ ancora Geert Lovink ad aggiungere la sua voce sul deficit di educazione di base alla trasformazione digitale: “Dobbiamo capire cosa è l’algoritmo, abbiamo bisogno di alfabetizzazione tecnica nelle scuole, nelle università e dobbiamo contrastare la perdita diffusa di abilità tecniche tra la gente. Pensavamo che lo smartphone migliorasse le competenze digitali, invece non ci offre alcuna capacità tecnica in più” 11.

Ecco le ragioni anche del nostro Osservatorio, per parlare con la massima sintesi possibile di un trend decennale che ha radicato non solo un’espressione fortunata (la “città intelligente”) ma anche la trama un po’ più faticosa che è cresciuta attorno a questa espressione: le intelligenze che si rinnovano nel crescere delle città.

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Note

  1. Direttore scientifico di Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale della Università IULM di Milano.
  2. A cura di A. Caragliu, C. Del Bo e P. Nijkamp.
  3. Stefano Rolando, Citytelling, Raccontare identità urbane, EGEA, 2014
  4. Smart City? Milano è all’avanguardia, ecco i suoi quattro segreti”, intervista sulle città intelligenti, Linkiesta 19 aprile 2019.
  5. Osserva Francesco Grillo (La democrazia del futuro fondata sulla tecnologia, Corriere della Sera,29 ottobre 2019): “L’aspetto più grave è che oggi mancano idee che possano ridare energia al sistema politico che ha accompagnato il più grande balzo in avanti che l’Occidente abbia mai conosciuto”.
  6. Rosanna De Rosa, Digital persona, big data e sfera pubblica. Quali sfide per la democrazia che verrà, Laboratorio ISPF (Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno, 2019 (testo in rete).
  7. Geert Lovink, Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme, EGEA-Bocconi editore, 2019.
  8. Questo web rende triste. Va cambiato”, intervista di Federica Colonna a Geert Lovink, La Lettura, 3 novembre 2019.
  9. Ho trattato varie volte nelle “Note” di Rivista italiana di comunicazione pubblica questo tema Per esempio (8.9.2018): https://www.facebook.com/notes/rivista-italiana-di-comunicazione-pubblica/oggi-ricorrenza-dell8-settembre-occasione-per-parlare-della-cultura-civile-della/2145706818781330/
  10. Maria Fioretti, Il Festival delle città narranti ci ha insegnato che per raccontarsi serve un’identità, Orticalab, giornale on line 28 ottobre 2019 http://www.orticalab.it/Il-Festival-delle-Citta-Narranti
  11. G. Lovink, cfr nota 8

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