Associazione italiana comunicazione pubblica e istituzionale
Comunicazione pubblica ai tempi di Covid-19
Giovedì 11 giugno 2020
Stefano Rolando
(Intervento di apertura in assemblea)

L’Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale ha realizzato giovedì 11 giugno un web-seminar concentrato sul tema delle sollecitazioni che la crisi Coronavirus ha messo in evidenza rispetto alle funzioni della comunicazione pubblica, ampiamente intesa, con riferimento anche al dibattito aperto in Italia sulla tenuta e l’aggiornamento della normativa di settore che proprio in questo giugno ricorda i suoi venti anni di vita e di attuazione. Stefano Rolando, fondatore della Associazione che ha presieduto nei primi sei anni di vita, ha svolto la relazione introduttiva, dopo le aperture del presidente Pier Virgilio Dastoli e del segretario generale Pier Carlo Sommo. L’intervento è stato svolto a braccio su alcuni punti che questo testo – scritto come relazione compiuta – contiene. |
1. Una brevissima premessa. Riprendo la parola nella vita di questa Associazione, che ho fondato nel 1990. Dopo molti anni. La prima volta fu in una assemblea alla Stampa Estera (chissà, forse era una notizia “internazionale”…) a Roma con 100 operatori, al tempo attivi in tutto il quadro del sistema pubblico italiano (istituzioni centrali e territoriali, comprese le imprese di servizio pubblico). La prendo dopo la decisione che il presidente Dastoli ha assunto – insieme al segretario generale e agli organi direttivi – di farmi “socio onorario”, ponendo così fine ad una storia che non voglio né citare né giudicare. Una Associazione che, per entrare nel nostro merito, ha avuto un ruolo essenziale: dimostrare che c’era un sistema professionale utile al Paese ben prima che una legge ratificasse questa realtà.
2. Per questo potrei ora cominciare dicendo “Heri dicebamus”, espressione che forse ha origine in una storia spagnolesca del ‘600, ma che più modernamente fu il titolo che Luigi Einaudi diede ad un articolo sul Corriere della Sera che corrispondeva al suo ritorno in università dopo il silenzio e l’allontanamento che naturalmente non riguardò lui solo.
Heri dicebamus, ci serve per riprendere in poche battute la stessa vita, la stessa identità, della comunicazione pubblica italiana che, dopo il fascismo, ci mise quasi 40 anni ad avere un vero e legittimato ruolo. Appunto perché nel ventennio c’era una roboante propaganda che segnò una prassi e tenne questa funzione sottotraccia a lungo, più che altro delegata alla politica e ai media. Parlare molto brevemente dei quarant’anni percorsi poi attivamente, qualcuno lo deve fare e magari mi prendo io questa briga. È una premessa essenziale per parlare dell’evoluzione di oggi e delle vie migliori da prendere.
3. In questi 40 anni possiamo distinguere tre storie:
· Fase 1. Quella della sperimentazione democratica, che si avviò negli anni ’80 per “fare come in Europa”, cioè per superare l’ombra allungata dell’uso propagandistico della comunicazione, quello che accompagnò gli italiani alla catastrofe della seconda guerra mondiale. Parliamo di un decennio di febbrile voglia di fare che arriva fino a internet, a metà degli anni ’90, una svolta globale nei processi comunicativi. Spartiacque quindi anche della cp, che inquadra – con teorizzazione al tempo già espressa – la comunicazione istituzionale, quella politica e quella sociale.
· Fase 2. Quella che, appunto dal 1994, avvia una normativa di legittimazione della professione ma anche una più precisata concettualizzazione valoriale di una funzione al tempo stesso leale con le istituzioni (diciamo anche per migliorarle, creando più ascolto e più servizio), ma anche leale con i cittadini, non più sudditi nel rispetto di doveri e diritti e soprattutto portatori di una domanda moderna di spiegazione da parte di una democrazia che statua la formula “ignorantia legis non excusat”.
· La legge, lo sapete bene, arriverà nel 2000. Nel 2004-2005 ebbi l’incarico della Funzione Pubblica di valutarne l’attuazione quinquennale. La legge era attuata e attiva per la metà della P.A. Anche se quasi nessun ente la attuava con una integralità delle sue potenzialità. Si avvertiva già una certa “giornalistizzazione” degli orientamenti funzionali. La politica – in realtà a destra come a sinistra – aveva maturato in prevalenza, rispetto al quadro di servizio al cittadino, l’idea che la formula dell’URP (la linea normata dalla 150) sembrava minimizzare le tante tipologie che, nella comunicazione del nuovo secolo, prendevano piede (penso alla comunicazione di crisi, alla public diplomacy, all’affiancamento a processi strategici sociali e istituzionali come scuola, salute, sicurezza, ambiente e innovazione).
· Fase 3. Questa seconda lunga fase potremmo dire che si conclude con il quadro della crisi innescata in Italia, in Europa e nel mondo nel 2008 e che parte dalle seguenti trasformazioni:
– crisi (pur con rigurgiti) dei processi di riformabilità degli Stati nazionali (con crescente confusione tra i poteri);
– crisi del consolidamento dell’idea comunitaria dell’Europa nel prevalere di una governance che poggia su un profilo frenante degli Stati, marcati tutta da stagnazione;
– crisi di rappresentanza e crisi della capacità dell’ordinamento regionale di fare vera “integrazione” tra norme generali e servizi locali;
– insufficienza della situazione locale (comuni e province) a reggere da sola la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
– continuità nella situazione italiana di una cultura della scarsa trasparenza, dei misteri legati a fatti gravi soprattutto criminali, del poco diffuso civismo.
Vado per titoli, ovviamente. Ma siccome ben sappiamo che la forza della comunicazione (efficacia più credibilità) dipende da tre successi (divisione dei poteri, aspirazione condivisa alla giustizia, fiducia istituzionale) si fa presto a vedere i fattori frenanti della crisi di commitment e di efficacia della comunicazione istituzionale.
Siamo sciocchi se pensiamo che essa dipende solo dai bilanci tagliati da Tremonti, dall’eccesso di potere degli uffici stampa, dall’insufficienza del processo di digitalizzazione. Diciamo che sono importanti concause ma sostanzialmente ancillari
· La fase 3 fondamentalmente non finisce mai.
Ed è connotata da preoccupanti rapporti annuali sulla fiducia dei cittadini per le istituzioni: i partiti tra il 4 e il 5%, il governo che prima della pandemia non arrivava al 10%, ora è in impennata, ma come lo sarebbe “in tempo di guerra”; il Parlamento fermo al 15%, le regioni (media trainata dalle più virtuose) che non vanno oltre al 20%.
4. Qui si innesta una riflessione che faccio da anni. E che vale per la buona e la cattiva comunicazione così come vale per la buona e la mala politica.
Non è tutta colpa dell’offerta. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia alla domanda. E quella italiana è drammaticamente segnata da una metà del paese (prima misurata da Tullio De Mauro poi confermata annualmente dal Censis): dal 45 al 50% di analfabeti funzionali. La politica scende di livello perché sa che anche questi sono suoi elettori e sa che paternalismo e demagogia sono strumenti di interlocuzione graditi a chi non capisce quello che ci stiamo dicendo in questo momento. Ma anche l’apparato pubblico (pur mettendoci dentro una grande categoria che sono gli insegnanti) non arriva a svolgere un adeguato contraltare civile. Il dibattito di questi anni tra i comunicatori si è rifugiato nel pur importante territorio del comprendere meglio il processo di trasformazione digitale. E’ una risposta, è un investimento. Ma non basta né a spiegare tutto, né a generare argomentazione reattiva, anche perché i modelli di carriera non hanno ancora premiato questa cultura rispetto al primato storico giuridico-amministrativo.
5. La legge. È vero che la 150 non aveva – ovvero non ha – niente di frenante rispetto a una trasmigrazione verso le culture digitali. Anche se esse non hanno ispirato centralmente quella legge. Basterebbero misure integrative concepite con analisi comparative almeno a livello europeo. La verità che non c’è più stato né un ministro, né un soggetto politico, né un provvedimento generale di riforma della PA che abbia avuto il coraggio di dedicarsi centralmente al recupero della funzione sociale e civile della comunicazione istituzionale. Tutto quello che si è fatto è stato di immaginare adeguamenti di linguaggi e strumentazione. La prima volta che appare questo tema come maggiore domanda dei cittadini (grazie alla crescita enorme della domanda di spiegazione) e come tema di strumentazione degli apparati pubblici per fronteggiare i contesti di crisi è questo attuale, quello della crisi di pandemia in cui siamo ancora collocati. Questo sarebbe il convegno da fare se si vuole immaginare una crescita funzionale alla risposta della società italiana alla crisi. E’ come se immaginassimo che il successo di Immuni sia più importante di un rialzo importante della cultura scientifica e di prevenzione in tutto il popolo italiano.
6. Insomma, la perdita di visione riformatrice, sommata alla perdita di una grande missione di pedagogia sociale delle istituzioni (compresa una certa caduta di ruolo di servizio pubblico della Rai) sono il nodo della stagnazione comunicativa. A cui si somma una certa periferizzazione dell’Italia dai tavoli più dinamici in cui si fa l’Europa che – se andate a vedere – vedono cresce la comunicazione istituzionale, sia pure con sviluppi settoriali. Penso all’orientamento per contrastare la malinformazione, la manipolazione e le fakenews a cui si dedicano molti paesi, oppure la storica funzione di spiegazione delle normative per lo sviluppo sociale ed economico che rende essenziale l’attività generalizzata della comunicazione per esempio tedesca e di altri paesi. In più l’alzata di scudi contro la deriva propagandistica della comunicazione pubblica altrove è dibattito pubblico mentre in Italia è trattata con indifferenza, talvolta con rassegnazione e talvolta con collusione (scrissi su questo, nel 2014, il libro Comunicazione, poteri e cittadini, per Egea, l’ho presentato in mezza Europa, nessuna amministrazione pubblica o scuole connesse mi hanno invitato a parlarne).
7. Giusto porsi la domanda: Quando finirà la fase tre? La fase tre finirà quando un nuovo (forse già in formazione) ceto politico responsabile del nostro paese investirà sull’azione corale pubblica nello sforzo di accompagnare la società a capire, migliorare, crescere.
Dando, nel tempo della vita di un cittadino, la possibilità di vedere la lotta all’analfabetismo funzionale e alla disuguaglianza ottenere esiti. La possibilità all’etica pubblica di non far fare solo discorsi retorici ai convegni e poi furtivi sorrisini ogni volta che è calpestata.
La comunicazione pubblica ora è quasi inerte rispetto a questa battaglia. Ma scuola, sanità, apparati di sicurezza e protezione, associazioni di volontari, ambiti di cultura ambientale, centri di creazione di nuovo lavoro – insomma l’Italia “che non si arrende” che De Gregori cantava negli anni ’70, hanno preso coraggio in questa crisi epidemica per provare a scrivere un altro spartito. In cui la digitalizzazione è una compagna di strada non è un’ideologia sostitutiva alla stagnazione. In più sulla democrazia partecipativa si è lasciato che il tema fosse stressato dall’associazionismo civico senza contare su tavoli di realismo riformistico a cui in vari paesi europei gli apparati pubblici partecipano con creatività.
8. E’ vero che la crisi europea è stata in questi anni identitaria. Così che abbiamo assistito prima alla spaccatura tra governi e popoli che dicevano che l’identità europea è il mercato e altri che dicevano che doveva essere l’identità politica. Poi la spaccatura è stata tra europeisti e sovranisti (fautori del ritorno infausto ai nazionalismi). Eppure, in Europa c’è un laboratorio del cambiamento (il tema delle migrazioni ha creato una generazione di giovani che sono “comunicatori” anche se in realtà loro credono di fare altri mestieri). Ne parlerà certamente Vincenzo Le Voci, attivissimo segretario generale del Club of Venice che è tra noi oggi. Ma dove il sistema contrapposto sulle finalità ha derubricato la materia facendola essere prevalentemente una sala stampa al servizio della visibilità o della notorietà. A Bruxelles come in Italia. Prima o poi anche qui ci sarà il cambio di passo innescato ora dalla più grande scossa sociale dalla caduta del muro di Berlino. Dobbiamo preparaci a salire su quel treno quando ripartirà.
9. E su questo spunto – che non è solo un omaggio all’europeismo di Pier Virgilio Dastoli, ma il pensiero di chi non vuole finire stritolato dalla nuova geopolitica globale che tende a non comprenderci – arrivo alle mie conclusioni.
Si aprono strade che ora solo si intravedono. La crisi ha messo in evidenza alcune cose (mi limito a tre soli spunti):
– mancano le piste per una comunicazione pubblica innovativa (tipo quella della comunicazione scientifica) che devono essere ripavimentate;
– il tema della verità non è quello dell’ideologia dei primatisti, è quello della rendicontazione statisticamente corretta ai cittadini per responsabilizzare;
– il modello di confronto che abbiamo visto tra comunità della salute e comunità dell’economia deve restare in piedi, come un’agorà centrale e rivolgersi al più presto al tema della sostenibilità ambientale.
10. Dopo di che dobbiamo reagire alla violenza della cancellazione di ogni intermediazione competente e pensare che i soggetti che hanno gestito questa finta rivoluzione delle libertà sono diventati un’oligarchia di controllo; di quella intermediazione si devono rifare carico soggetti di natura pubblica, anche quando sono privati come l’associazionismo di scopo, di valore di rappresentanza. Da ultimo le istituzioni – che da noi hanno brillato per litigiosità, ma in cui si sono anche sviluppate esperienze di cooperazione con ambiti privati di straordinaria importanza (questa cosa è per esempio avvenuta a Milano e in Lombardia tra le strutture sanitarie pubbliche e private) – dobbiamo cominciare a parlarne distinguendo e chiedendo valutazioni differenziate per territori e per rendimento sociale. Sto semplicemente disegnando frammenti di una rete in cui vanno ricomposti i nuovi posti di lavoro dei comunicatori pubblici di nuovo conio e di nuove generazioni. Non è un posto in Comune, un posto in Regione, un concorso al Ministero. È cambiare la mission, in tutto il quadro pubblico.
11. Meglio di me chi oggi è nella trincea professionale – qui oggi c’è Alessandra De Marco, c’è Sergio Talamo e molti altri – può dire se il dibattito in corso sulla 150 e sulla 151 tiene conto o tiene poco conto di queste valutazioni. Credo che sia stato giusto porre la questione della revisione e dell’adeguamento ai tempi. Ho provato a indicare – anzi ad accennare – a un profilo che non considero tecnico o tecnocratico. Ma riferito – come lo sarebbe se parlassimo di insegnanti o medici – alla mission professionale in particolare a valle di questa crisi in atto. Il punto debole storico resta nell’imbrigliamento (eredità della Ragioneria generale dello Stato degli anni ’90) alla forma professionale “minore” dell’URP di una attività di cui si temeva il dilagare di funzioni dirigenziali (quanto costò imporre un cenno di eventualità alla dirigenza tra due lineette!) perché la cultura istituzionale di allora concepiva la comunicazione sostanzialmente come “confezionatoria” e non strategica nell’ambito pubblico. Ma era giù in atto – e lo sarà sempre di più – che la distinzione vera con gli uffici stampa non era nominalistica ma dentro le aree di specializzazione che prefiguravano in verità uno sviluppo appunto strategico delle funzioni di spiegazione (con l’autorità di semplificare anche la scrittura normativa) e di accompagnamento (come pratica sociale che lo Stato riteneva in forma supponente che fosse compito dei corpi intermedi). Questo è il ribaltamento necessario, che poi si accompagni alla strumentazione tecnologia la più vecchia o la più nuova diventa quasi una variabile non l’obiettivo centrale.
12. E’ per questo necessario comprendere che si tratta di fronteggiare anche una rivoluzione copernicana della cultura formativa di questo settore. C’è una vasta offerta di formazione tecnica, non c’è molto – con qualche buona eccezione – sulla valorialità di un mondo da salvare (che va dalla pace alla libertà, dalla costituzione al diritto alla vita e alla salute). Ma non sarà la vecchia università della selezione neo-baronale ad assicurare questo progetto. Sarà quello che concepisce un vero rapporto tra alta ricerca (di qualità e di strategicità) con la libertà del dibattito pubblico divulgativo perché motivato dal public engagement. È una Università possibile che potrebbe diventare – e in alcuni ambiti anche fin da ora – alleata di un progetto di rinascita funzionale. Oltre al tema – che resta decisivo – dei corsi di scienze della comunicazione che non sono riusciti in trenta anni ad avere una autonomia disciplinare di raggruppamento.
13. Se avremo tenuto in vita anche l’associazionismo immaginato trenta anni fa per fare un po’ più di modernità in Italia e in Europa adesso anche quella sarà una pista che potrà concorrere a salvare il nostro dovere, quello del “fare” – non ho nessuna paura a dire questa parola – che è qualcosa di più che cercare di salvare l’anima nascondendoci dietro alle parole.