Manifesto della nuova comunicazione

Documento redatto da un team di operatori e docenti nel quadro di una attività seminariale che ha impegnato i mesi di aprile e maggio 2020.

Versione considerata definitiva 6.8.2020.

Ideatori ed estensori

Daniele Chieffi, direttore comunicazione e PR – Dipartimento per l’Innovazione e la digitalizzazione della Presidenza del Consiglio.

Luca Montani, direttore comunicazione e relazioni istituzionali MM Spa.

Piero Pelizzaro, chief Resilience Officer Sharing Cities City Lead, Comune di Milano.

Andra Pillon, CEO di Avventura Urbana e docente a contratto presso l’Universita di Torino – Cattedra Luigi Bobbio, “Governance e gestione alternativa dei conflitti”

Luca Poma, professore di reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino.

Stefano Rolando, direttore scientifico dell’Osservatorio su comunicazione pubblica, public branding e trasformazione digitale dell’Università IULM.

Gian Luca Spitella, direttore della Direzione Comunicazione Specialistica e Mass Media, ARERA.

Contributors e sottoscrittori

Chiara Bassani, partner Rock Communications

Alex Buriani,

Andrea Cancellato, project manager ADI, già direttore generale Triennale di Milano

Nadia Deisori, consulente di comunicazione Digital Human

Emanuele Martinelli, CEO Energia Media

Luca Ferrario, marketing and Communication Manager

Francesca Gresia, responsabile comunicazione e pr di Fortunale

Maria Grazia Persico, CEO Nonsoloambiente

Walter Rolfo, formatore, autore televisivo, illusionista e scrittore

Alessandro Ubertis, CEO di Carmi&Ubertis

PREMESSA

Con queste righe, maturate da vari confronti tra professionisti del mondo della comunicazione, avvenuti in ambienti digitali nel corso del lockdown Covid-19, intendiamo dare voce all’inquietudine, alle paure, alle esperienze di valore, alla voglia di rigenerazione e di futuro.

Con una prospettiva di pubblica utilità e con tutto l’accompagnamento interpretativo che occorre, vorremmo contribuire a ridurre il rancore sociale che nei mesi precedenti l’arrivo del virus abbiamo visto visibilmente e consapevolmente aumentare in tutto il Paese.

Le pagine che seguono sono un testo di lavoro, aperto e inclusivo, sottoposto a integrazioni successive da parte di colleghi che si sono avvicinati progressivamente, proponendo spunti e modifiche.

DOPO IL COVID

Non torneremo alla normalità come se niente fosse accaduto.

Prendiamoci tutto il tempo per riformulare il nostro ruolo di comunicatori e ribadirlo ai nostri datori di lavoro, pubblici o privati che siano, tornando alla funzione originaria di ‘servizio pubblico’ per trovare il contesto e il coraggio di tornare nei ruoli.

Siamo preoccupati per l’eccesso di presentismo che si riscontra sia nella comunicazione politico-istituzionale che nella comunicazione d’impresa, nel momento in cui i cittadini manifestano una più diffusa domanda di futuro sugli scenari sanitari, economico-produttivi e occupazionali, sociali, culturali e di ampliamento del vocabolario di relazione.

Siamo inoltre preoccupati per la non ancora perfetta consapevolezza della necessità di “pensare” la comunicazione come un processo globale e collettivo, inclusivo e collaborativo, del quale è fondamentale saper attivare il percorso, conoscendone le dinamiche di sviluppo.

Vorremmo fissare l’attenzione sulle trasformazioni di reputazione, intese come rapporto tra condizioni identitarie e le loro possibili narrazioni.

Riteniamo importante assumerci, come comunicatori, la responsabilità culturale, etica e deontologica di imparare e insegnare a gestire una realtà dominata e governata dalla percezione, plasmata e deformata dal digitale.

Possiamo dire qualcosa di competente anche sul tema della relazione dei territori e tra i territori a partire dal nesso tra Milano, Lombardia e Italia – una delle dorsali ineludibili della forza dell’occidente euro-mediterraneo – che ha una capacità di investimenti superiore a quelli del Piano Marshall.

Le possibili linee di sviluppo del pensare Paese partono proprio dall’attrattività dei territori, dei brand collegati e dei servizi, declinabili in attrattività sostenibile, qualificata e non occasionale.

L’ASSUNTO DI BASE

Il professionista della comunicazione non è un mero esecutore, ma ha come funzione quella di costruire e tenere insieme le relazioni, fornire spiegazioni, formulare interpretazioni, codificare l’esigenza di ‘futuro’ e trovare il giusto garbo per essere univoco, chiaro e disintermediato, equilibrando al meglio l’interesse del proprio committente con quello di tutti i pubblici coinvolti nella narrazione.

Nel dibattito (e dunque nella comunicazione pubblica) che si è sviluppato in questi mesi si è assistito ad alcune tendenze, figlie di alcune pratiche delle quali eravamo consapevoli, ma che abbiamo troppo a lungo colpevolmente trascurato:

  1. la prima riguarda il consolidarsi di logiche corporative che privilegiano i soggetti economici e sociali forti e organizzati che riescono a far entrare nell’agenda politica alcuni temi che puntualmente trovano sponde autorevoli.
  2. la seconda, legata alla precedente, riguarda la molteplicità di approcci con i quali soggetti pubblici e privati prendono le decisioni: il primo interessa soprattutto le strutture pubbliche e le politiche nazionali, che adottano un modello decisionale che favorisce l’assunzione di decisioni attraverso processi, un po’ frenetici e casuali, frutto di compromessi tra poste in gioco differenti. Il secondo approccio interessa invece i grandi gruppi economici e le organizzazioni strutturate, che di fronte alla precarietà del momento, intervengono in proprio e si organizzano al meglio delle loro possibilità. Infine, il terzo approccio adottato da tutti coloro che fanno finta che non sia successo nulla, e che fa riferimento alle procedure e alle pratiche discutibili utilizzate sino ad ora.
  3. la terza è quella che affida al sapere degli esperti e alle tecnologie digitali un potere quasi salvifico. Dopo anni in cui gli esperti, in ogni campo, sono stati bistrattati, sono ora tornati al centro della scena, non solo per il competente apporto scientifico che possono dare ai processi decisionali, ma anche come elemento di deresponsabilizzazione dei decisori.
  4. La quarta è il continuo affidarsi ad altri comunicatori che possano avvalorare il contenuto veicolato in un circolo vizioso di autoreferenzialità, o ad ‘esperti di settore’.
  5. La quinta è la mancanza di consapevolezza dell’interesse pubblico che dovrebbe guidare, ora più che mai, le azioni individuali e delle organizzazioni. La narrazione del noi stenta a decollare per insufficiente afflato, per l’incapacità strutturale a progettare soluzioni efficaci in ragione dei destini collettivi ma, soprattutto per l’abitudine a parlare del singolo, della storia personale, spesso drammatica, come vicenda da copertina utile a generale traffico e Like.
  • La sesta è la poca consapevolezza del dibattito che si genera fuori dal Bel Paese sui diversi temi del momento: dalla ricerca scientifica, alle scelte di metodo per la rigenerazione urbana e la rimodellazione degli spazi pubblici e del costruito, la sostenibilità ambientale e la resilienza urbana, i nuovi modelli per il rilancio dell’economia locale, ecc. Talvolta c’è la sensazione di essere un Paese ‘satellite’ e dipendente da decisioni altrui, incurante di avere una rete universitaria straordinaria e un patrimonio di aziende pubbliche all’avanguardia che gestiscono beni primari in ogni condizione. Dopotutto l’Italia resta al settimo posto nella classifica dei paesi più industrializzati del mondo, e questo orgoglio, frutto dell’azione di realtà imprenditoriali e creative straordinarie, non emerge con forza come invece accade altrove.

Dal nostro punto di osservazione particolare, si avverte poco commitment da parte della politica del Paese e dell’impresa sulla rigenerazione, nonostante i molti cenacoli, i think tank, i comitati scientifici del momento.

Le amministrazioni pubbliche stanno garantendo, insieme alla comunità della cura, la continuità della vita (sussidi, trasporti, servizi essenziali) ma rischiano il fiato corto per l’enorme mole di procedure burocratiche, che occupa la maggior parte del loro tempo. Eppure, negli enti locali, a diverse latitudini, esistono progettualità notevoli che non emergono a sufficienza. Dobbiamo dare loro tutto il supporto narrativo del caso alle eccellenze, laddove esistono.

Il valore aggiunto di questa intelligenza collettiva sarà la capacità di selezionare con accuratezza, attribuire priorità e successivamente promuovere soltanto quei temi che hanno un maggior impatto etico e sociale, che hanno effetti positivi sulla collettività oltre ogni ragionevole dubbio, che riportino la giusta attenzione sul commitment.

Un gran numero di professionisti della comunicazione che scegliessero volontariamente uno o due temi utili al Paese e s’impegnassero personalmente ad inserirli in tutti i contesti comunicativi nei quali operano, trasferendoli anche ai clienti/aziende/istituzioni con i quali lavorano produrrebbe un naturale effetto domino, diffondendo una sensibilizzazione specifica e – per restare in tema – contagiosa.

Un impegno civile, di servizio, della comunità di professionisti della comunicazione, basato sul passaparola e sulle reti di contatti, senza alcun vincolo, lontani da estetismi, ricerche di gergo e paradigmi inutili.

Manca immaginazione sociale, decodifica, interpretazione, accompagnamento.

Abbiamo mobilitato (non sempre nobilitato) grandi masse con le emozioni, i frame del momento, i trend demoscopici sulla percezione. Il tutto addomesticato da algoritmi. La comunicazione, con le sue professioni, ha l’occasione ora di riformulare il suo ruolo e la sua dimensione sociale preminente: quella di accompagnare nella comprensione (e nell’interpretazione) della realtà.

Occorrerebbe troppo tempo per illustrare i buoni risultati e i conseguenti buoni effetti d’intere generazioni di comunicatori, pubblicisti, creativi.  

Se confrontate a quelle generazioni, le nostre rischiano il fiato corto, se non riusciamo a impossessarci delle agende, dei vocabolari, dei piani strategici della committenza.

Il tutto, riportando a tema l’importanza di costruire relazioni di qualità. Da sempre tratteniamo oggetti, tanto che ci irrita perdere anche solo una penna a sfera; tratteniamo chili in eccesso, perché atavicamente addestrati a prepararci ai periodi di carestia; tratteniamo persone, che siano figli o amici, perché la nostra visione antropocentrica della vita pone sempre noi al centro di tutto. Dobbiamo invece reimparare a dare. Così facendo, la licenza di operare – nostra e delle organizzazioni che rappresentiamo – tenderà ad aumentare tanto più trasferiremo contenuti e consapevolezza ad altri: nella speranza che essi siano a loro volta pronti a ricevere, accogliere e dare nuovamente ad altri, coltivando, migliorando e nutrendo la loro preziosa rete di relazioni.

IL COMUNICATORE OGGI E DOMANI

Vorremmo impegnarci con pochi e chiari atteggiamenti.

  1. Frenare lo struggimento. Il post pandemia deve essere focalizzato sulla ripartenza, sulle energie disponibili e sulla creatività già presente: passare da una fase di ‘Melancovid’ (come l’ha definita Liberation) ad una fase proattiva, sulla base della voglia di ricominciare da dove ci si è fermati.
  2. Costruire gli anticorpi all’amnesia che verrà. In questo periodo abbiamo fatto i conti con noi stessi, con i nostri limiti e virtù. Nel periodo della distanza interpersonale massima possibile abbiamo scoperto gesti di solidarietà inequivocabili di persone e di organizzazioni, utile medicina per il pessimismo disfattista che spesso ci attanaglia.
  3. No all’effetto soffitta, si alla valorizzazione del tempo. Come capita al termine di ogni crisi, la voglia di voltare pagina è fortissima, e questo può includere il rigetto per le abitudini – incluse quelle virtuose – adottate nel periodo dell’emergenza, che potremmo essere tentati di riporre in soffitta. Le regole di distanziamento hanno modificato il nostro essere animali sociali, ma hanno anche reso evidente quando possa essere inutile, ridondante e inquinante convocare 10 persone per una riunione di poche ore a 500 km di distanza. Il tempo è una delle risorse più preziose per l’essere umano: nella dimensione del tempo, c’è la crescita personale, la formazione continua, i libri, godere dei propri affetti: non sprechiamolo.
  4. Fare ricorso all’intelligenza collettiva. Noi siamo rete sociale ma anche professionale, una filiera di competenze: da questo assunto dovremmo rifondare la nostra laboriosità per offrire interpretazione dei conflitti, spiegazione dei processi, public engagement e modalità partecipative e deliberative in grado di trasformare le dinamiche comunicative e di azione dei gruppi informali e formali.
  5. Una visione olistica della comunicazione. È necessario pensare a un approccio che sia coerente su tutte le piattaforme con le quali interagiscono le persone, piattaforme sia fisiche che virtuali. Un approccio strategicamente complessivo, che parta dall’analisi e dalla comprensione delle esigenze profonde dei pubblici a cui ci rivolgiamo, delle loro mappe valoriali, con l’obiettivo di costruire valore per le comunità di riferimento.
  6. Basta prodotti standard. Non possiamo più tornare alla comunicazione da scaffale, da riporto, da talk show. Se il messaggio è pensato per le persone, dobbiamo riconsiderare tone of voice, parole, atteggiamenti, immagini, situazione per situazione.
  7. Al via un’epoca dallo sguardo molecolare. Il virus ci ha abituati a immagini di dettaglio, a frammenti della situazione: vorremmo un approccio prossimale e non distale o massimalista alle cose con l’obiettivo di concepire i messaggi in relazione alle reali necessità o capacità delle persone. Incidere per specifici obiettivi e non per tutte le stagioni.
  8. Non più cieco peer-to-peer. Evitare la divulgazione di contenuti a nodi equivalenti o paritari che non siano stati verificati nelle fonti, nei copyright, e nelle committenze, soprattutto quest’ultime.
  9. Occorre un’energia metabolica nuova, con radici senzienti (come per le piante). Significa ripartire dalle accademie, dai centri di formazione e ricerca, dalle scuole di specializzazione, dai centri studi e dalle università, dove spesso si annida la ricerca vera, l’avamposto, il vivaio di intelligenze. Le nuove generazioni sono assai più pronte alla ricerca condivisa e alla sperimentazione.
  10. Il comunicatore può e deve divenire il ponte tra il mondo scientifico/tecnologico e i cittadini, deve permettere al sapere spesso chiuso tra le mura di un’università di essere diffuso e di confrontarsi anche con il mondo imprenditoriale. Anche nel settore pubblico e istituzionale si pone con evidenza una domanda di etica pubblica (con obiettivi, comportamenti, rendicontazioni) per costruire ponti tra le istituzioni e i cittadini.
  11. I dati sono l’altro ambiente in cui viviamo. La nostra identità di persona è il risultato dell’accuratezza che mettiamo nella gestione dei nostri dati. Occorre aumentare la nostra consapevolezza per i mondi immateriali che frequentiamo e ridimensionare la forza muscolare delle nostre performance in rete, meno gridate e più selezionate.
  12. Augmented Intelligence. La vera intelligenza aumentata è il capitale umano professionale che ci circonda. I migliori progetti culturali, le narrazioni più avvincenti, le campagne più proficue, sono il frutto di un confronto interdisciplinare assiduo e continuativo. Anche tra diverse agenzie e organizzazioni di rappresentanza.
  13. Stop alla stregoneria nell’informazione. Ripartiamo dai fatti e dai dati. L’interpretazione – per essere tale – deve dichiarare il suo intento da subito, in modo univoco, organizzato, leale. Soprattutto nessuna investitura oratoria preventiva nel momento in cui si moltiplicano ovvietà e omissioni maldestre.
  14. E’ necessario riappropriarsi del ruolo di uditore e osservatore, base imprescindibile per una comunicazione che non insegua mode del momento ma sia in grado di individuare e veicolare nuovi bacini di idee.
  15. Si all’umile e solida consapevolezza dell’artigiano: forgiare, senza improvvisare. La crisi che abbiamo appena vissuto, e altre prima di essa, è (anche) figlia dell’arroganza e dell’improvvisazione; dobbiamo invece riacquistare la capacità di prevedere scenari, perché solo facendo nostra la consapevolezza dell’incertezza, in questo mondo fluido e ad altissima entropia, potremo far emergere le capacità e le attitudini utili per non farci trovare impreparati, in futuro, un’ennesima volta.

COME RI-PARTIRE?

In conclusione, alcuni suggerimenti, per lanciare degli stimoli, in un’ottica di proposta sempre aperta a nuove contaminazioni:

Allargare la rete d’interlocutori (professionisti, reti, federazioni, associazioni di categoria) per consolidare la riflessione, accelerando i processi di crescita qualitativa di tutti noi.

Realizzare momenti di confronto, anche nella modalità partecipative e deliberative che oggi la rete agevolmente consente, trasformando e valorizzando le dinamiche comunicative dei gruppi informali e formali, con uno sguardo attento e interessato anche a ciò che succede all’esterno dei confini nazionali, in Europa e non solo.

Verificare opportunità di potenziale commitment sulle tematiche salienti individuate.

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