Stefano Rolando (4.8.2020)


In seconda liceo classico la storia della filosofia diventa una materia decisiva per la formazione umanistica, civile ed etico-politica di cha ha scelto il classico non per caso.
Il blocco in successione (sui nostri severi manuali del Lamanna, che ho cercato in rete per dare significato ben oltre cinquant’anni dopo alle sigle E.P. che precedevano misteriosamente il cognome, trovando che prima di arrivare all’insigne storico della filosofia devi sapere che Lamanna è una società di autolinee di Sala Consilina ovvero che è stato un noto calciatore argentino morto a Rapallo; a buoni conti ci sono arrivato e dopo oltre 50 anni posso dire che il mistero è svelato: Eustachio Paolo Lamanna, mai saputo), dicevo il blocco dei filosofi che si affrontavano in tarda primavera di anno scolastico erano un “prendere o lasciare” altamente emotivo. Hobbes, Pascal, Spinoza, Locke, Leibniz, Vico.
Nella mia memoria, tutti interessanti; ma su Spinoza quattro elementi indelebili: il nome, Baruch (in italiano Benedetto); la storia dei “marrani”; l’olandesità mescolata alla portoghesità; la teoria dell’immanenza, quindi la fine del primato biblico del Dio “padreterno” con quella forte rivendicazione identitaria di essere egli stesso Natura, intesa come cosmo vivente.
Poi ci si occupa d’altro nella vita. E tutto ciò resta in un galleggiamento della cultura emotiva, delle simpatie e delle antipatie, della valle degli eroi nascosti che un giorno riprendono vita e vigore.
Fu così la prima volta – non molti anni fa – nel quadro di ripetuti viaggi in Olanda. La scoperta ad Amsterdam di un museo di storia identitaria, ricavato dall’antico orfanotrofio nel cuore della città, in cui – mentre la controriforma soffocava l’occidente, qui si scriveva una storia di libertà e di diritti (che diventa nei secoli il “brand” stesso della città, per questo amata dai giovani anche prima della mia generazione e fino ad oggi). Se scrutavi quell’impasto storico ci leggevi quello che questa domenica, in una bellissima corrispondenza di viaggio per l’Espresso, la filosofa Donatella De Cesare scrive degli olandesi e in particolare di quella città: “a vocazione laica, orientata alla tolleranza, ma anche molto dedita al guadagno”. E poi – cito ancora la De Cesare, ma mi fu chiaro (anzi “mi fu detto” anche in viaggi ad Amsterdam negli anni ’70 in amicizia con un curioso e intelligente regista che si chiamava Luis van Gasteren) questo passaggio identificativo: “Se la città di Amsterdam è legata al moderno concetto di libertà è grazie a Spinoza”.
Sono queste le sommarie premesse alle ulteriori note che insistono sul tema.
La contrapposizione degli olandesi agli italiani nella vicenda dei fondi europei, la storia dei “frugali” contro le “cicale”, che abbiamo letto molte volte di recente. E, nell’occasione, il senso di irritazione provato per il modo con cui in entrambi i paesi – purtroppo entrambi con un ceto politico al potere che è quello che è – si dipingono “gli altri” solo nel quadro dei loro peggiori stereotipi. Nel caso: scansafatiche improduttivi contro organizzatori di paradisi fiscali. Neanche una parola in più per riconoscere storie, radici, contributi che sono venuti da Italia e Olanda alla storia delle idee, alla storia del pensiero, alla storia delle arti.
Ancora poco tempo fa prima un viaggio all’Aja, per una conferenza europea della comunicazione pubblica (con mia presidenza) e poi la lettura di un libro di un saggista amico che più invecchia più è saggio e prolifico. Due robusti indizi.
A margine di quella conferenza all’Aja, città medioevale mai divenuta metropoli, con i suoi equilibri naturali preservati, l’immancabile visita del meraviglioso Mauritshuis che ha il suo posto nel mondo per i Rembrandt, i Rubens e i Vermeer che possiede. La mia avvertita guida olandese in quel museo – per altro un collega che vive lì – scambiandoci qualche preliminare reminiscenza sulla storia della città e della nazione, ne approfittò per farmi notare che la celeberrima “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt è del 1632, esattamente l’anno in cui Baruch Spinoza nasceva ad Amsterdam da famiglia ebrea sefardita portoghese espatriata a causa di persecuzione, mentre l’altrettanto celebre “Ragazza con il turbante” (e l’argentea perla all’orecchio) di Jan Vermeer è del 1665, l’anno in cui lo stesso Spinoza – cacciato dalla comunità ebraica di Amsterdam con dura condanna religiosa e filosofica, una vera scomunica, a causa del suo pensiero “immanentista” – approdò appunto ai sobborghi dell’Aja, a Voorburg. Per condurre la sua modesta vita di tagliatore di lenti, nel maggiore anonimato possibile, sia pure nella rifulgente luce di una grandissima dote di pensiero, che – da quel momento – poté esercitare ma non per molti anni proprio a causa delle conseguenze polmonari del suo lavoro manuale.
Secondo indizio, appena un mese fa, la lettura del capitolo che Corrado Augias ha dedicato, nel suo “Breviario per un confuso presente” (Einaudi), intensa e colta divagazione sulle nostre radici culturali per farci strada nel disordine etico e politico del nostro tempo, alla amata figura di Spinoza.
Una commossa rievocazione, intrisa non solo di storie secolari ma anche di Novecento per tutto ciò che l’Olanda e Amsterdam hanno vissuto nel quadro della maggiore negazione delle libertà spinoziane e cioè il nazismo (i più lo ricordano facilmente, ma non fa danno riportare a mente che la storia di Anna Frank è storia olandese e che quel diario resta oggi, proprio come ricorda Donatella De Cesare sull’Espresso, “il documento letterario assurto a emblema della Shoah”.
Infine, infine, giorni scorsi, il mio valente amico Riccardo Fedriga, tra altre doti storico della filosofia, associato ad un lavoro editoriale che avrà luce a settembre, nel mezzo di una carrellata di nomi che i filosofi sparano quando fanno uscire dalle ombre antichi pensatori per dar loro modernità, un nome ripete più volte a proposito della lettura filosofica del Coronavirus, il nome del “marrano” ricusato, ovvero di una bandiera non sgualcita della cultura della ragione, Spinoza.
Se chi legge pensa che siano finiti gli indizi si sbaglia. Perché manca l’ultimo che dà vita a questa noterella.
E’ vero che siamo in polemica sull’uso dei “dati” che la rete fa allargando spesso il perimetro della nostra “domanda”, ma avendo chiesto informazioni ad Amazon sul libricino dotto di Roberto Calasso “Come ordinare una biblioteca” edito naturalmente da Adelphi, nel tentativo di dare qualche paradigma ad un lavoro rinviato nei decenni, mi sono trovato rapidamente nel territorio dei consigli commerciali: “chi ha ordinato questo libro ha avuto anche interesse per…”.
L’indicazione era la classica goccia che fa traboccare il vaso, dopo le cose dette.
Trattasi di Maxime Rovere (specialista del pensiero di Spinoza, già Ecole Supérieure di Lione, ora alla Università Pontificia di Rio de Janeiro, ateneo che conosco), Tutte le vite di Spinoza (sottotitolo: Amsterdam 1677: l’invenzione della libertà”, edito da Feltrinelli, traduzione del testo francese, dal titolo meno seducente, Le clan Spinoza, del 2017). Sono 430 pagine. Nessuna discussione. Oggi comincia la lettura.