Una questione mal posta

Spettacolo-Governo, lo scontro ha emarginato argomenti che avrebbero potuto essere discussi

Stefano Rolando

Articolo pubblicato dal giornale online L’Indro, 27 ottobre 2020

Covid-19, Spettacolo – Governo: una questione mal posta

Milano, 11 ottobre 2020

La chiusura dei teatri e dei cinematografi, nonché di altri luoghi di spettacolo dal vivo e di una certa eventistica culturale, ha mosso gli operatori a sollevare il problema prima del dpcm; ha mosso il governo a non tener conto delle preoccupazioni; ha rimosso gli operatori a criticare il governo; ha mosso infine il ministro del settore Franceschini a una dura replica (in video su FB) arrivata a dire “voi dimostrate di non capire la gravità della situazione”. La situazione da grave è diventata gravissima. Con l’aggiunta che lo scontro ha obbligato a fare emergere la volontà di provvedere a compensazioni – quelle che il presidente del Consiglio chiama i “ristori” – che tuttavia alcuni esponenti del mondo culturale e teatrale hanno giudicato, a fronte della chiusura, un’ulteriore offesa.  Che metà Paese (dati SWG di ieri) critichi il provvedimento deve far riflettere.

Cosa hanno detto gli operatori?

L’appello degli operatori ha riguardato quasi unicamente le condizioni di sicurezza sanitaria degli spazi al chiuso e ha elencato gli argomenti economico-produttivi di impegni finanziari e professionali attivati nonché di costi in atto per portare a termine la cig a favore di cinema e teatri, “luoghi sicuri dove il pubblico è seduto con mascherina e non parla durante la rappresentazione; l’uscita e l’entrata sono regolati rispettando il distanziamento; questi luoghi rappresentano oggi un esempio virtuoso di gestione degli spazi pubblici in epoca di pandemia”).

Una sola riga tocca un tema che non ha profili né tecnici né sanitari: “sarebbe un grave danno per i cittadini privarli della possibilità di sognare e di farsi trasportare lontano oltre i confini della propria quotidianità”. Il riferimento è al diritto all’evasione dell’intrattenimento.

Il ministro Franceschini ha replicato che non esiste nelle volontà del governo una ipotesi di “gerarchia” né circa la maggiore o la minore sicurezza sanitaria, né circa la maggiore o minore importanza sociale dei settori, esiste solo la volontà di non far muovere la gente, che è – nella stessa dinamica della mobilità – il bersaglio vero del provvedimento. Così permettendosi anche di fare una (da quel pulpito penosa) critica di “egocentrismo” e di perdita della percezione della realtà.   Nella logica secondo cui la “sicurezza salute” è una scure senza deroghe e nella quale chi va incontro a grave danno economico viene rimborsato (due cose dubbie) queste posizioni potrebbero trovare un comprensibile posto. Ma se le cose fossero più complesse, con più variabili e più distinzioni, affiorerebbero argomenti che fin qui paiono elusi. Per esempio, né gli uni né l’altro ci pare che abbiano ragionato attorno al tema che avrebbe potuto essere messo maggiormente al centro della partita.  Quello che magari avrebbe portato, con prudenti e adeguate forme, a far riflettere sul fatto che le edicole sono considerate “servizio pubblico” ineludibile, così come le messe nelle Chiese non sono considerate sospendibili. Ebbene l’argomentazione avrebbe dovuto essere (bastava rileggere il manifesto di costituzione del Piccolo Teatro di Milano promosso da Paolo Grassi e firmato dai fondatori) che in una società moderna e democratica anche nelle situazioni di crisi grave – guerra, carestia, pestilenza, epidemia, sciagure – devono restare aperti alcuni luoghi, a misura di pubblici diversi e con una diversa domanda di informazione e conoscenza, che – assumendosi massima responsabilità di ottemperare a ragioni di sicurezza – svolgono le loro diverse modalità di offrire una visione critica e ragionante in ordine alla realtà e a vecchi e nuovi problemi posti alle collettività e agli individui. Dunque sì, in questo momento, alle edicole ma anche alle librerie. Sì in questo momento alle messe ma anche a teatri e musei. Eccetera. Naturalmente nelle forme da individuare, nelle rotazioni eventualmente da immaginare, con qualche sperimentazione.   Ma lasciando aperto a pubblici diversi, con linguaggi diversi, nella rappresentazioni diverse, il trattamento di domande importanti per la vita, per il pensiero, per il giudizio di tutti. In tal caso il ministro – se questo fosse stato l’argomento centrale o comunque esposto – non avrebbe potuto chiudersi nella sprezzante valutazione della “non comprensione della realtà”, perché l’asticella sarebbe stata messa non su un punto comparativo della sicurezza (quando la livella colpiva tutti sulla mobilità), né su un punto comparativo dei danni economici (quando la livella colpiva tutti sul sacrificio collettivo). Un punto che avremmo voluto sentire evocare.

E resta ancora da dire che anche se gli operatori non avessero invocato questo genere di riflessione, essa sarebbe dovuta venire in mente ad un ministro della Cultura. Che evidentemente non l’aveva in mente. Nemmeno immaginando soluzioni tecnologiche per salvaguardare questa priorità. Così come non l‘hanno avuta in mente gli assessori alla Cultura solidali con gli operatori e critici del governo che hanno proposto le stesse argomentazioni tecnico-sanitarie-produttive, con al cuore questo genere di questioni: “l’evidenza statistica dimostra che oggi proprio i teatri e i cinema sono, in virtù del senso di responsabilità dimostrato nell’applicazione delle misure medico-sanitarie da gestori, lavoratori e pubblico, i luoghi più sicuri del Paese”.

Questo è un modesto invito a riprendere il dialogo anche su altre basi.

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