Contributo al n. 1 della rivista Relazioni (direttra da Stefano Lai, Luca Sossella Editore) – Ottobre 2020
Stefano Rolando [1]

L’avventura dell’analisi nel magmatico e opaco “dibattito pubblico”
Dibattito pubblico è nozione che sta modificandosi. Il potere del web (velocità, interattività, sconfinamento) rispetto a forme tradizionali di ogni genere di “discussione”, sta svolgendo una radicale trasformazione della portata sociologica e culturale di significati invalsi.
Così che le due tradizionali sfere che un tempo facevano distinguere scambi nell’ambito di élite, ovvero portatori di competenze con la potenzialità di conferire alle opinioni una funzione interpretativa con “valore aggiunto” di ordine cognitivo e critico; e scambi di massa, in una fruizione di prevalente “scorrimento”, a pendolo tra il deposito immateriale dei mass media e i linguaggi di comunità (famiglia, lavoro, appartenenze), oggi hanno una lettura con geometrie qualitative più ampie e più articolate.
Resta che il sistema educativo e quello dell’informazione rappresentano ascensori importanti – importanti perché “relazionali” – tra snodi diversi dei poli sociali di riferimento, fino ad aumentare e diminuire distanze che segnalano sia l’alfabetizzazione sia la decisionalità.
Tuttavia l’evoluzione in corso obbliga a tener conto di molte variabili qui neppure compendiabili in sintesi.
A cui va aggiunto – proprio nel campo della comunicazione pubblica – che l‘espressione “dibattito pubblico” ha avuto negli ultimi venti anni sia una accezione riduttiva, con riferimento alle forme disciplinate e normate di confronto di opinioni tra soggetti portatori di competenze e interesse soprattutto nella fase pre-decisionale connessa alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche[2]; sia una accezione esondante che torna piuttosto alla questione decisiva della società “parzialmente ignorante”. Quella che quaranta anni fa il politologo Giovanni Sartori così metteva in chiaro: “Lo stato di disattenzione, sottoinformazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata»[3].
Nelle discussioni professionali che precedono l’uscita di questa rivista si sono prodotte intuizioni che dimostrano che i professionisti riguardati non hanno inteso sprecare l’occasione della pandemia[4].
Così che lo spaccato delle opinioni di operatori di “comunicazione e informazione” va assunto come un ambiente di percezione e ridistribuzione delle attività di uno di quegli ascensori che agisce comunque con poteri incidenti sui cambiamenti del “dibattito pubblico” inteso nella sua accezione più ampia.
Fin dall’inizio della crisi globale provocata da Coronavirus si era intuito che vi erano più settori – oltre a quello direttamente implicato dei medici e dei ricercatori, diversamente e a volte anche conflittualmente raggruppati nella “comunità scientifica” – che avrebbero potuto e dovuto lavorare sull’insorgente “dibattito pubblico”. Un confronto costruito subito su più piani, provocato dal virus e sagomato con carattere locale e globale (immediata intuizione di Piero Bassetti), cioè due livelli tematici distinti e interagenti. Pur essendo evidente che la contabilità della pandemia avrebbe avuto piuttosto una sagomatura nazionale, perché da essa dipendevano decisioni, norme e calcolo dei danni. In questo ambito chi scrive ha potuto avviare un monitoraggio dalla fine di febbraio, che ha riguardato l’evoluzione e le prospettive della “lezione sociale e civile della pandemia” nella nostra realtà[5] con cadenza quotidiana. Qui di seguito qualche spunto.
I due emisferi della reattività sociale
Il rapporto tra addetti ai lavori e la società nel suo insieme ha assunto, da subito, un carattere bipolare – con forte distinzione nelle dinamiche reattive – tra una componente sociale informata e critica e una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa non tanto attorno agli eventi quanto certamente attorno ai “processi”, per questo configurata in un fenomeno di “analfabetismo funzionale”. Componente questa che rapidamente ha mostrato la sua contaminabilità dall’effetto della infodemia, cioè dalla rapida crescita di un enorme volume di notizie ambigue sia nella sostanza che nella fonte.
Insomma un perimetro di ricaduta sociale (ma anche – attenzione! – di “nuova domanda” di informazione e comunicazione) in cui tutta la comunicazione finisce per rovesciarsi con difformi esiti. Perché in alcuni ambiti la condizione percettiva e reattiva della società si manifesta come sensibile, dialogabile, negoziabile. In altri ambiti essa appare molto meno elastica, poco modificabile, in particolare a causa di volontà dei poteri di non favorirne l’evoluzione. Ora, infatti, mentre alcuni mesi di fiato sospeso su contagi, ricoveri, dimissioni e decessi, stanno lasciando il posto a interrogativi di grave portata (redditi sfumati, produzione ridotta, occupazione sbriciolata, organizzazione sociale senza garanzia di ripresa, crisi individuali e collettive, debole rigenerazione della crescita, applicazione forzata di tecnologie che contengono rischi di deprivazione anche di diritti e di libertà, eccetera) il punto di domanda sul tema ricorrente – “nulla come prima?”- diventa obbligatorio. La risposta ottimistica di mostrare i nostri lati migliori a valle della crisi non sparisce ma non si impone. Quella domanda resta ancora per i più minacciosa e non stimolatoria.
Detto in altri termini – cogliendo anche una fase del dibattito pubblico internazionale, che ha natura, riferimenti e criticità anche diverse, ma che contrappone generazioni, rappresentanze di genere e di etnia e altri soggetti conflittuali in modo piuttosto radicalizzato[6] – si cerca di capire se sono già possibili valutazioni finali. Se cioè almeno nel medio periodo terremo la carreggiata e se, affrontando una questione cresciuta nella fase due, quella post-sanitaria e quindi più di carattere sociale, della crisi, i fattori di ritardo nelle dinamiche del ciclo “comprendere, partecipare, decidere” si presentino oggi come sistematici (dunque ritornanti in base a cause difformi) ovvero sistemici (ossia connaturati così profondamente da non farci immaginare che siano facilmente scalfibili). Ergo se finiremo fuori dalla carreggiata.
Malgrado le apparenze e le cose fin qui accennate, ci poniamo questa domanda con poco ottimismo. Anche qui per responsabilità che toccano la componente sociale decisiva che faceva dire a Giovanni Belardelli: “In realtà la qualità della discussione pubblica dipende sì dal pubblico, dalla totalità dei cittadini, ma anche da un altro fattore: la presenza o meno di élite in grado di introdurre elementi virtuosi nella discussione cercando di orientarla positivamente, in termini di diffusione di dati reali, di messa a fuoco di questioni rilevanti, di critica delle realtà parallele costruite facendo appello alle reazioni più emotive della gente”.
Già, la responsabilità di chi può e di chi sa. Vecchio cruccio, spesso confermato, non ancora estinto. Tramortito, va detto, dal lungo processo che – sommando crisi economica decennale a crisi sanitaria in atto – ha dimezzato la forza sociale del ceto medio, distruggendo (almeno in Italia) il baluardo politico riformistico e facendo sorgere, fino a dimensioni maggioritarie, il populismo.
E’ questo, mantenendo la sintesi, il chiaroscuro che accompagna le nostre discussioni forse fuori dal lockdown, ma non fuori dalle ambiguità delle condizioni, delle funzioni e persino delle consapevolezze.
Il dibattito davvero aperto è proprio su questo genere di dualismi italiani, il nostro paradigma identitario (terroni-polentoni, cattolici-comunisti, montecchi-capuleti, attivi-passivi, eccetera) che rapidamente polarizza quasi tutto certamente senza i freni inibitori di una identità nazionale che doveva essere rodata dalla storia dal momento in cui Massimo D’Azeglio pronunciò, fatta l’unità d’Italia, la più grande sfida possibile: “e adesso facciamo gli italiani!”[7].
Lo sguardo teso a riconoscere le zone d’ombra
Discussioni dunque sui media e soprattutto nella realtà. Su questioni sempre in bilico tra conoscenze limitate e decisioni difficili. Ogni nazione, ogni comunità locale, ogni borgo, ha affrontato ciò con statistiche che misuravano da un lato vivi e morti (i capitoli più penosi, da Bergamo alle RSA milanesi) e dall’altro con dati spesso incerti anche le capacità tecniche e politiche di proteggere la popolazione. Ovvero di fronteggiare l’imprevedibilità aggressiva del virus, mentre si apriva l’ennesimo conflitto (ancora acceso) sulla persistenza o al contrario sulla sparizione delle fonti di epidemia. Il perimetro di questo confronto si chiama “comunicazione pubblica”. Che, in Italia, ha avuto alterne sorti nel ‘900: partita dagli eccessi di potere del fascismo, poi la lunga sottotraccia democristiana (con deleghe variamente attribuite, tra l’altro anche alla Rai), poi un rilancio di ruolo nelle tensioni riformatici degli anni ’80 e poi il lungo travaglio della “seconda Repubblica” fino a ridimensionamento a favore del giornalismo e della comunicazione politica.
Così come Giuseppe De Rita, scrivendo in piena pandemia, riconosce: “La pandemia ha trovato un impressionante vuoto di comunicazione pubblica, un vuoto che non è stato coperto da saltuari episodi di enfatiche dichiarazioni governative, ed in cui hanno fatto supplenza il variegato mondo dei social (più opinioni che informazioni, naturalmente); e le pagine ed i supplementi locali dei grandi quotidiani (in alcuni casi, per qualche pignolo disperato osservatore, anche l’elaborazione dei necrologi quotidiani)”[8].
Annoto pochi punti, sempre per ragioni di spazio.
- Innanzi tutto la statistica. Spina dorsale di ogni comunicazione pubblica, ma cenerentola di un sistema mediatico e politico che, in Italia (e non solo) fa preferire i sondaggi (la percezione) sulla sua verità. L’idea che da noi la letalità potesse essere dieci volte quella dichiarata nel rito quotidiano della conferenza stampa ufficiale delle ore 17 è stata avanzata dal capo stesso della Protezione Civile Angelo Borrelli, che da quel momento è stato tenuto alle strette dai capi dell’Istituto superiore di Sanità e persino dalla vaghezza dei ministri di riferimento. Questione non solo italiana che, per altro, in alcuni paesi del mondo ha avuto una gestione politica pesante per i dati ingombranti sull’immagine del Paese. Mentre in Italia ha riguardato la difficoltà di monitorare i processi reali dei decessi non in ospedale, ovvero di tutta la dimensione extra-ospedaliera. Come si vede nell’esplosione dei dati di molti paesi, le curve statistiche hanno seguito traiettorie stravaganti. Con il risultato di incrementare una crescente inaffidabilità circa i dati stessi, primo gradino di una calata di rispetto istituzionale che non avrebbe dovuto verificarsi. Il tutto nell’ambito dell’esplosione di un problema generale di big data su cui, fatti salvi alcuni ammonimenti di Bankitalia, manca da noi un autorevole inquadramento pubblico di ciò che in questo campo oscilla sempre tra opportunità e minaccia.
- Nel quadro delle “zone d’ombra” andrebbe collocata la sostanza dello scontro centrale tra le voci in campo per la parte “scientifica” e per la parte “economica”. Compito del governo e di tutte le istituzioni avrebbe dovuto essere quello di mediare costantemente le due prospettive, trovando creativamente sintesi fase per fase. Non agire a riporto ora degli uni e ora degli altri, con quell’effetto dondolante che viene assunto quando si vuole dare ragione a tutti anche nel momento del maggior conflitto tanto di interesse quanto teorico. Sarebbe stato importante che il quadro politico istituzionale avesse potuto maturare la sua posizione attorno a un evidente rispetto per la salute e la prevenzione, ma al tempo stesso con forte tensione a vedere la prospettiva produttiva e di lavoro come sbocco reattivo della società da perseguire con la forza e in un certo senso anche con la durezza delle grandi epopee ricostruttive. Ma se nella politica italiana prevaleva – come ha prevalso – l’atteggiamento assistenziale era evidente che questa tensione non si percepiva e che molte altre cose conseguivano. Nel corso del nostro monitoraggio si sono registrate voci critiche circa questo punto civilmente e culturalmente essenziale.
- Terzo argomento – limitando così i casi – la questione della spina staccata dal sistema educativo, nelle convulsioni di dare risposte funzionali circa l’assolvimento della gestione delle lezioni e degli esami (argomento non eludibile) ma nella mancanza di un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi con ispirazioni, argomentazioni e proposte al di là della velocizzazione intervenuta nei processi digitali. Non per sminuirne la portata. Ma anche per non accodarci all’appagamento di questa funzionalità come la più importante delle modernizzazioni di quei sistemi. Qui il dibattito pubblico è stato duro, anche di qualità, ma periferico[9]. Non ha alzato molto la percezione dei problemi insoluti e ha lasciato che gli stessi media dilagassero sui centimetri del distanziamento dei banchi ma non cogliessero l’opportunità per un ribaricentramento della strategicità politica e sociale dell’educazione.
Su questo genere di discussioni le moltissime indicazioni prodotte da un monitoraggio accolgono di tutto. Anche la saggezza culturale del decano dei sociologi e dei pensatori educativi europei, Edgar Morin, che tradotto in un altro domenicale dell’Osservatorio, ha richiamato su molti punti attenzione a dibattiti ancora troppo sopiti: “I video non possono sostituire permanentemente i film, i tablet non possono sostituire permanentemente le visite in libreria. Skype e Zoom non danno un contatto carnale, il tintinnio del vetro di un “brindisi”. Il cibo domestico, anche eccellente, non reprime il desiderio di un ristorante. I film documentari non reprimeranno il desiderio di andare lì per vedere paesaggi, città e musei, non mi toglieranno il desiderio di ritrovare l’Italia o la Spagna. La riduzione all’essenziale dà anche sete al superfluo. Spero che l’esperienza modererà i nervosi compulsivi, ridurrà l’evasione di una fuga a Bangkok per riportare ricordi da raccontare agli amici, spero che contribuirà a ridurre il consumismo, vale a dire l’intossicazione del consumatore”[10].
L’incerto potere della comunicazione
Portando a conclusione questo block-notes – rapide falcate su una montagna di materiale – va detto che il punto di attenzione di una comunità professionale come quella che anima questa rivista riguarda il potere, quello civile e quello culturale. Potere che la comunicazione, nel suo complesso e nella sua specificità “relazionale”, rigenera (oppure no), modifica (oppure no), rafforza (oppure indebolisce) a valle di una crisi sanitaria e sociale ancora in corso e quindi senza diritto di tirare vere e proprie somme. Ma non eludendo nemmeno la responsabilità di una valutazione tendenziale.
Le forze in campo del dibattito (scienziati, imprenditori, politici, comunicatori) sono state indotte dalle regole della “rappresentazione” a convergere e a divergere. I media hanno ovviamente una funzione di accompagnamento e di legittimazione e delegittimazione che è forte in ogni società libera. Ma la “comunicazione”, fatta di azioni di intermediazione per segmenti sociali, fatta di relazioni cognitive, fatta di completamento di sensibilizzazioni e di consolidamenti attenzionali, potrebbe collocarsi più nel versante culturale che nella cassetta degli attrezzi decisionali. Dipende dai contesti, dipende dalla committenza, dipende dalle poste in gioco. Proprio i contesti di crisi e di emergenza hanno per lo più rafforzato una tendenza alla strategicità e non al puro “confezionamento”. Tuttavia siamo in epoca in cui la parola “strategia” si spreca per tutto, ma di essa c’è poca consistenza in ogni luogo dove questa parola dovrebbe essere custodita meglio. In questi ambiti la comunicazione pubblica è in fase di ripensamento di ruolo e di efficacia normativa. Qualcosa è in movimento. Ma è il contesto politico generale a non dare affidamento circa esiti di un (per ora) marginale interessamento. La comunicazione come contenitore generale – in tutte le sue articolazioni sociali, economiche, istituzionali e nella sua implicazione importante con la mutazione in atto dei processi digitali – riflette elementi di forza ed elementi di debolezza (tra cui il più grave è costituito dalla mancata forza di questa area di vedersi riconosciuta la propria autonomia disciplinare e quindi l’organizzazione di propri raggruppamenti).
Ecco dunque alcuni argomenti che fanno cornice anche alle conclusioni del monitoraggio qui evocato.
[1] Docente di Comunicazione pubblica e politica all’Università Iulm di Milano e direttore scientifico dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale. Ha avuto responsabilità dirigenziali in imprese e istituzioni. Presiede il network europeo dei responsabili della comunicazione governativa e delle stesse istituzioni della UE (Club of Venice, con sede presso il Consiglio UE).
[2] I riferimenti a questa interpretazione specifica si sono fatti in Italia materia concreta perché regolata con il DPCM 76/2018 che introduce, nel nostro ordinamento, lo strumento del dibattito pubblico in caso di determinate opere che si introducono inevitabilmente nella quotidianità del singolo cittadino o di comunità locali.
[3] Giovanni Belardelli, La qualità perduta del dibattito pubblico, Corriere della Sera, 18.7.2019
[4] Il riferimento è agli incontri del gruppo che si è chiamato “Aprilanti”, dal mese in cui tutto è cominciato, su cui su questo numero della rivista certamente saranno fatti cenni più dettagliati.
[5] Il monitoraggio ha preso il via il 21 febbraio 2020 arrivando (per ora) a fine agosto. E’ il rettore dell’Università IULM Gianni Canova a proporre il trasferimento pubblico dell’iniziale lavoro di indagine in ambito didattico attraverso l’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale, con direzione scientifica già affidata a chi scrive, attraverso un progetto denominato “Comunicazione e situazione di crisi”. Realizzati 4 dossier tematici, 91 fascicoli di rassegne della stampa quotidiana (cento notizie e citazioni al giorno tratte dalla carta stampata), 20 dossier “domenicali”, composti da opinioni tratte dal giornalismo in rete, sommate alla selezione settimanale delle notizie con maggior contenuto di pensiero analitico). In parallelo la gestione di web seminar tra esperti e in conclusione la produzione di testi di sintesi qualitativa dell’esperienza ora in stampa.
[6] Un survey di questi approcci in Per cosa lottare-Le frontiere del progressismo, a cura di Enrico Biale e Corrado Fumagalli, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Ricerche, 2020.
[7] Qui si colloca una prima riduzione del testo originariamente previsto. I tre brevi “inventari” del monitoraggio svolto (sui dualismi, sulla “pesatura” delle notizie prevalenti nel corso della pandemia, sul dibattito politico italiano per uscire dalla fase 1 sono rintracciabili in rete, sul mio blog: https://stefanorolando.it/?p=3701
[8] Giuseppe De Rita, Lento all’ira – Una visione della crisi nei giorni del coronavirus (aprile 2020) – Pubblicato dal Domenicale n. 7 del 26 aprile 2020 dell’Osservatorio Iulm su comunicazione e situazione di crisi.
[9] A luglio, nella forma narrativa di lettera indirizzata allo stesso Coronavirus, il piccolo libro di Marco Bracconi (La mutazione, Bollati Boringhieri) esprime la contraddizione della “digitalizzazione forzata” tra la lettura di libertà (la rete che ha permesso rapporti, contatti, connessioni nel momento dell’isolamento) e di un rischio di perdita della libertà (l’obbligo di indirizzo fortemente condizionato da un oligopolio internazionale, che appare “indiscutibile”, cioè da non discutere).
[10] Domenicale n. 8 del 3 maggio 2020, tratto da un lunga intervista a Le Monde di Edgar Morin, quasi centenario, lucido intellettuale, filosofo e pedagogista francese.
Il block-notes del monitoraggio quotidiano su media ed epidemia
Un fiume di parole. Tra mediazioni decisionali e dualismo sociale.
Stefano Rolando [1]
L’avventura dell’analisi nel magmatico e opaco “dibattito pubblico”
Dibattito pubblico è nozione che sta modificandosi. Il potere del web (velocità, interattività, sconfinamento) rispetto a forme tradizionali di ogni genere di “discussione”, sta svolgendo una radicale trasformazione della portata sociologica e culturale di significati invalsi.
Così che le due tradizionali sfere che un tempo facevano distinguere scambi nell’ambito di élite, ovvero portatori di competenze con la potenzialità di conferire alle opinioni una funzione interpretativa con “valore aggiunto” di ordine cognitivo e critico; e scambi di massa, in una fruizione di prevalente “scorrimento”, a pendolo tra il deposito immateriale dei mass media e i linguaggi di comunità (famiglia, lavoro, appartenenze), oggi hanno una lettura con geometrie qualitative più ampie e più articolate.
Resta che il sistema educativo e quello dell’informazione rappresentano ascensori importanti – importanti perché “relazionali” – tra snodi diversi dei poli sociali di riferimento, fino ad aumentare e diminuire distanze che segnalano sia l’alfabetizzazione sia la decisionalità.
Tuttavia l’evoluzione in corso obbliga a tener conto di molte variabili qui neppure compendiabili in sintesi.
A cui va aggiunto – proprio nel campo della comunicazione pubblica – che l‘espressione “dibattito pubblico” ha avuto negli ultimi venti anni sia una accezione riduttiva, con riferimento alle forme disciplinate e normate di confronto di opinioni tra soggetti portatori di competenze e interesse soprattutto nella fase pre-decisionale connessa alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche[2]; sia una accezione esondante che torna piuttosto alla questione decisiva della società “parzialmente ignorante”. Quella che quaranta anni fa il politologo Giovanni Sartori così metteva in chiaro: “Lo stato di disattenzione, sottoinformazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata»[3].
Nelle discussioni professionali che precedono l’uscita di questa rivista si sono prodotte intuizioni che dimostrano che i professionisti riguardati non hanno inteso sprecare l’occasione della pandemia[4].
Così che lo spaccato delle opinioni di operatori di “comunicazione e informazione” va assunto come un ambiente di percezione e ridistribuzione delle attività di uno di quegli ascensori che agisce comunque con poteri incidenti sui cambiamenti del “dibattito pubblico” inteso nella sua accezione più ampia.
Fin dall’inizio della crisi globale provocata da Coronavirus si era intuito che vi erano più settori – oltre a quello direttamente implicato dei medici e dei ricercatori, diversamente e a volte anche conflittualmente raggruppati nella “comunità scientifica” – che avrebbero potuto e dovuto lavorare sull’insorgente “dibattito pubblico”. Un confronto costruito subito su più piani, provocato dal virus e sagomato con carattere locale e globale (immediata intuizione di Piero Bassetti), cioè due livelli tematici distinti e interagenti. Pur essendo evidente che la contabilità della pandemia avrebbe avuto piuttosto una sagomatura nazionale, perché da essa dipendevano decisioni, norme e calcolo dei danni. In questo ambito chi scrive ha potuto avviare un monitoraggio dalla fine di febbraio, che ha riguardato l’evoluzione e le prospettive della “lezione sociale e civile della pandemia” nella nostra realtà[5] con cadenza quotidiana. Qui di seguito qualche spunto.
I due emisferi della reattività sociale
Il rapporto tra addetti ai lavori e la società nel suo insieme ha assunto, da subito, un carattere bipolare – con forte distinzione nelle dinamiche reattive – tra una componente sociale informata e critica e una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa non tanto attorno agli eventi quanto certamente attorno ai “processi”, per questo configurata in un fenomeno di “analfabetismo funzionale”. Componente questa che rapidamente ha mostrato la sua contaminabilità dall’effetto della infodemia, cioè dalla rapida crescita di un enorme volume di notizie ambigue sia nella sostanza che nella fonte.
Insomma un perimetro di ricaduta sociale (ma anche – attenzione! – di “nuova domanda” di informazione e comunicazione) in cui tutta la comunicazione finisce per rovesciarsi con difformi esiti. Perché in alcuni ambiti la condizione percettiva e reattiva della società si manifesta come sensibile, dialogabile, negoziabile. In altri ambiti essa appare molto meno elastica, poco modificabile, in particolare a causa di volontà dei poteri di non favorirne l’evoluzione. Ora, infatti, mentre alcuni mesi di fiato sospeso su contagi, ricoveri, dimissioni e decessi, stanno lasciando il posto a interrogativi di grave portata (redditi sfumati, produzione ridotta, occupazione sbriciolata, organizzazione sociale senza garanzia di ripresa, crisi individuali e collettive, debole rigenerazione della crescita, applicazione forzata di tecnologie che contengono rischi di deprivazione anche di diritti e di libertà, eccetera) il punto di domanda sul tema ricorrente – “nulla come prima?”- diventa obbligatorio. La risposta ottimistica di mostrare i nostri lati migliori a valle della crisi non sparisce ma non si impone. Quella domanda resta ancora per i più minacciosa e non stimolatoria.
Detto in altri termini – cogliendo anche una fase del dibattito pubblico internazionale, che ha natura, riferimenti e criticità anche diverse, ma che contrappone generazioni, rappresentanze di genere e di etnia e altri soggetti conflittuali in modo piuttosto radicalizzato[6] – si cerca di capire se sono già possibili valutazioni finali. Se cioè almeno nel medio periodo terremo la carreggiata e se, affrontando una questione cresciuta nella fase due, quella post-sanitaria e quindi più di carattere sociale, della crisi, i fattori di ritardo nelle dinamiche del ciclo “comprendere, partecipare, decidere” si presentino oggi come sistematici (dunque ritornanti in base a cause difformi) ovvero sistemici (ossia connaturati così profondamente da non farci immaginare che siano facilmente scalfibili). Ergo se finiremo fuori dalla carreggiata.
Malgrado le apparenze e le cose fin qui accennate, ci poniamo questa domanda con poco ottimismo. Anche qui per responsabilità che toccano la componente sociale decisiva che faceva dire a Giovanni Belardelli: “In realtà la qualità della discussione pubblica dipende sì dal pubblico, dalla totalità dei cittadini, ma anche da un altro fattore: la presenza o meno di élite in grado di introdurre elementi virtuosi nella discussione cercando di orientarla positivamente, in termini di diffusione di dati reali, di messa a fuoco di questioni rilevanti, di critica delle realtà parallele costruite facendo appello alle reazioni più emotive della gente”.
Già, la responsabilità di chi può e di chi sa. Vecchio cruccio, spesso confermato, non ancora estinto. Tramortito, va detto, dal lungo processo che – sommando crisi economica decennale a crisi sanitaria in atto – ha dimezzato la forza sociale del ceto medio, distruggendo (almeno in Italia) il baluardo politico riformistico e facendo sorgere, fino a dimensioni maggioritarie, il populismo.
E’ questo, mantenendo la sintesi, il chiaroscuro che accompagna le nostre discussioni forse fuori dal lockdown, ma non fuori dalle ambiguità delle condizioni, delle funzioni e persino delle consapevolezze.
Il dibattito davvero aperto è proprio su questo genere di dualismi italiani, il nostro paradigma identitario (terroni-polentoni, cattolici-comunisti, montecchi-capuleti, attivi-passivi, eccetera) che rapidamente polarizza quasi tutto certamente senza i freni inibitori di una identità nazionale che doveva essere rodata dalla storia dal momento in cui Massimo D’Azeglio pronunciò, fatta l’unità d’Italia, la più grande sfida possibile: “e adesso facciamo gli italiani!”[7].
Lo sguardo teso a riconoscere le zone d’ombra
Discussioni dunque sui media e soprattutto nella realtà. Su questioni sempre in bilico tra conoscenze limitate e decisioni difficili. Ogni nazione, ogni comunità locale, ogni borgo, ha affrontato ciò con statistiche che misuravano da un lato vivi e morti (i capitoli più penosi, da Bergamo alle RSA milanesi) e dall’altro con dati spesso incerti anche le capacità tecniche e politiche di proteggere la popolazione. Ovvero di fronteggiare l’imprevedibilità aggressiva del virus, mentre si apriva l’ennesimo conflitto (ancora acceso) sulla persistenza o al contrario sulla sparizione delle fonti di epidemia. Il perimetro di questo confronto si chiama “comunicazione pubblica”. Che, in Italia, ha avuto alterne sorti nel ‘900: partita dagli eccessi di potere del fascismo, poi la lunga sottotraccia democristiana (con deleghe variamente attribuite, tra l’altro anche alla Rai), poi un rilancio di ruolo nelle tensioni riformatici degli anni ’80 e poi il lungo travaglio della “seconda Repubblica” fino a ridimensionamento a favore del giornalismo e della comunicazione politica.
Così come Giuseppe De Rita, scrivendo in piena pandemia, riconosce: “La pandemia ha trovato un impressionante vuoto di comunicazione pubblica, un vuoto che non è stato coperto da saltuari episodi di enfatiche dichiarazioni governative, ed in cui hanno fatto supplenza il variegato mondo dei social (più opinioni che informazioni, naturalmente); e le pagine ed i supplementi locali dei grandi quotidiani (in alcuni casi, per qualche pignolo disperato osservatore, anche l’elaborazione dei necrologi quotidiani)”[8].
Annoto pochi punti, sempre per ragioni di spazio.
- Innanzi tutto la statistica. Spina dorsale di ogni comunicazione pubblica, ma cenerentola di un sistema mediatico e politico che, in Italia (e non solo) fa preferire i sondaggi (la percezione) sulla sua verità. L’idea che da noi la letalità potesse essere dieci volte quella dichiarata nel rito quotidiano della conferenza stampa ufficiale delle ore 17 è stata avanzata dal capo stesso della Protezione Civile Angelo Borrelli, che da quel momento è stato tenuto alle strette dai capi dell’Istituto superiore di Sanità e persino dalla vaghezza dei ministri di riferimento. Questione non solo italiana che, per altro, in alcuni paesi del mondo ha avuto una gestione politica pesante per i dati ingombranti sull’immagine del Paese. Mentre in Italia ha riguardato la difficoltà di monitorare i processi reali dei decessi non in ospedale, ovvero di tutta la dimensione extra-ospedaliera. Come si vede nell’esplosione dei dati di molti paesi, le curve statistiche hanno seguito traiettorie stravaganti. Con il risultato di incrementare una crescente inaffidabilità circa i dati stessi, primo gradino di una calata di rispetto istituzionale che non avrebbe dovuto verificarsi. Il tutto nell’ambito dell’esplosione di un problema generale di big data su cui, fatti salvi alcuni ammonimenti di Bankitalia, manca da noi un autorevole inquadramento pubblico di ciò che in questo campo oscilla sempre tra opportunità e minaccia.
- Nel quadro delle “zone d’ombra” andrebbe collocata la sostanza dello scontro centrale tra le voci in campo per la parte “scientifica” e per la parte “economica”. Compito del governo e di tutte le istituzioni avrebbe dovuto essere quello di mediare costantemente le due prospettive, trovando creativamente sintesi fase per fase. Non agire a riporto ora degli uni e ora degli altri, con quell’effetto dondolante che viene assunto quando si vuole dare ragione a tutti anche nel momento del maggior conflitto tanto di interesse quanto teorico. Sarebbe stato importante che il quadro politico istituzionale avesse potuto maturare la sua posizione attorno a un evidente rispetto per la salute e la prevenzione, ma al tempo stesso con forte tensione a vedere la prospettiva produttiva e di lavoro come sbocco reattivo della società da perseguire con la forza e in un certo senso anche con la durezza delle grandi epopee ricostruttive. Ma se nella politica italiana prevaleva – come ha prevalso – l’atteggiamento assistenziale era evidente che questa tensione non si percepiva e che molte altre cose conseguivano. Nel corso del nostro monitoraggio si sono registrate voci critiche circa questo punto civilmente e culturalmente essenziale.
- Terzo argomento – limitando così i casi – la questione della spina staccata dal sistema educativo, nelle convulsioni di dare risposte funzionali circa l’assolvimento della gestione delle lezioni e degli esami (argomento non eludibile) ma nella mancanza di un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi con ispirazioni, argomentazioni e proposte al di là della velocizzazione intervenuta nei processi digitali. Non per sminuirne la portata. Ma anche per non accodarci all’appagamento di questa funzionalità come la più importante delle modernizzazioni di quei sistemi. Qui il dibattito pubblico è stato duro, anche di qualità, ma periferico[9]. Non ha alzato molto la percezione dei problemi insoluti e ha lasciato che gli stessi media dilagassero sui centimetri del distanziamento dei banchi ma non cogliessero l’opportunità per un ribaricentramento della strategicità politica e sociale dell’educazione.
Su questo genere di discussioni le moltissime indicazioni prodotte da un monitoraggio accolgono di tutto. Anche la saggezza culturale del decano dei sociologi e dei pensatori educativi europei, Edgar Morin, che tradotto in un altro domenicale dell’Osservatorio, ha richiamato su molti punti attenzione a dibattiti ancora troppo sopiti: “I video non possono sostituire permanentemente i film, i tablet non possono sostituire permanentemente le visite in libreria. Skype e Zoom non danno un contatto carnale, il tintinnio del vetro di un “brindisi”. Il cibo domestico, anche eccellente, non reprime il desiderio di un ristorante. I film documentari non reprimeranno il desiderio di andare lì per vedere paesaggi, città e musei, non mi toglieranno il desiderio di ritrovare l’Italia o la Spagna. La riduzione all’essenziale dà anche sete al superfluo. Spero che l’esperienza modererà i nervosi compulsivi, ridurrà l’evasione di una fuga a Bangkok per riportare ricordi da raccontare agli amici, spero che contribuirà a ridurre il consumismo, vale a dire l’intossicazione del consumatore”[10].
L’incerto potere della comunicazione
Portando a conclusione questo block-notes – rapide falcate su una montagna di materiale – va detto che il punto di attenzione di una comunità professionale come quella che anima questa rivista riguarda il potere, quello civile e quello culturale. Potere che la comunicazione, nel suo complesso e nella sua specificità “relazionale”, rigenera (oppure no), modifica (oppure no), rafforza (oppure indebolisce) a valle di una crisi sanitaria e sociale ancora in corso e quindi senza diritto di tirare vere e proprie somme. Ma non eludendo nemmeno la responsabilità di una valutazione tendenziale.
Le forze in campo del dibattito (scienziati, imprenditori, politici, comunicatori) sono state indotte dalle regole della “rappresentazione” a convergere e a divergere. I media hanno ovviamente una funzione di accompagnamento e di legittimazione e delegittimazione che è forte in ogni società libera. Ma la “comunicazione”, fatta di azioni di intermediazione per segmenti sociali, fatta di relazioni cognitive, fatta di completamento di sensibilizzazioni e di consolidamenti attenzionali, potrebbe collocarsi più nel versante culturale che nella cassetta degli attrezzi decisionali. Dipende dai contesti, dipende dalla committenza, dipende dalle poste in gioco. Proprio i contesti di crisi e di emergenza hanno per lo più rafforzato una tendenza alla strategicità e non al puro “confezionamento”. Tuttavia siamo in epoca in cui la parola “strategia” si spreca per tutto, ma di essa c’è poca consistenza in ogni luogo dove questa parola dovrebbe essere custodita meglio. In questi ambiti la comunicazione pubblica è in fase di ripensamento di ruolo e di efficacia normativa. Qualcosa è in movimento. Ma è il contesto politico generale a non dare affidamento circa esiti di un (per ora) marginale interessamento. La comunicazione come contenitore generale – in tutte le sue articolazioni sociali, economiche, istituzionali e nella sua implicazione importante con la mutazione in atto dei processi digitali – riflette elementi di forza ed elementi di debolezza (tra cui il più grave è costituito dalla mancata forza di questa area di vedersi riconosciuta la propria autonomia disciplinare e quindi l’organizzazione di propri raggruppamenti).
Ecco dunque alcuni argomenti che fanno cornice anche alle conclusioni del monitoraggio qui evocato.
19.641, inclusi spazi, note e titolini intermedi.
19.782 compreso anche titolo e sottotitolo generale.
[1] Docente di Comunicazione pubblica e politica all’Università Iulm di Milano e direttore scientifico dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale. Ha avuto responsabilità dirigenziali in imprese e istituzioni. Presiede il network europeo dei responsabili della comunicazione governativa e delle stesse istituzioni della UE (Club of Venice, con sede presso il Consiglio UE).
[2] I riferimenti a questa interpretazione specifica si sono fatti in Italia materia concreta perché regolata con il DPCM 76/2018 che introduce, nel nostro ordinamento, lo strumento del dibattito pubblico in caso di determinate opere che si introducono inevitabilmente nella quotidianità del singolo cittadino o di comunità locali.
[3] Giovanni Belardelli, La qualità perduta del dibattito pubblico, Corriere della Sera, 18.7.2019
[4] Il riferimento è agli incontri del gruppo che si è chiamato “Aprilanti”, dal mese in cui tutto è cominciato, su cui su questo numero della rivista certamente saranno fatti cenni più dettagliati.
[5] Il monitoraggio ha preso il via il 21 febbraio 2020 arrivando (per ora) a fine agosto. E’ il rettore dell’Università IULM Gianni Canova a proporre il trasferimento pubblico dell’iniziale lavoro di indagine in ambito didattico attraverso l’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale, con direzione scientifica già affidata a chi scrive, attraverso un progetto denominato “Comunicazione e situazione di crisi”. Realizzati 4 dossier tematici, 91 fascicoli di rassegne della stampa quotidiana (cento notizie e citazioni al giorno tratte dalla carta stampata), 20 dossier “domenicali”, composti da opinioni tratte dal giornalismo in rete, sommate alla selezione settimanale delle notizie con maggior contenuto di pensiero analitico). In parallelo la gestione di web seminar tra esperti e in conclusione la produzione di testi di sintesi qualitativa dell’esperienza ora in stampa.
[6] Un survey di questi approcci in Per cosa lottare-Le frontiere del progressismo, a cura di Enrico Biale e Corrado Fumagalli, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Ricerche, 2020.
[7] Qui si colloca una prima riduzione del testo originariamente previsto. I tre brevi “inventari” del monitoraggio svolto (sui dualismi, sulla “pesatura” delle notizie prevalenti nel corso della pandemia, sul dibattito politico italiano per uscire dalla fase 1 sono rintracciabili in rete, sul mio blog: https://stefanorolando.it/?p=3701
[8] Giuseppe De Rita, Lento all’ira – Una visione della crisi nei giorni del coronavirus (aprile 2020) – Pubblicato dal Domenicale n. 7 del 26 aprile 2020 dell’Osservatorio Iulm su comunicazione e situazione di crisi.
[9] A luglio, nella forma narrativa di lettera indirizzata allo stesso Coronavirus, il piccolo libro di Marco Bracconi (La mutazione, Bollati Boringhieri) esprime la contraddizione della “digitalizzazione forzata” tra la lettura di libertà (la rete che ha permesso rapporti, contatti, connessioni nel momento dell’isolamento) e di un rischio di perdita della libertà (l’obbligo di indirizzo fortemente condizionato da un oligopolio internazionale, che appare “indiscutibile”, cioè da non discutere).
[10] Domenicale n. 8 del 3 maggio 2020, tratto da un lunga intervista a Le Monde di Edgar Morin, quasi centenario, lucido intellettuale, filosofo e pedagogista francese.