Pubblicato sulla rivista Mondoperio n. 11/2020
Un brano dal libro-intervista di Stefano Rolando (edito da Luca Sossella, ottobre 2020)

“Glocal a confronto” è il titolo di un libro-intervista con Piero Bassetti curato da Stefano Rolando e edito da Luca Sossella con la prefazione del filosofo dell’Università di Bologna Riccardo Fedriga. I due glocal che si confrontano sono uno il virus stesso che guida la pandemia, nel suo perfetto essere al tempo nel globo e nei luoghi. L’altro – che risponde a cento domande di indagine sui caratteri della rappresentazione di questa pandemia – è il presidente-fondatore della Regione Lombardia, poi parlamentare, a lungo esponente del sistema camerale italiano e da molti anni a capo di due fondazioni internazionali, con sede a Milano, che alzano il livello di analisi sui cambiamenti geopolitici e sociali nel mondo e sull’innovazione scientifica. Anticipiamo qui un capitolo del serrato dialogo, avvenuto nell’agosto prima della recente impennata, dedicato al “governo della crisi”. |

Il governo della crisi
Veniamo all’azione di governo, in Italia. Perché in questi casi è inevitabile un centro. E in un paese come l’Italia questa idea di “centro” avrebbe potuto avere molti e diversi interpreti in questa congiuntura. È toccata a Giuseppe Conte. Ci sono stati democristiani “taglienti” (da Fanfani a Donat Cattin) e democristiani “mediatori” (da Moro ad Andreotti). Che tipo di democristiano è (rivolgo la domanda a un competente storico) il presidente del Consiglio Giuseppe Conte?
Un avvocato. Un cattolico. Un razionalista istituzionale. Portato alla mitezza. In sostanza un isolato politico. Portatore di una contraddizione in sé. Nessun democristiano era in queste condizioni. Tutti avevano dietro secoli di cultura politica. Tu distingui nella domanda Fanfani e Moro. Capisco. Ma dal punto di vista della radice culturale politica era la stessa dimensione valoriale. Uno la sosteneva secondo la retorica levigata della Magna Grecia. L’altro con la focosità to- scana. Agivano per ottenere il consenso. Ed era il consenso alla democristianità. A Conte manca questo postulato egemonico. Tolto quello, in Italia resta solo il “valore della grana” (che dopo Berlusconi ha preso tutti perché tutti sanno che ormai i voti si comprano, nel senso che la politica non si può fare senza finanziamenti). Tuttavia Conte accarezza la sfida. Senza strumenti culturali radicati non vai oltre. De Gasperi parlava di Europa partendo da duemila anni di confronto tra la Chiesa e la politica. Il laicismo degli Azionisti era prima di ogni altra cosa valoriale. La Malfa introduceva il suo immanentismo non certo in modo strumentale. I politici di oggi arrivano dopo un lungo periodo di comunicazione digitale che ha travolto gli scenari della loro selezione.
In questa cornice chiunque abbia la ventura di guidare il Paese appare come gravato da una certa condanna, quella di non avere altre condizioni che interpretare la transizione. È così?
Ma, se per “transizione” intendi il passaggio dalla incoscienza alla consapevolezza, la identifichi con un certo ruolo. E questo sarebbe in fondo augurabile. Ma se per transizione intendi la possibilità di tornare a “contare qualcosa” come paese, penso che con gli strumenti in campo sia davvero cosa vana. Per dirla alla milanese l’Italia va assumendo la fisionomia dei “terroni” d’Europa. Per contrastarlo ci vorrebbe un altro Diocleziano che sapesse utilizzare Milano al rovescio.
Diocleziano ebbe il potere per più di venti anni. Oggi rara avis…
Lo cito infatti per come usò quel lungo tempo. Aveva bisogno di Milano per tener testa alla pressione politico-culturale dei “barbari” che scendevano. Mentre oggi il problema è di sostenere l’analoga pressione che proviene dal Mediterraneo.
In ogni caso Conte ha agevolato l’assoluta necessità italiana di stare nella cabina di regia delle decisioni che l’Europa avrebbe preso, sta prendendo e prenderà in materia di pandemia e crisi economico- occupazionale. Rispetto all’Europa eravamo a un passo dalla gogna, alla fine siamo stati considerati un soggetto a pieno titolo decisionale (con esponenti di primo piano nella “stanza dei bottoni” dal presidente del Parlamento al Commissario all’Economia). A cosa porteranno le decisioni europee? A quale Europa oggi l’Italia appartiene?
Solo un’anima semplice o un avventuriero potrebbe pensare che oggi ci sia qualcosa di importante o di grave che possa essere affrontato nella pura dimensione nazionale. Conte non è un’anima semplice e con i margini di manovra che si è conquistato con il suo secondo governo ha imboccato per fortuna questa strada, la strada dell’Europa. Se si dovesse chiarire di “quale Europa” si tratta magari le cose si complicherebbero.
Un’Europa economicistica che distingue formiche e cicale? No, perché è proprio il modello che si sta opponendo ai nostri interessi. Allora un’Europa confederale? No perché ci ritroveremmo alle prese con ventisette nazionalismi.
E allora cosa?
Secondo me una Europa ispirata alla cultura di Erasmo. Capace di produrre un nuovo patriottismo, simile a quello dei confederati svizzeri che manifestano per la loro confederazione che pure ingloba – con larga tenuta nel tempo – le tre culture, italiana, francese e tedesca. Un Erasmo che non abbia solo l’attuale valore simbolico per la formazione dei giovani europei ma che ci riporti all’abbandono delle esperienze del trattato di Westfalia (che ha inventato i confini). Ormai non basta più l’idea dell’Europa che garantisce il “no alla guerra”: l’Europa di Schuman. O nemmeno quella di Delors che partiva dall’idea di combattere in forza della capacità di produrre l’euro e più PIL. Una Europa invece alla Federico II che, valorizzando il rapporto tra nord e sud, riparta da un’aggiornata concezione della attualità e della centralità del Mediterraneo e che sappia ritrovare un po’ della tradizione romana e cristiana, non esclusa anche quella protestante.
Eppure da De Gasperi a Spinelli, da Amato a Prodi, ci sono italiani che hanno partecipato con autorevolezza all’architettura non solo giuridica ma anche identitaria e valoriale dell’Europa, per lasciare qualche traccia nei politici del nostro tempo. Dove può atterrare questa – se si può chiamare così – tradizione?
Per rifarmi soltanto a una famosa battuta direi: ritrovare la tradizione degli “intellettuali della Magna Grecia”. Contraddicendo l’Avvocato, che coniò questa battuta dispregiativamente. Chi ha valori da mettere in campo lo deve fare. Ne abbiamo parlato in precedenza parlando della prospettiva degli “italici”. Noi non possiamo rimettere in campo solo Roma. Dobbiamo invece saperci rifare alla lunga e profetica cultura di Federico II e poi di Dante, aggiungendovi il nostro Rinascimento.
Fa venire in mente la prospettiva che Gianni De Michelis, tra i costruttori di “Maastricht” che, allora come ministro degli Esteri, pensava a ricucire il patto nord-sud dell’Europa lasciando ai tedeschi la naturale coltivazione dell’egemonia euro-baltica e sostenendo possibile per l’Italia un’egemonia euro- mediterranea…
Può essere questa una soluzione. Poco realistica: perché adesso i soldi e la capacità produttiva sarebbero tutti al nord. Da qui la necessità di rimobilitare Milano e il nord Italia nel quadro di un rilancio della politica euro-mediterranea costruita alla Diocleziano. Che è uno scenario che oggi ha nel nostro presidente della Repubblica, per altro un siciliano, un convinto assertore. Sono d’accordo comunque nell’identificare i tedeschi come l’alleato più significativo di un ri-disegno fondante dell’Europa.
Tornando in Italia, perché tutta la classe dirigente è sembrata stare inchiodata al presentismo? Pochi piani veri a medio-lungo termine, poca visione del punto di approdo possibile delle trasformazioni, poche riflessione per coinvolgere il Paese nella destinazione strategica delle risorse finanziarie ingenti messe in manovra.
Il tempo ora lo ha fissato Coronavirus: 14 giorni. Non c’è purtroppo altro parametro che sembri aver corso. Io stesso guardo l’andamento dei contagi e mi richiamo a quel tempo per valutare. Solo l’arrivo del vaccino modificherà seriamente quel parametro. Anche se varianti sono possibili nel quadro degli adattamenti attuali della terapia. All’inizio dell’epidemia eravamo a zero al riguardo. Non siamo certi che il virus si sia fortemente indebolito. Sappiamo che siamo più strumentati rispetto alle terapie.
Insisto sulla domanda circa il dovere di allungare lo sguardo nel processo decisionale. Dove intravedi questa vecchia buona abitudine?
Intravedo ambiti di governo, in Europa, che basandosi su conoscenze più solide e non solo sull’adattamento comunicativo agli eventi introducano almeno un doppio registro. Angela Merkel, che è laureata in materie scientifiche, vi fa riferimento nei momenti difficili. Il suo passo sulla lunghezza dello sguardo non è mai casuale. Emmanuel Macron ha spettro di conoscenze, soprattutto economiche.
Anche qui si percepisce talvolta una pur necessaria attivazione di energie e di risposte non solo strettamente contingenti. Non è il punto forte dei nostri attuali gruppi dirigenti.
Prendi un terreno in cui le risposte non possono riguardare il fazzoletto dei 14 giorni. Ecco, da Francia e Germania si è sentito qualcosa che non era limitato all’assistenza agli alberghi ma che cominciava a porre – soprattutto ai sistemi coinvolti – reinvenzioni vere delle domande di mobilità.
Già. Sembra che da noi abbia più diritto di parola la pubblicità per le automobili invendute, che qualche esperto di trasformazioni che corrispondono a mutamenti profondi degli stili di vita…
Appunto, negli ultimi tempi mi sono chiesto anch’io chi è così pazzo da buttare soldi in sogni di auto decapottabili che attraversano deserti. Caso mai oggi varrebbe la pena di vedere se c’è un “gran tour” praticabile all’interno delle mobilità, che probabilmente saranno a lungo ridotte. Chi vendeva tour alle Maldive – invendibili a quel target che ha bruciato reddito per non avere lavorato per sei mesi – ha strumenti per generare flussi che comportano una revisione di senso del tempo libero? Questa progettazione si induce quando c’è un quadro politico che la intuisce e la legittima.
Ma questo vuol dire che immagini – o auspichi – che gli italiani convertano a breve la loro mobilità turistica rinunciando ai viaggi esotici e riscoprendo Cesenatico?
No, un momento, non esageriamo. Auspico un sentimento di riscoperta, comunque. Per esempio auspico una riscoperta dei musei, dei borghi, dei paesaggi interni del nostro Paese, come quello dell’Umbria. Il viaggio di conoscenza può riguardare un ambito molto più vasto degli attuali fruitori. È talmente forte e interessante il cambiamento sociale ed economico che riguarda il mondo, da poter sollecitare qualcosa di più del cambiamento delle distanze fra due ombrelloni.
Qui si apre una questione culturale di tendenza. Forse seguendo proprio pensatori come te, da qualche anno abbiamo considerato decisivo, per noi e per le prossime generazioni, il forte processo planetario di urbanizzazione. Abbiamo anche lodato le città. Forzieri di risorse, di conoscenze, di capacità trasformativa. E anche di demografia, di storia, di costumi avanzati. Poi sono arrivate le proiezioni di sviluppo delle città africane e asiatiche ed è passato un brivido nel mondo. Ora vediamo anche che le città sono il primo obiettivo del virus. E qualcuno fa marcia indietro. Predica la cultura di borgo, rivalorizza la campagna. Cosa ne pensi?
Anche questi scatti della storia riguardano i mutamenti della cultura della mobilità. Con la crescita di ruolo delle città, che ha risposto anche a un aumento dei costi della lontananza, si è imposta anche la mobilità verticale, i grattacieli (magari abbelliti dal verde). Se oggi parte – come parte – la corsa alle aree extra-urbane, alle campagne, in quattro e quattr’otto i nostri grattacieli rischiano paurosi invenduti. Ora l’accelerazione forte della trasformazione digitale riduce l’handicap della lontananza, ci porta a temere l’assembramento e la villetta in Brianza riassume l’attrattiva che aveva perso, senza farci perdere di netto il patrimonio relazionale. In un sistema di “città diffusa” – voglio dire di contiguità della qualità dei consumi – non si perde nemmeno l’accesso abituale ai servizi (oggi problema con più presa rispetto a quello di una volta che era di andare a piedi alla Scala).
Diciamo cinque anni fa, forse anche meno, tu non avresti sottoscritto questo cambiamento, vero?
Neanche per idea. Sono successe varie cose che hanno fatto maturare il fattore che, alla fine, è sempre strategico nei cambiamenti: la metabolizzazione della velocità dell’innovazione, in particolare quella riguardante il web. Stiamo tutti in forte apprendimento. Facciamo cose che non pensavamo al nostro ordine del giorno solo poco tempo fa.
Si è per esempio parlato addirittura di un Milano-Chiasso in quattro minuti, fino a rubricarlo come un progetto possibile. Ma tu – se per scarto improvviso della tecnologia puoi incontrare in quattro minuti due Stati, due società, due geografie – hai l’obbligo di rapportare a questo cambiamento ben più cose. Il periodo che stiamo attraversando ha queste caratteristiche. Per esempio, un urbanesimo che non è più costruito sulla scarsità dello spazio lontano, bensì sull’abbondanza dello spazio lontano.
Sono tutte cose che abbiamo visto cambiare in un soffio anche attorno a Milano. Comincerei con il dire che non fa più premio lo “stare vicino a piazza Duomo o a Palazzo Marino”.
Vicino-lontano sono cicli che permettono ancora oggi di leggere le mappe storiche delle nostre città…
Esattamente. Le mura che configuravano la sicurezza. Poi l’accesso alle nuove infrastrutture borghesi: mercati e università. Da ultimo la vicinanza al potere e alla finanza. E poi ancora la vicinanza al bello (la moda) e al buon cibo (passaggi recenti). Letto così il passato, il ciclo che si è innescato ha già tratti di trasformazione. Affiora persino sui media questa percezione e persino questa voglia di dibattito.
Un dibattito secondo te ispirato a un bisogno di fuga o – pensiero ardito – a profilare nuove economie?
Ti rispondo così: se venisse fuori che l’Occidente – diciamo il nostro Occidente – magari grazie anche al successo del vaccino si rivelasse particolarmente salubre, viene da dire che ambiti del mondo come l’Africa torneranno ad avere una simile salubrità solo in molti anni. È in questo approccio che dobbiamo immaginarci la salubrità – ci sono tutte le premesse – come una condizione strategica del tempo che verrà. Con tutti i valori economici che hanno i paradigmi generali quando si impongono.
Mi pare che i riferimenti alla centralità del tema climatico e ambientale e ora al tema del ridisegno dei sistemi urbani in rapporto a nuove forme di mobilità e di spazialità, potrebbero costituire un legame importante tra questa pandemia e i nuovi indirizzi di governo (tema certamente italiano ed europeo) laddove essi sono stati o materia “movimentistica” o “convegnistica”, ma sostanzialmente ai margini del rapporto tra voti e interessi. Come è immaginabile che questa possibilità sia colta dalla politica smarrita del nostro tempo?
È più che immaginabile, la considero ineludibile come presa di coscienza stessa degli eventi in corso. Il nesso con le cose che stiamo dicendo è totale. Coronavirus è un forte segnale di ribellione della Natura. Ormai stiamo erodendo il pianeta a cominciare dalla metà dell’anno. Tempo fa lo facevamo nell’ultimo mese. L’accelerazione è stata immensa. Dunque non è un optional.
Ormai cinquanta anni fa un certo ceto intellettuale e imprenditoriale lanciò dall’Italia (il Club di Roma) – in forma culturalmente epocale – il tema dei “limiti della terra”. Perché allora ci si limitò alla discontinuità culturale (pur con una crescente mobilitazione) mentre oggi il carattere sarebbe quello della ineludibilità?
Semplicemente perché allora la preoccupazione era per il consumismo, adesso è per la sopravvivenza. Coronavirus ha posto il tema della morte. Il Club di Roma quello della scarsezza.
In questo periodo riecheggia nel sovranismo nazionalista europeo una ripresa di profonda critica all’Illuminismo. Pensando a tante cose, ma soprattutto all’Europa della ragione e dei diritti, come giudichi questa tendenza?
La giudico una difficoltà a capire che sempre il pensiero evolve. L’Illuminismo aveva un particolare rapporto con il razionalismo. Mentre oggi vi sono culture scientifiche avanzate che hanno varcato le frontiere e sono nel post-razionalismo. Dunque quel genere di critiche sono ispirate soprattutto a rimettere indietro le lancette della storia.