I dualismi del dibattito pubblico sulla variante italiana del Coronavirus

Articolo per la rivista Mondoperaio n. 3/4 – aprile 2020

Stefano Rolando

Dalla fine di febbraio siamo alle prese con un ampio “flottante informativo” riguardante la crisi in corso della pandemia provocata dal Coronavirus. Così ampio da divenire in alcuni giorni e in alcuni media totalizzante.

La complessità della materia – per i suoi misteri, per l’insicurezza assoluta della sua durata, per l’adattamento in diversi contesti nazionali e mondiali, per lo scatenamento di un confronto scientifico (cura, contrasto e ricerca) che è appena agli inizi, per la reattività che si produce nelle comunità nazionali attorno alle misure adottate – un giorno arriverà ad un punto fermo di analisi.  Ora, a fine marzo, siamo tutti in alto mare. Quando si saranno comprese seriamente le cause e le dinamiche, si faranno anche le somme, si collocherà questo evento di crisi nella robusta panoramica dei primati catastrofici della storia del mondo, soprattutto si useranno i verbi al passato nel dedicare narrazioniche seguiranno molti filoni.

  • Quello giornalistico, finché vi sarà “notizia”.
  • Quello storico-scientifico quando si andrà a fondo delle origini e delle conseguenze.
  • Quello creativo e più ampiamente narrativo quando le forme trasfiguranti della realtà avranno preso la via della letteratura, del cinema, dell’arte, dello spettacolo. Attorno alla storia della peste tutto ciò si è già svolto nei secoli, con attuale viva suggestione se è vero che Amazon dichiara che due libri emblematici del ‘900 sulle sciagure pestilenziali (La peste di Camus e Cecità di Saramago) sono andati esauriti per eccesso di ordinazioni.

E’ bene dire che nella prima settimana della crisi, a cavallo tra febbraio e marzo, una polemica sul carattere fin dall’inizio “totalizzante” vi è stata. Con accuse ai giornalisti di enfatizzare e di provocare eccessi d’ansia. Poi con i dati in impennata e con un posizionamento italiano che – oggi la curva fa impressione – domina lo scenario internazionale per numero di decessi[1], questa polemica è piuttosto rientrata e si è passati quindi a valutare altro. Non l’enfasi strumentale, ma i caratteri, la funzionalità, lo spirito di indagine, il modo di utilizzare l’informazione scientifica, e tanti altri aspetti diciamo più strutturali che pregiudiziali.

Nella dialettica dei media: il racconto socio-sanitario e il confronto sulle misure

Oggi si può ragionare sull’enorme quantità di informazione già prodotta, che sui media attualmente comporta un 30% di cronaca (sanità, società, attuazione misure), un 20% di numeri (locali, nazionali, comparativi), un 20% di dibattito scientifico e un 30% di confronto tra gli interessi rappresentati (in particolare quelli politici e quelli economico-produttivi) che costituiscono l’agorà dei soggetti che – ovviamente insieme alla comunità scientifica realmente esperta e competente – disputano sulle decisioni da assumere.   Per ciascuno di questi approcci vi è un diverso giornalismo che si batte (con consapevolezza dell’opportunità professionale ed editoriale che si presenta) per scovare la notizia, per spiegare la notizia, per produrre temperato conflitto sulla notizia. Così da scarnificare aspetti troppo tecnici e far maturare ogni giorno punti di adesione e avversione soprattutto su ciò che resta un mistero e su ciò che diventa norma. Sapendo che qualche volta  anche la norma accresce qualche componente di mistero.

Per capire di cosa parliamo, di questo argomento bisognerebbe prendere in considerazione le scansioni prevalenti del dibattito pubblico che si è fin qui sviluppato. Per vedere se qualche parola di sintesi sia pronunciabile appunto un mese dopo l’avvio di questa immensa e drammatica corrida.  Non è difficile riconoscere il principale paradigma italiano di questo dibattito. Che già di per sé, per essere “dibattito”, non può presupporre un pensiero unico. Ma che in Italia (e altrove, si intende) assume per vocazione storica una inevitabile trasformazione in un dualismo di posizioni immediatamente pronte ad esprimersi in conflitto e faticosamente meno pronte ad estinguersi in una convergenza di “salute pubblica”.

Tralasciamo alcuni elementi di scontro occasionale: se abbiamo perso tempo o abbiamo anticipato tanti altri paesi; se abbiamo osservato seriamente le disposizioni o le abbiamo dribblate; se abbiamo messo in campo tutte le risorse disponibili o abbiamo realizzato in lenta progressione il quadro delle necessità.

Ci sono dati, ci sono rilevazioni demoscopiche, ci sono argomenti acquisiti e alla fine siamo in una fase diversa da quelle discussioni. Sempre misurandoci su almeno un terzo dei nostri concittadini poco sensibili sia all’appello cognitivo che a quello solidale e civico[2]. Ma con una maggioranza di società responsabile che si va ben delineando. E’ evidente che dopo le epidemie dell’ultimo ventennio (Ebola, SARS, Peste suina) il modello di gestione di questo genere di crisi non è stato al centro di un allenamento accurato (salvo qualche meritevole che vi si è dedicato). L’ultimo protocollo che regola la gestione di crisi di questa natura (pandemie) risale al 2009. L’effetto sorpresa è stato di conseguenza assoluto: medici, strutture della sicurezza, amministrazioni. Da qui colpevoli ritardi – calcolati in quindici/venti giorni di una certa dispersione – in cui sembra di poter dire tuttavia che l’Italia abbia perso meno tempo di altri pur organizzati paesi. E’ evidente che il ritardo ovvero la difficoltà di approvvigionamento di tutti i mezzi di prevenzione di base, non solo per i cittadini ma molto spesso anche nelle strutture in prima linea, resta un evento drammatico, dietro a cui c’è assenza prima di previsione e, per un tratto della crisi, anche di sottovalutazione.

Ritardi che riguardano anche il format della comunicazione istituzionale che, in questa vicenda, non le ha imbroccate tutte. A cominciare da una crescente confusione sul fattore cardine della comunicazione istituzionale: la certezza ovvero la verità statistica. Riprenderò alla fine il tema.

Proviamo ora a delineare quei dieci temi che nella valutazione a spanne della quantità di prodotti mediatici circolanti fanno parte di un dibattito avviato e che si profila aperto e lungo. Ogni tema sarebbe un ampio testo. Qui, nello spazio di una nota, è però necessario limitarsi a scattare dieci foto con brevi didascalie.

Quadro politico e quadro democratico. Per ora solo cenni ma sono temi cornice

Lascio ad altri – direttore in testa – l’arduo onere di riflettere e scrivere sul tema di scontro che ovviamente ha accompagnato, a volte in sordina altre volte fragorosamente, la quotidianità di questo periodo sconvolgente: la tenuta ovvero la crisi del nostro quadro politico e la sue possibili evoluzioni. Argomento che, nel breve, la crisi ha tenuto in sospeso.

Facendo tuttavia ancora un’osservazione preliminare che parte dal buon senso delle parole di Guido Silvestri (direttore del Dipartimento di Patologia e Medicina alla Emory University di Atlanta): “Siamo ottimisti. Dove gli ospedali tengono, la malattia è gestibile. Vedendo solo le cose negative finiremo preda di bufale e complottismi. Invece l’epidemia va affrontata con razionalità°[3]. Appunto, “buon senso”. Che in giorni di crucialità assoluta della velocità del contagio assai più potente degli strumenti per ora di contrasto, deve conformare un orientamento generale prudente del pur non facilmente comprimibile dibattito pubblico. Quindi propendo per la condivisione di questo monito. Ma buon senso non vuol dire tacitare i problemi che – quando è in gioco un argomento assolutamente non innocente come il “dibattito pubblico” (ovvero un’agenda negoziata con durezza da tanti soggetti, qualunque siano le circostanze in atto) – sono principalmente quelli di ridisegnare sempre e senza soste tutte le dinamiche di potere che sorreggono tanto le soluzioni delle crisi quanto la loro trasformazione opportunistica.

Quindi l’attenzione critica sull’evoluzione del quadro politico non è affatto una “strumentalizzazione”, ma una necessità che qualcuno deve svolgere. Tanto più se quel qualcuno, appartiene – come noi – a un’area debole dei poteri esercitati, ma al tempo stesso anche un’area che ha accumulato storiche esperienze attorno al rapporto tra potere e libertà.

In più, la tenuta del quadro politico, comunque, non vuol dire precisamente la tenuta del quadro di governo.

E’ evidente che, dal momento in cui si è omologata l’espressione “siamo in guerra”, che per due settimane ha stentato a decollare, poi – pur non in presenza di una statistica di conseguenze propriamente di guerra, ma con comportamenti collettivi che non si vedevano più dal tempo di guerra (quindi percepiti oggi solo dagli ottantenni) – il dibattito sulla “tenuta della democrazia” si è aperto. Con prese di posizione che procedono negli approfondimenti con una certa prudenza, ovvero con un’intensità che forse è ancora insufficiente. Anche perché tra poco tempo, se si accentua come si dice in maniera dirompente la crisi economico-occupazionale, salirà in forma inarrestabile la “domanda di ordine”. Questa è una lezione scritta a lettere maiuscole nel passaggio storico – in Italia e in Germania, per esempio – dalla guerra alla povertà, dall’instabilità alla reattività sociale, dalle rivolte alle stato di polizia. Finora questa discussione ha profilato alcune variabili:

  • la tenuta delle regole costituzionali e della funzionalità delle istituzioni di controllo che  ne sono espressione;
  • l’esigenza di inscatolare la fragilità (tanto ormai è sempre fragile la stabilità) della condizione di governo in una prospettiva – né chiara, né circoscritta, né con gruppi dirigenti adeguati –  all’unità nazionale, che è un’esperienza con  il “caso Monti” alle spalle che ha esaurito il suo compito risolvendo solo alcune, certo non tutte, condizioni di marcia del Paese;
  • il profilarsi di un contesto di maggior controllo e tracciabilità della mobilità e, più in generale, della vita dei cittadini, che da un lato muove preoccupazioni in ordine alla privacy, ma a guardare bene confina largamente con preoccupazioni di ordine superiore, che riguardano una storia lunga e oscura che, in due parole, racconta che nelle traversie e nelle difficoltà di una nazione, è trasparente l’operato dei migliori ma è sotto traccia quello di chi pensa sempre di agire al di là delle regole costituzionali (ciò vale per il sistema criminale e vale ovviamente anche per le componenti per definizione “segrete” degli apparati istituzionali).

Democrazia e libertà di opinione sono più importanti che mai”, ha ricordato Giuliano Amato in un’intervista di questi giorni dedicata anche alla vigilanza sociale nel particolare contesto che si è creato[4].

Si è dunque consapevoli che il bilancio del dibattito che si è aperto deve vedere attorno ai nodi appena citati una variabile che merita un trattamento speciale e specialistico. Ma questa pandemia, alla fine del primo mese, presenta la fotografia di un’Italia che ha superato la Cina nei numeri di contagio e di decessi e vede ora con angoscia in impennata i dati negli USA (con epicentro New York). In più fa emergere la paura che il sud Italia (e più in generale i sud euro-mediterranei, Africa compresa) possano essere al centro di una drammatica evoluzione della fase due, con elementi non campati per aria che immaginano a breve-medio termine esaurito il potenziale di scontro nelle zone più attrezzate del pianeta e con la riscossa del virus rivolta verso l’area del mondo dove la soglia di resistenza organizzata è come un pane di burro attraversato da una lama. Dichiarando quindi fin da ora che la cornice della discussione su politica e democrazia e quella sulla geopolitica della pandemia possono essere in tempi brevi sovrastanti rispetto ad altro, di quell’altro ci si è tuttavia occupati in questo mese di “prima conoscenza” con il mistero coronavirus. Con questi spunti.

I dieci dualismi

  1. Salute/Economia – Il primo scontro mediaticamente espresso si è aperto verso la terza settimana della crisi, con tentativo di influenzare, dai due fronti, la politica, ed è finito con la netta supremazia narrativa e decisionale delle posizioni della comunità scientifica. Ma con la generazione nella quarta settimana si è delineato un approccio diverso, più figurativamente rivolto al futuro, delle questioni dell’economia e del lavoro che riportano a dimensione europea una ricerca di equilibri sia comunicativi che decisionali. Pur essendo prevalso il tema “salute” nelle priorità di misure e anche nelle narrazioni, è crescente la preoccupazione per la crisi economica e occupazionale, che è anche rappresentata dalle tendenziali posizioni dei paesi in campo, che comprende (UK in testa) anche teorie sembrate provocatorie, ma con rilevanti supporti, sulla “immunità di gregge”.
  2. Stato/Regioni – Scontro antico, questo, composto ma non sopito, riacceso per l’inevitabile ritardo delle forniture, stemperato per una certa attenzione che si è fatta largo (dopo l’invito formale del presidente della Repubblica) all’ascolto di tutti da parte del capo del Governo; ma soprattutto per la mediazione silenziosa e piuttosto rispettata del Ministro della Salute (che ha anche il benefico destino di chiamarsi con un nome confortante per le sue funzioni). Incertissimo esito, a breve dipendente dai tempi di concretizzazione del lavoro di Domenico Arcuri, commissario alle forniture con qualche “passaporto” antiburocratico che auguralmente gli sarà stato concesso.  Più in là si ripartirà da un cantiere dove federalismo, autonomia differenziata, titolo V e altro sembrano inquadramenti da ripensare. “Stato-Regioni, le clausole di supremazia non servono”, ha scritto Valerio Onida in questi giorni ricontestualizzando queste riflessioni[5].
  3. Nord/Sud – Non risolto a monte né culturalmente né economicamente, nell’impossibilità di essere mediato dalla politica nazionale, scatenato all’inizio con accenti viscerali, ora concepito come questione di possibile concatenazione esperienziale dolorosa che, se alimentata da episodi come la disponibilità di molti medici del sud di accettare l’impegno in trincea al nord, potrebbe trovare la via delle reciproche solidarietà. Non certo, ma non impossibile. Come non è né certa né ovviamente augurabile la “fase due” di una particolare recrudescenza del contagio nell’area del Paese che ne è stata finora più al riparo.
  4. Giovani/Anziani – Troppo a lungo ha aleggiato l’idea che Covid-19 avesse nel mirino i vecchietti non curandosi della gioventù. Schema ignorante e mediaticamente manipolato. Intanto perché i ragazzi ci tengono ai loro nonni. Poi perché è brutto essere attaccati con alcune precedenti patologie addosso. “Il razzismo della terza età”, ha scritto Paolo Guzzanti, chiosando alcuni episodi del periodo[6]. Ma è anche brutto essere untori, consapevoli o inconsapevoli. Alla fine, giorno per giorno, c’è stata una ricostruzione di senso, complice la clausura. Il conflitto è scemato. Lasciando tracce ignobili.  Vedremo cosa fiorirà.
  5. Europa sì/Europa no – Grazie all’allenamento di qualche anno di dibattito politico sul tema, l’artiglieria era predisposta. Ma nel corso degli eventi quell’artiglieriasi è rivelata in buona parte inservibile. L’Europa è stata lenta nell’assumere consapevolezza. Ora mette sul tavolo argomenti decisivi (tra cui i circa mille miliardi della Bce) per trovare un campo nuovo di dialogo. Sassoli fa quel che può, ma mancano testimonial forti. Che si sveglino davvero i comunicatori, non burocratici, ma di una storia tanto antica quanto futurologica. Per questo la partita finanziaria diventa decisiva per capire se, annunci a parte, l’Europa scrive di nuovo un capitolo sulla sua unità, oppure dilata solo regole a denti stretti per allontanare il primo agguato alle economie nazionali. Ma diventa anche decisivo elaborare un modello che torni sull’ “Europa aperta”, quando il rischio di una caduta finale di pensiero politico mondiale può essere –  come ha scritto Federico Rampini da Pechino[7] – l’affermarsi dell’idea di un mondo “che esca da questa crisi ancor meno integrato, con le frontiere aperte viste come fonte di pericolo”.
  6. Istituzioni/Partiti – La distinzione è ben compresa in Europa e in altri paesi democratici nel mondo, ricordando che la democrazia parlamentare non è perseguita dalla maggioranza dei paesi in cui è parcellizzato il pianeta. Un po’ meno compresa in Italia. Mentre la scena abituale della comunicazione politica vede le istituzioni sempre abbastanza silenziose e i partiti ridondanti cioè nello sfruttamento di ogni spazio di visibilità, la vicenda della crisi in atto ribalta questa tendenza e abitua, con un certo conforto dell’opinione pubblica, a ridurre i “teatrini” del rissoso confronto assertivo e a giustificare la presenza mediatica di esponenti da cui ci si aspetta che dicano “cose utili”.  Alcune forze politiche dimostrano fatica e irrilevanza alla prova di “ruolo utile” agli occhi dei cittadini, continuando (non tutti) a fare dichiarazioni opportunistiche. Il che non è cosa democraticamente positiva.
  7. Media tradizionali/Rete – I media professionali, capaci di ricerca e soprattutto interpretazione degli eventi, hanno recuperato ruolo e mercato rispetto al rullo compressore della rete. Ma siccome il “mercato” – pur nel coraggio delle edicole – è collocato nel vuoto forzato delle chiusure, il risultato è ora più morale che sostanziale (i libri hanno perso nel mese il 25% del fatturato). Ma dallo stesso mondo della rete vengono segnali di responsabilizzazione e di servizio (come quello dei grandi motori di ricerca che tengono a bada l’algoritmo per reindirizzare le ricerche verso siti “utili”). Così da chiederci se non ci siano prodromi di una sorta di riequilibrio. In ogni caso si assiste a una spinta qualitativa del giornalismo di tradizione e delle stesse grandi testate a portare avanti con punte di grande professionalità il lavoro on line per dare continuità all’azione informativa[8].
  8. Sanità pubblica/Sanità privata – Il tema resta conflittuale per la residua diffidenza di una parte della politica a legittimare il pluralismo di impresa e gestione nel settore. Quindi una polemica storica. Ma nei contesti di grave crisi la cooperazione e la mutua disponibilità, nel quadro di una coraggiosa prestazione di tutti gli operatori senza distinzione, sarà ricordata come cosa maiuscola di questa crisi. Resta il tema vero della soglia di efficacia e resta la diatriba sulle risorse sottratte al settore pubblico (da Monti in poi) da esaminare con un rendimento globale di funzionalità più che ideologicamente.
  9. Lavorare /Non lavorare – Milioni di persone si sono trovate non a scegliere su queste opzioni, ma ad essere scelti dai decreti per continuare le prestazioni o per rinunciarvi forzosamente. Tra quelli scelti tuttavia la componente assenteista è cresciuta, complice anche la mancanza di strumenti di tutela e difesa dappertutto. In alcuni casi (la logistica, ad esempio) mettendo in difficoltà anche le filiere considerate strategiche. Tra i non scelti una parte ha spostato con decisione una certa continuità nello smart-working (che è un investimento verso la modernizzazione di sistema), ma un’altra parte subisce gravi rischi.  Dunque luci e ombre. Ma la partita è solo all’inizio ed è quella che aprirà ferite gravi, se non si farà una sagacissima prevenzione.
  10.  Presente/Futuro – Sono i due veri teatri della rappresentazione, ora in rapporto di 8 a 2, tutti con gli occhi ai bollettini quotidiani, ma giorno per giorno nella necessità di coniugarsi e integrarsi. E quindi con un rapporto in evidente evoluzione, tanto da essere al centro del più teso e solenne intervento del presidente della Repubblica Mattarella nel giorno del triste primato italiano nel mondo in materia di numero delle vittime.   Dalla fine di marzo poi lo sguardo avanti ha il kick off firmato sul Financial Times da Mario Draghi[9]. Ma lo scarto tra parole e parole, ovvero tra retorica degli annunci o piani di resilienza ricostruttiva, passa attraverso una cosa nota da sempre.  Se un paese ha classe dirigente all’altezza di sfide di questo genere, ciò avviene presto e con creatività sociale. Grande, difficile, per alcuni impossibile, prova per l’Italia di questi tempi. Tempi per i quali Alessandro Baricco si è incaricato di chiedere di passare “dalla prudenza all’audacia[10], mentre Greta Thumberg ha immaginato che, senza una scossa reale di paura, il pensiero decisionale del nostro tempo rischi l’inamovibilità: “Non voglio il vostro aiuto – ha detto al potere economico riunito a Davos – non voglio tuttavia che siate senza speranza. Voglio che andiate in panico, per sentire la paura che provo ogni giorno[11].

La questione della comunicazione istituzionale

Questo rapido inventario non può tralasciare – ed è giusto farlo in conclusione, per cogliere l’intero spettro della dinamica comunicativa in atto – di fare un cenno a una critica, ovvero una polemica, che ha accompagnato la crisi: dubbi, perplessità, qualche volta irritazioni per la qualità e soprattutto l’efficacia della comunicazione istituzionale, a cui si è fatto prima un cenno, in particolare parlando di rapporti tra istituzioni e partiti.

Luciano Floridi (professore di Filosofia e Etica dell’Informazione a Oxford) ha scritto che “la cattiva gestione della comunicazione ha innescato drammatizzazione e banalizzazione e ha polarizzato le opinioni[12]. Infatti anche qui c’è un dualismo che precede di gran lunga questa crisi: l’invasività della comunicazione politica, ovvero l’esercizio da parte dei vertici politici di uno sconfinamento abituale laddove – soprattutto quando la materia è complessa e altamente tecnica –  può rendere il ruolo del politico di professione, sia pure nell’esercizio di una legittima autorevolezza di funzione, impreciso e impreparato. E quindi, proprio nelle condizioni emergenziali, è vivamente consigliato che il presidio sia affidato a figure di credibile competenza, riservando alla politica momenti di assunzione di responsabilità in ordine a rilevanti scelte e in annuncio delle principali regole da attuarsi.

Anche qui ha pesato una prima fase di incertezze, poi risolta con la quotidianità presidiata consolarmente dall’Istituto superiore di Sanità e dalla Protezione civile, e con un ruolo di battitore libero naturalmente del capo del Governo che raccoglie critiche tra gli addetti ai lavori e naturalmente nel quadro politico di opposizione, ma che ha visto crescere, durante la crisi, un riconoscimento di affidabilità e di qualità di mediazione presso gli italiani.  Il punto vero non è solo quello del rapporto tra funzioni e competenze. Ma quello della vera e propria missione che si ritiene debba svolgere una comunicazione “speciale” che non dovrebbe essere direttamente collocata in fonti che possano essere percepite come interessi parziali o che agiscono con sottostanti intenti di favorire queste parzialità. Ma che non deve essere neppure collocata ad un livello magari di ufficialità che dà certezze ai dati statistici, ma che manca di quella – espressa e percepita – socialità che consente di svolgere a tempo pieno un vero e proprio accompagnamento (anche narrativo) di tutta la società, cogliendo tre obiettivi tra loro fortemente connessi:

  • avere qualità di corretta spiegazione dei fatti e dei processi in corso, fuori dalle formule dei comunicati e all’altezza di una domanda tanto popolare quanto altamente profilata;
  • accompagnarsi di volta in volta di tutti gli esperti necessari per argomentare  in profondità o in spiegabilità passaggi oscuri ai più e comunque di interesse generale;
  • essere accreditato dal sistema dell’informazione come figura (o team) rispettoso delle libertà del sistema dell’informazione e al tempo stesso formato per cogliere le istanze relazionali con i media attorno a tutte le connessioni da cui dipende un’azione più corale verso i cittadini, in alcuni momenti indispensabile a convivere funzionalmente con i contesti di crisi.

Non necessariamente si tratta di una figura “giornalistica” in senso stretto, anche se la legge 150/2000 ha identificato per tali scopi un figura prevalentemente di cultura giornalistica. Ma può anche rivestire un’esperienza maturata nel quadro istituzionale proprio nella mediazione tra istanze decisionali, istruttorie in atto nelle amministrazioni, domanda sociale e qualità di competente tempestività rispetto alle dinamiche dei media. In verità il Portavoce di un capo di Governo – o figura di equivalente profilo istituzionale – dovrebbe avere per definizione questi caratteri altamente professionali. A meno di non pensare che nel corso del tempo queste figure – che avevano una volta una parte sicura di queste skills – non siano diventate funzionali alla sola promozione di immagine della figura che li ha chiamati all’opera. Abbandonando tutto ciò che li lega autorevolmente e con percezione esterna affidabile ad essere tanto al servizio dell’istituzione quanto ai cittadini.

Questa trasformazione non ha investito una sola figura apicale o uno specifico ambito del quadro pubblico. Ma è diventa nel corso degli ultimi venti anni un cambiamento diffuso, al centro come nel territorio, che ha finito per storpiare le normative in essere. Alla fine ciò ha messo allo scoperto un vero vulnus: è praticamente saltato un anello della vasta catena tra istituzioni e cittadini  che lascia preferibilmente nelle sole mani dei giornalisti esterni cioè operanti nel sistema mediatico la responsabilità di svolgere – oltre al proprio ruolo che risponde a tendenzialità proprio di sistemi concorrenziali – anche una componente di quel carattere di “servizio pubblico”. In sé ciò è un azzardo, non perché non si trovino professionisti con cultura civile, anzi. Ma perché le cose funzionano meglio quando ognuno fa il suo differente mestiere, trovando ogni giorno le ragioni per convergere e rispettarsi. E in ogni caso nel giro di un mese di situazione di grave crisi lascia piuttosto scoperta, soprattutto confusa, una funzione sostanziale che con l’andar del tempo provoca sottrazione di una prestazione e smarrimento per una parte troppo importante di società. Il titolare dell’agire comunicativo diventa il capo del Governo mentre egli dovrebbe essere il titolare, a volte anche invisibile, del complesso negoziato che rende possibile il doppio esito di dar soluzione ai problemi e mettere in mani dedite e competenti l’accompagnamento permanente di tutta la società per capire e per esprimere un prezioso ritorno.

Conclusioni, sul concetto di “dibattito pubblico”

Fin qui l’articolato campo della “comunicazione” ha toccato sia aspetti di ruolo e funzioni del sistema mediatico (tradizionale e digitale), sia aspetti dell’impatto comunicativo tra decisori e cittadini.

Ma il tema davvero epocale, che fa tra l’altro della “comunicazione” l’ambiente stesso di radicamento e di sviluppo essenziale, riguarda la qualità sociale del dibattito pubblico. Quello cioè che si è profilato e quello che si sta evolvendo.

In sostanza un’intera società in questa crisi accomunata a tante altre società al tempo stesso lontane e vicine (non a caso Piero Bassetti torna sul suo cavallo di battaglia e osserva che “niente come questo virus esprime il concetto e la dinamica propria del glocal, essendo in ogni anfratto e nel mondo intero in forma mutuamente influenzata[13]), sente ormai come dominante la necessità di confrontarsi sui profondi mutamenti di “senso”,  della vita e della condizione umana, del rapporto con il male e con la malattia, della protezione e della tutela, della paura e del coraggio. Fino a curiosare là dove l’esorcizzazione ci trascina tutti lontano, fin che è possibile: misurarci con l’idea potenziale e concreta della morte.

E’ un dibattito pubblico che avviene senza convegni, senza adunate, senza assembramenti, senza eventi. Avviene con quotidiani spostamenti di domande e risposte, nel quadro della famiglie, nello scambio telefonico e sui social, nell’essere tutti componenti circolari dell’indispensabile intrusione domestica fatta dai media. Spostamenti dunque di opinione: passando dai comportamenti agli interrogativi e ora, a poco a poco, dalle conoscenze ai convincimenti.

Presto per tirare bilanci su questa trasformazione, anche se filosofi, sociologi, psicologi sociali e – prima o poi – musicisti, artisti, poeti e creativi sono tutti predisposti a tirare le somme.

Oggi è l’ultima domenica di marzo e il bisogno di mettersi un po’ all’ascolto di questo potente sentiment sociale, prima che arrivino studi importanti, trasfigurazioni importanti, teorizzazioni importanti, ci viene dal modo stesso di porsi di chi professionalmente si occupa con serietà della “demoscopia”.  

E proprio oggi, sull’argomento, le pagine dell’Espresso (che sta facendo bene la sua difficile funzione di settimanale, trovando uno spazio tra gli altri media che rende tutto il giornale coeso e fruibile in questo periodo) offrono uno spunto riunendo al tavolo (telematico) di analisi i due più accreditati operatori demoscopici che operano anche nel sistema mediatico: Ilvo Diamanti (Demos) che  propone i suoi dati su Repubblica e Nando Pagnoncelli (Ipsos) che propone i suoi dati sul Corriere [14].

Voglia di dopo” si chiama il confronto tra i due studiosi, curato da Gigi Riva. Tre pagine di difficile sintesi. Ma anche di grande utilità per farci sentire in sintonia con il pensiero in mutamento di una società oggi statisticamente ascoltabile con forte approssimazione di verità.

Qui, ora, non si tratta di snidare le nostre intenzioni di voto, spesso dissimuliate.  Ma di farci capire se – così comincia l’articolo – “per parafrasare Sergio Endrigo, la concordia nazionale appena cominciata è già finita?”. Oppure come è vista la “normalizzazione dell’emergenza”. O ancora “se la fiducia istituzionale migliora o peggiora”. E ancora come evolve la nostra sensibilità in materia di “rapporti tra la democrazia e le decisioni”; o cosa stia diventando “il centro del bene comune”. Per concludere con le “parole cruciali del dopo”.

Impossibile qui la sintesi di queste tre fitte pagine. Ma questo è l’occhiello in copertina: “Concordia, rassicurazione, futuro. Fiducia nelle istituzioni, ma non nei politici”. Per Diamanti le parole chiave sono “famiglia e arte di arrangiarsi” (quella che all’estero chiamano problem solving). Per Pagnoncelli “concordia, coesione sociale, rassicurazione”. Per entrambi il tema del futuro si coniuga con l’emergenza economica. E dai loro “ascolti” è chiaro a entrambi che “tutto non si risolverà in quattro e quattr’otto e ci vorranno tempi lunghi”. Molti interrogativi su questo schema (come la politica che esce dalla rissosità assertiva interpreterà il bisogno di concordia?) e qualche perplessità (come avere istituzioni di cui fidarsi senza ritrovare anche la politica?). Interrogativi e perplessità che avranno ancora modo di misurarsi con il clima claustrale di questa lunga e impensata resistenza.


[1] Al mattino di lunedì 30 marzo: 10.779 deceduti in Italia nel quadro di 33.881 deceduti nel mondo. Seguono Spagna 6.802, Cina (Hubei) 3.182, Iran 2.640, Francia 2.606, Gran Bretagna 1.228.

[2] Swg ha proposto settimanalmente un’indagine demoscopica, rilevabile dal sito https://www.swg.it/, con i dati su questo genere di argomenti, tra cui un adattamento generale sociale configurabile nel 65% dei cittadini.

[3] Intervista a cura di Elena Dusi (Repubblica, 28.3.2020).

[4] Intervista a cura d Carlo Fusi – “Nel Dna degli italiani la ricetta antivirus”, Il Dubbio, 28.3.2020.

[5] Su Il Sole-24 ore di venerdì 27 marzo 2020.

[6] Parafrasando una certa diceria: “lasciate che i vecchi crepino, in fondo era la loro ora” (Il Giornale, 28.3.20020)

[7] Federico Rampini, Il grande inverno ella globalizzazione – Repubblica, 23 marzo 2020.

[8] Lo stanno facendo anche le testate italiane, ma quando i siti dei quotidiani sono di gran livello, il contributo a una narrativa che sfida la realtà è evidente. Un esempio il trattamento del New York Times on line del “caso Bergamo”  (Bergamo, ItalyThis is the bleak heart of the world’s deadliest coronavirus outbreak – (Questa è la triste anima della più letale epidemia del mondo). Un pugno nello stomaco, che dà l’idea della potenzialità dei siti dei giornali, quando e dove li sanno fare.

https://www.nytimes.com/interactive/2020/03/27/world/europe/coronavirus-italy-bergamo.html

[9]  Ha scritto Draghi sul Financial Times del 26 marzo: “Di fronte a circostanze non previste un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di chi la soffre. Il costo dell’esitazione potrebbe essere irreversibile. La memoria delle sofferenze degli europei negli anni 1920 sono un ammonimento”.

[10] Alessandro Baricco, Questo è il momento dell’audacia, Repubblica, 26 marzo 2020.

[11] Il 26 gennaio a al Forum Economico Mondiale di Davos.

[12] In Repubblica D, 28.3.2020, Infodemia, l’altro contagio. E la sfida digitale per affrontare la prossima crisi.

[13] Conversazione personale.

[14] Gigi Riva, Voglia di dopo, A colloquio con Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli.  L’Espresso, 29.3.2020.

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