Pubblicata il 4 giugno 2021 sul giornale online L’Indro
Stefano Rolando
Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana (1993, governo Ciampi)
Signor Ministro della Pubblica Istruzione,
leggendo per esteso il discorso – meditato, articolato, simbolico e progettuale – che il Presidente Mattarella ha dedicato al 75° anniversario della Repubblica, mi sono venute in mente tre date, tre occasioni della mia vita, uno di quella fortunata generazione nata appena dopo la guerra.
Il ventennale della Repubblica, nel 1966, anno dell’alluvione di Firenze, dei ragazzi di tutto il mondo (ero tra quelli) corsi in quella capitale mondiale di alcune nostre radici per fare fronte comune contro una delle peggiori delle disgrazie, l’acqua. Ragazzi che avrebbero potuto condividere, con sobria umiltà, la citazione che il Presidente Mattarella ha fatto del noto verso di De Gregori, “la storia siamo noi”.
Il quarantennale della Repubblica, nel 1986, un anno dopo la grande chance che era stata data a uno di quei giovani (ancora io) di servire da vicino quella Repubblica, come direttore generale dell’informazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel presentare al Capo dello Stato, insieme al Sottosegretario alla Presidenza Giuliano Amato e al presidente del Comitato per il Quarantennale, il senatore a vita Leo Valiani, la linea editoriale di quell’anniversario che corrispondeva anche ad una generazione tra i trenta e i quarant’anni che – con le opportunità del tempo – subentrava.
Il sessantennale della Repubblica, nel 2006, quando – allora segretario generale della Conferenza nazionale dei presidenti delle Assemblee regionali italiane – feci una missione nella Locride, dopo esserci stato l’anno prima il giorno dell’uccisione per mano della ‘ndrangheta, del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, e conducendo un’indagine tra i giovani appartenenti al movimento “E adesso ammazzateci tutti” sulle ragioni per cui essi riponevano ancora fiducia nella Repubblica (con tracce di interviste pubblicate).
Tre frammenti di vita, in attesa – chissà – di ciò che il 2026 vorrà riservare in occasione degli 80 anni di questo ritorno allusivo, metaforico, valoriale alle nostre radici civili, lette nella chiave di coinvolgimento delle nuove generazioni. L’unica chiave che rende quella data viva e rigeneratrice. Avere dedicato all’insegnamento, di ruolo, nelle università gli ultimi venti anni comincia a darmi argomenti per questa quarta (ipotetica) data, attorno alla quale mi sono talvolta sorpreso a ragionare con qualche pessimismo, senza tuttavia deporre speranze.
Il discorso del Presidente Mattarella, come scrive oggi Marzio Breda sul Corriere “con un taglio pedagogico tutt’altro che stucchevole”, regola la scommessa concreta che regge quelle speranze.
Le radici restano forti, le ragioni – depurate da arroganze e integralismi – sono ancora componenti di una narrativa virtuosa, la crisi profonda che genera nella storia le maggiori sollecitazioni a “rigenerare” quelle virtù radicali è ancora sotto i nostri occhi e presenta con evidenza il bisogno di ripensamento di paradigmi e di errori di percorso. Ma niente sarà possibile se la staffetta non funzionerà con le più giovani generazioni che dovranno mostrare la forza e il coraggio di raccogliere il testimone.
Questo il passaggio finale del discorso di Sergio Mattarella:
“I doveri verso i giovani – di cui c’è qui un’ampia rappresentanza assai gradita – a cui passeremo il testimone della vita, sono ineludibili. La priorità è garantire ai giovani eguali diritti di cittadinanza, anche digitale, senza i quali la disparità delle opportunità diverrebbe causa di nuove, gravi, inaccettabili povertà. Le famiglie hanno avvertito, in questi mesi, l’urgenza di questa condizione. Si presenta una nuova generazione che è pronta, chiede spazio e ha voglia di impegnarsi. Ai giovani vorrei chiedere: impegnatevi nelle sfide nuove, a cominciare da quella della transizione verso un pianeta fondato sul rispetto dell’ambiente e delle persone come unica possibilità di futuro. Adoperatevi per trasmettere valori e cultura attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Per promuovere un uso dei social che avvicini le persone e le faccia crescere dal punto di vista umano e sociale, combattendo con determinazione la subcultura dell’odio, del disprezzo dell’altro. Ai ragazzi che oggi sono qui e a quelli che avranno modo di ascoltare queste parole vorrei dire: la storia di questi settantacinque anni è stato il risultato, il mosaico di tante storie piccole e grandi, di protagonisti conosciuti e di testimonianze meno note. Tocca a voi ora scrivere la storia della Repubblica. Scegliete gli esempi, i volti, i modelli, le tante cose positive da custodire di questa nostra Italia. E poi preparatevi a vivere i capitoli nuovi di questa storia, ad essere voi protagonisti del nostro futuro”.
Questa lettera potrebbe essere rivolta a lei, signor Ministro, per molte ragioni: il suo percorso formativo, in Italia e in America; il suo radicamento in una città-comunità altamente civile, come Ferrara; la sua esperienza di guida rettorale di una università di prestigio. E naturalmente per il suo attuale incarico istituzionale nel quadro di un governo che pone il tema “regole e riforme” per superare la più grave crisi nazionale (e internazionale) dal dopoguerra. Dunque il suo inevitabile sguardo ai “giovani, nell’ipotesi che si prendano cura della Repubblica” (ancora Mattarella).
Ma come assicurare una staffetta diffusa, trasversale, non limitata ai cespugli generazionali di evidenti minoranze, non profilata attorno ai casi anch’essi limitati di famiglie che abbiano potuto vincere separatezze e incomunicabilità creando le condizioni di quell’osmosi valoriale che è condizione per cui la trasformazione dei tempi corrisponda anche al cambiamento connesso agli insoluti sociali?
Qui comincia, in verità, la “lettera aperta”.
La proposta (di chi ha avuto anche la ventura proprio nel biennio di fine del secolo di partecipare all’esperienza di riforma condotta del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer come suo consigliere) di programmare in questo contesto e in questa epoca tumultuosa ma anche frenata, una centralità pedagogica della “educazione civica e costituzionale”, rilanciata da una legge recente senza storia e senza incidenza, che chiami a raccolta e al servizio centomila docenti italiani andati in pensione – nelle università e nella secondaria – disponibili ciascuno a un numero congruo e praticabile di giornate di insegnamento gratuito (con il solo rimborso delle spese logistiche e di mezzi di insegnamento) selezionando le domande attraverso un comitato di analisi motivazionale e immaginando anche un breve percorso di orientamento metodologico costruito sui “punti pilastro” degli obiettivi sociali di questa esperienza.
Non mi dilungo sulle modalità che a Viale Trastevere saranno valutate con perizia e dedizione.
Pongo solo il tema della concreta costruzione della “staffetta”, con robusta intrusione nella programmazione scolastica, nel senso intergenerazionale possibile per una simile materia, al tempo stesso fondata sulla profonda interpretazione del dettato costituzionale ma anche sulla spiegazione sociologicamente argomentata delle parti inattuate ovvero faticosamente attuate della Costituzione stessa.
Insomma un percorso severo e al tempo stesso corredato da tracce di documenti vivi e persino spettacolari della storia contemporanea che si ponga l‘obiettivo di colmare le principali lacune che chi opera nel triennio delle nostre università conosce con costante amarezza. Ma anche di valorizzare e consolidare tutte le tracce di attenzione civile, ponendo i principi dell’approccio critico e della visione aperta, europea e delle “sorti progressive” dell’idea non sopita e da non relegare all’entropia nazionalistica dell’amor di patria.