Segni di novità, oltre al magnifico medagliere.
Stefano Rolando
Articolo per il giornale online L’Indro (8.8.2021)
Le Olimpiadi possono essere un modo alto di occuparsi dei nostri destini collettivi anche lasciando da parte i conflitti, le potenzialità e le delusioni della politica. Oppure, diversamente, cogliendo alcuni nessi politici legati ai cambiamenti che il pianeta Terra, attraversato dalla pandemia, sta mettendo in mostra rispetto ai tempi in cui le Olimpiadi erano convocate, in questo o quel paese, per decretare prima di tutto supremazie e gerarchie.
Cosa che resta, ben inteso, nei progetti di molte candidature contemporanee. E che comunque resta per molti nei significati metaforici attribuiti al medagliere.
Ma, in questo 2021, dopo sedici mesi di dittatura globale di Coronavirus, si potrebbe anche azzardare qualche cenno ad un certo ripristino valoriale, insieme ad una più forte fiducia nelle capacità di rigenerazione. Cose che apparivano nei mesi scorsi oggetti smarriti.
Molte le piste di racconto. Alcuni sceglieranno i temi delle nuove tecnologie (e connessi poteri) che sovrastano oggi la trasformazione dello sport. Altri ancora misureranno il medagliere a seconda dei contesti democratici o non democratici che lo hanno prodotto. Legittime analisi. Come sono legittime quelle dell’evoluzione fino ad oggi del messaggio lanciato dagli afroamericani Tommie Smith e John Carlos in pieno ‘68 alle Olimpiadi di Città del Messico contro le discriminazioni razziali. O all’evoluzione del bullismo della propria squadra USA che circondò Mark Spitz, causa le sue origini ebraiche, prima di diventare imbattibile e recordman di qualunque specialità di nuoto.
Il nostro record storico oggi di quaranta medaglie conquistate offre ai commentatori professionali lo spunto principale per ragionare sulla corrispondenza di questo grande risultato alla reale condizione attuale del sistema-Italia. Si tratta di una ultra-legittima – e non scontata – analisi, che richiede di aggirare stereotipi e banalità. Sulla quale sarebbe interessante avere la lettura al momento opportuno (quello dell’annunciato ricevimento dei medagliati) di Mario Draghi.
Le appartenenze nazionali
Scelgo di tornare, piuttosto, per toccare un altro argomento vecchio e nuovo, sul tema delle appartenenze nazionali, su cui durante le Olimpiadi ho fatto osservazioni su FB e sui cui si sono letti molti commenti (ieri, domenica, l’editoriale di Maurizio Molinari su Repubblica centrato sul nuovo rapporto, in questa direzione, tra “paese legale” e “paese reale”).
Abbiamo visto che ogni atleta che sale sul podio, in queste Olimpiadi, cosi come del resto è stato sempre, al momento dell’ascesa del proprio drappo nazionale, al momento delle prime note dell’inno, risuonato con prestigio dai primi anni dI vita, assume una sorta di divisa emotiva. Fa scrutare un preciso addolcimento dello sguardo; mantiene quasi sempre la postura della solennità; segnala la sua appartenenza a quelle note anche quando un po’ tromboneggiano. Parimenti segnala la appartenenza ai suoi colori anche quando la grafica è bizzarra e a volte non tutti ne indovinano la rappresentanza.
A quei simboli, insomma, chi vince vuole e sa di appartenere.
E’ questo il momento anche di un patto profondo con la propria comunità. Con spettatori che si sentono genitori e fratelli dei vincitori. Con le generazioni che rivivono il diritto di regolare conti morali con storie a volte difficili, con patimenti personali e collettivi, con dolori magari sanati o magari prolungati (fatica e lacrime sono parole molto risuonate nelle narrative).
E’ dunque questa la festa globale del tradizionale nazionalismo? Cioè di quel fenomeno che ha devastato la prima metà del ‘900 ma che viene considerato in ripresa, come arretramento rispetto all globalizzazione, anche in larga parte dell’Europa ( e anche un po’ maldestramente in Italia ma con consensi).
La risposta al quesito constata i cambiamenti strutturali della rappresentanza.
Prendiamo gli italiani, per capire meglio. Il 35% delle ragazze e dei ragazzi in gara a Tokio – dunque centotrenta atleti rispetto ai 383 dello squadrone – è espressione di una nazionalità etnicamente ampliata nel quadro della globalità del nostro tempo. Arriva verso la fine la 39a medaglia italiana opera del lottatore italo-cubano Abraham Conhedo. E arriva la storia di Eseosa Fostine (detto Fausto) Desalu e della sua mamma, badante nigeriana. E’ in queste storie che si intrecciano le parole fatica e speranza, legate a vicende di una madre o di un padre ovvero di un marito o di una moglie con altre origini.
Non e’ una ragione per sentimenti affievoliti. Basta ascoltare Fiona May per capire. La condizione acquistata oppure scelta rafforza i sentimenti. Ma affievolisce o cancella anche il “primatismo”. Quindi trasforma un sentimento verticale in un sentimento orizzontale. Una contagiosa condizione per coloro che partecipano all’esperienza e per coloro che guardano con occhi moderni questa rappresentazione.
Resta naturalmente aperta una questione seria di analisi e di dibattito (fin qui poco sollevato) che riguarda l’Italia. Se cioè la diffusa percezione di questo evento, con la connessa gratitudine sociale verso la componente multietnica dell’Italia sportiva vincente, riuscirà a intaccare la soglia ancora grave delle attitudini e dei comportamenti ispirati a razzismo. Compresa la componente del cosiddetto “razzismo inconsapevole” che rappresenta non solo una quota di ambiguità ma anche di falsa percezione interna del problema.
Riconoscimento del competitor
Il merito e il talento. Non torna in campo propriamente De Coubertin perché l’importante – s’intende – resta più vincere che partecipare. Anche per questa nuova vague generazionale. Questo argomento (la dura preparazione per vincere) è tuttavia oggi anche molto valoriale. Ma riconoscere il merito degli altri assume un senso profondo di riequilibrio. Un senso favorito anche della tradizione e dalla cultura del Giappone, paese ospitante. Magnifico infatti è sempre il gesto affettuoso nei confronti del competitor. Che si sia vinto (come ha fatto il nostro Massimo Stano inchinandosi ai due giapponesi che lo hanno incalzato); che si sia perso (come ha fatto il keniota Timothy Cheruiyot, regalando il suo portafortuna tribale al campione norvegese dei 1500 Jakob Ingebrigtsen); o che si sia pareggiato (come nel caso fraterno di Tamberi e Barshim). La risposta alla stizzosa accoglienza della medaglia d’argento fatta dagli inglesi a Wembley, qui a Tokyo è stata data da molti.
L’allegoria del nuovo mondo potrebbe avere qualche tratto disegnato in questa Tokyo che racconta – certamente per l’Italia, ma anche per tanti altri paesi – un evidente ricambio generazionale. In un secolo di competizioni olimpiche gli atleti sono sempre arrivati al giorno dell’agonismo collettivo partendo da contesti nettamente distinti, a volte conflittuali, a volte con gravi crisi e guerre in corso. E il mondo resta ancora oggi certamente con le sue differenze e le sue inegualità, con molti conflitti e condizioni di libertà non comparabili. Ma tutti gli atleti a Tokio hanno segnalato di aver capito – e qualche volta anche dichiarato – di provenire da un comune flagello, una pandemia di sconosciuta letalità, che ha avvicinato in modo forte e sottile, anche se magari ancora non pienamente percepito da tutti, la condizione umana.
Dopo Covid, è concepibile un nuovo mondo?
Questo ricambio generazionale – che segnala una gioventù con rigore e umanità – ha il diritto di percepire il mondo come un “nuovo mondo”?
Quando le note del Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 di Pëtr Il’ič Čajkovskij hanno salutato la vittoria nel salto in alto della russa Marija Lasickene Kuchina, non potendosi suonare l’inno russo per la squalifica nel 2019 per quattro anni della squadra nazionale russa recuperata solo come “comitato olimpico russo”, Marija ha chiuso gli occhi con lo stesso abbandono della magnifica seconda arrivata, l’australiana Nicole Mcdermott, che a sua volta ha sorpreso il mondo con le sue lacrime e le sue scritture immediate di “pensieri in pedana”.
I tratti di questa caduta di vecchie barriere sono stati annotati dal giornalismo civilmente attento, nel quale vorrei comprendere anche molti commenti fatti dai corrispondenti e commentatori della Rai.
Potrebbe così suonare l’ora della maturazione di una idea di “patria” dove le radici profonde di ogni comunità – quelle materiali e quelle emblematiche – conservano certo la tenacia della singolarità e della diversità, ma in cui il concetto simbolico generale suona con significati comuni. Tra i significati comuni – come osserva Julio Velasco – c’è anche l’idea di condividere i nuovi percorsi di crescita con l’idea ben presente della consistenza permanente del rischio. Rischio e capacità, insomma, sono merce globale. Non sono dono speciale fatto ad una etnia, a un popolo, a una nazione.
Provare a smuovere una simile narrativa partendo dalle Olimpiadi di Tokyo del 2021, ci aiuterebbe a non far registrare questo evento solo grazie al nostro pur pingue ed emozionante medagliere. E ancora di più ci permetterebbe di non fare emergere il successo di COVID-19, prima di ogni squadra nazionale, per avere eliminato il pubblico reale e avere ancora una volta condannato tutti, ancora dopo un anno, a “stare a casa”.