Sostenibilità, parola che, senza nuove spiegazioni, rischia vaghezza.

Oggi martedi 12 e domani mercoledì 13 ottobre si svolge il Salone della CSR e dell’innovazione sociale, l’appuntamento che esprime dal 2013 un vasto ambito di operatori che credono nella sostenibilità. Il Salone in questi anni ha contribuito alla diffusione della cultura della responsabilità sociale, offerto occasioni di aggiornamento, facilitato il networking tra i diversi attori sociali. Il tema scelto per l’edizione del 2021 è “Rinascere sostenibili” con l’apertura il 12 mattina di Enrico Giovannini, ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili; Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi e di Rossella Sobrero (presidente di Koinetica e di Pubblicità Progresso) (https://www.csreinnovazionesociale.it/salone/cos-e/). Come parte della discussione al Salone attorno agli aspetti comunicativi del tema, ho portato oggi un contributo videoregistrato. Qui riproposto in forma scritta e leggermente più ampliata. Oggi martedi 12 ottobre sul giornale online L’Indro.

Ciclicamente alcune parole rischiano di subire un processo di inflazione.

Esse si espandono, superando spesso la soglia del perimetro della loro piena comprensione. Disegnano un grande lago in cui la comprensibilità può rimanere a volte come una piccola isola lontana dai nuovi argini.

Mi riferisco a quelle parole di uso corrente da tempo, anzi così “corrente” che a volte giungono a una sorta di evaporazione dei significati più sottesi.

  • Certamente la parola innovazione, che ormai pare un generico condimento.
  • Certamente la parola condivisione, che puzza ormai a chilometri di paternalismo.
  • Credo che ci sia anche la parola sostenibilità, abilmente inventata per un’ecologia moderata, cioè senza radicalità, che ha dato sicuramente più popolarità all’ambientalismo ma che ha anche fatto evaporare alcune contestualizzazioni che richiedevano tutto fuorché vaghezza.

E’ ben vero che questa parola è ora più che di moda, in prima pagina sui media, scandita in ogni dibattito, ogni progetto economico-industriale, ogni campagna elettorale. Ma proprio per questa esposta alle insidie del logoramento, ovvero della trasformazione in significati astratti, se non trova nel dibattito pubblico le fondamenta di una spiegazione veramente metabolizzabile da parte dei cittadini, non solo degli addetti ai lavori.

Vorrei al tempo stesso dire – soprattutto ai professionisti qualificati che seguono l’evento “Rinascere sostenibili” nel Salone della responsabilità sociale – che in questo momento non getterei alle ortiche un brand che tira. Ma aprirei almeno – e con una certa forza (per la quale l’impegno del ministro Giovannini insieme al sistema scolastico e universitario può essere prezioso) – una battaglia comunicativa per ridisegnare appunto un perimetro che rischia di diventare vago.

Ferma restando l’indispensabilità della fase di denuncia e di pressione (Greta inclusa), necessariamente semplificata, che è in atto da decenni e che per questo deve ora essere cognitivamente integrata.

Voglio precisare due cose preliminarmente.

  • Una, che concordo con la definizione corrente dell’espressione data dalla comunità scientifica (già il Rapporto Bundtland, della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo nel 1987 precisava che “per sviluppo sostenibile si intende lo sviluppo volto a soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di far fronte ai propri bisogni”).
  • L’altra è che desidero anche ricordare che l’amplia declinazione dell’espressione – a cui poi faccio breve riferimento – è materia trattata in sede scientifica e istituzionale, sapendo però che di essa c’è modesto riflesso nel dibattito pubblico.

Il mio primo convincimento è che, se l’intento iniziale fu quello di produrre un lessico accettabile per una larga parte sociale che magari era refrattaria alla politicizzazione dell’ambientalismo, ora è venuto il momento di allargare il racconto dei paradigmi che tengono in piedi l’espressione.

Se stiamo almeno al campo ambientale i paradigmi sono divenuti più drammatici ma proprio per questo devono trovare narrative ben corredate dalla cultura della spiegazione e da una seria analisi delle resistenze.

Tra poco tempo, pochi decenni, le maggiori città africane e asiatiche scoppieranno demograficamente, il Bangladesh causa crisi climatica sprofonderà totalmente nel mare liberando 150 mila nuovi migranti (e così altri paesi). I virus figli e nipoti figli di Coronavirus renderanno permanenti le pandemie che avranno connotati reattivi rispetto alle ferite che abbiamo inferto ai processi naturali.

Non mi invento questo sistema di paradigmi, stanno sulle pagine delle riviste scientifiche più accreditate. Considerandomi un “conservatore” (della vita, della terra, degli equilibri interpersonali e inter-vitali) penso che sarebbe importante che istituzioni, scuola e media trattassero la parola “sostenibilità” non per attenuare le paure o tantomeno per aumentarle irrazionalmente, ma per metterle in ebollizione intellettuale e cognitiva.

Il secondo convincimento riguarda la necessità di contenere – nel dibattito pubblico, nella comunicazione pubblica e nel corrente bagaglio divulgativo della comunicazione scientifica – il pari valore delle quattro maggiori (e diverse) forme di sostenibilità, che credo possano diventare cultura popolare del nostro tempo solo tenendosi strette per mano.

  • Della sostenibilità ambientale si è detto (ma naturalmente molto di più si dovrebbe dire, capire e discutere). Avendo soprattutto per vero che non basta evocare e auspicare. Bisogna affrontare con trasparenza costi e modifiche profonde di interessi e comportamenti.
  • Della sostenibilità sociale si parla spesso inerzialmente, come un luogo differenziato dalla priorità delle persone e caso mai delle famiglie. Basterebbe, per esempio, non permettere più di far girare nello spazio comunicativo la parola crescita e la parola sviluppo (che restano parole importanti) senza coniugarvi anche la parola equità per richiamare quella che è l’ineludibile e urgente battaglia contro l’aumento delle disuguaglianze. Riportando così il tema nell’ambito anche dell’agenda economica in cui sta in penombra.
  • Della sostenibilità psicologica – ovvero della metabolizzazione necessaria della conflittualità che ci circonda e che penetra nelle dominanti oscure della vita interiore – si parla solo a valle di patologie quando ledono la libertà di altri. Quindi per deplorare, non per costruire. Il nostro modo di comprendere interiorizzare le dinamiche conflittuali (che riguardano anche i rischi della collettività e del mondo) è del tutto insufficiente. Così che agiamo più in forza degli stereotipi subiti che dei sentimenti liberati.
  • Della sostenibilità culturale, infine,si dovrebbe fare un programma di governo perché essa ha di fronte nel caso italiano un terzo della popolazione che non i sociologi militanti ma l’OCSE ritiene classificabile come “analfabeti funzionali”. Non si parli poi di populismo, negazionismo, demagogia galoppante, eccetera. Tutto viene da lì. Ormai INSOSTENIBILMENTE.

E’ proprio la capacità di mantenere nel dibattito pubblico il senso dei nessi tra questi diversi ambiti (ecosistema, società, cultura, economia, lavoro, persona) a formare i caratteri della sostenibilità, tra cui l’attuabilità, ove cioè non prevalga né la moda né il tecnicismo né un nuovo radicalismo ideologico.

Basterebbe, oggi, che gli operatori dell’informazione e della comunicazione dedicassero un tempo della propria professionalità ai nessi di queste potenziali rigenerazioni, per dare lo spazio che non appare sufficiente alla chiarificazione di una parola – la parola sostenibilità – che certamente ora è in grande mobilità sui media ma che lasciata nell’olimpo degli slogan rischia di viaggiare a fari spenti.

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