Giovanni Pieraccini (1918-2017). Un vita secolare per il riformismo

Da Mondoperaio, n. 9/2017

Si chiamava – nome e cognome – come il padre che non ha mai conosciuto, morto prima della sua nascita per “febbre spagnola”. Padri  gli furono poi i suoi insegnanti, soprattutto quegli umanisti crociani che, a fascismo avviato, coniugavano classici e libertà nel liceo Carducci di Viareggio. I ricordi più vivi nella sua memoria anziana. Fratelli maggiori gli furono gli appartenenti  all’antifascismo che preparava la nuova classe dirigente in quel Collegio Mussolini di Pisa che Gentile e Bottai vollero come scuola d’élite del regime e che divenne, Carlo Ragghianti in testa, fucina della nuova Italia.

Poi, dalla Liberazione di Firenze, il cursus honorum dei politici di una volta: dai banchi del Consiglio Comunale alle prove del fuoco della democrazia dei partiti, l’approdo nel ’48 in Parlamento e la storia di un socialista (un po’ contaminato dall’azionismo, un po’ con le radici nelle terre colte del paese) che scelse il riformismo turatiano e che ancora alla fine della sua vita riconosceva nel discorso di Turati sull’Italia da rifare (26 giugno 1920) il modello di un’agenda fondata sulle priorità del paese e non sulle precondizioni ideologiche.

In trent’anni di consuetudini (quindi frequentazione personale e amicizia, spesso connesse alle “cose da fare”) mi è capitato con lui più volte di mettere il registratore sul tavolo per “dar voce” a memorie sempre capaci di coinvolgere il nostro presente. Più di una volta destinate a queste pagine, come in occasione del 70° dell’8 settembre raccontato da Mondoperaio nel 2013 con storie di protagonisti ancora vivi.

Con lui come con altre figure rilevanti della storia socialista italiana che, pur restando degne e rispettate, sono per lo più finite nella derubricazione di una vicenda che, tirate le somme, molti di noi attribuiscono più agli insoluti italiani che parte del legittimo avvicendarsi dei cicli di potere e di responsabilità.

Il sentimento dell’incidenza di questi cicli, in verità, Giovanni Pieraccini lo aveva percepito prima di tanti altri, tanto che essendo stato dirigente politico di primissimo piano per una quarantina d’anni, prima della metà degli anni ’70 uscì dall’arena, in cui il vento del compromesso storico logorava la posizione dei socialisti. Prese a dedicarsi ad un rapporto più organico con l’organizzazione culturale, nei primi dieci anni grazie anche al ruolo riorganizzato della grande compagnia assicurativa Assitalia (che presiedette portandola in borsa e facendone anche un moderno partner della vita sportiva e artistica del Paese).

 

Fu, in stretta relazione con Pietro Nenni,  negoziatore di punta del primo centrosinistra (un “quadrilatero” tutto toscano che comprendeva il segretario della DC Amintore Fanfani, aretino; le profezie del sindaco di Firenze Giorgio La Pira e la cornice istituzionale del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, di Pontedera). In quei governi presieduti da Aldo Moro fu interprete di quell’area di mediazione interna che avrebbe corretto nel senso del laburismo occidentale le punte massimaliste e ideologiche del vecchio partito marxista e morandiano che era il PSI. Assunse ruoli e posizioni che gli avrebbero permesso di accompagnare anche l’evoluzione autonomista di tutti gli anni ’70, con il cambio marcia impresso da Craxi a cui non furono estranee figure che, come Pieraccini, appartenevano alla generazione precedente, a cominciare da Giacomo Mancini. Ma la percezione di un “ciclo concluso” aveva fatto optare per un cambio di obiettivi, pur restando dentro un quadro di dibattiti e discussioni che, nella vita politica italiana,  manterrà legami con le tradizioni almeno per altri vent’anni.

Non c’era la percezione della derubricazione totale della vicenda socialista alla fine di quei vent’anni. E nemmeno delle ragioni di una gogna per evitare la quale ben due capi di Stato – Giuseppe Saragat negli anni ’60 e Sandro Pertini tra gli anni ’70 e ’80 – avevano offerto un prestigio popolare, unito a quello di Nenni e Lombardi,  che il Paese aveva colto e condiviso.

C’era l’idea, tuttavia, che i socialisti avevano voluto e dovuto compromettersi con il potere  governativo per cambiare prima di tutto gli anacronismi istituzionali e modernizzare lo Stato, portando a segno misure storicamente importanti (scuola, sanità, energia, diritti civili e del lavoro) ma alla fine insufficienti per fronteggiare con argomenti decisivi la crisi stessa dello Stato, maturata nel ’68 ed esplosa negli anni ’70. Quella percezione di insufficienza è stata la dominante del pensiero di Giovanni Pieraccini nel corso di questa sua lunghissima e vitale terza età. In cui ha scritto libri con la frequenza di un ricercatore universitario (Socialismo e riformismo, con Fabio Vender, edito da Marietti nel 2006, quello più robusto per argomentazioni politiche), ha concepito progetti politico-culturali rilevanti, ha costruito percorsi di nuova analisi con soggetti di spessore (dalla Scuola di Sant’Anna di Pisa alla Fondazione Turati di Firenze).

Per arrivare, carico di anni, ma anche non spoglio di residue speranze, alla vista dei 98 anni, ad incontrare ancora una volta il mio registratore per un memoriale amabile sulle sorti di una generazione ma amaro per la forza con cui quella percezione di insufficienza riformatrice (questo il titolo del colloquio, edito nel 2016 da Pezzini, editore viareggino) aveva prodotto i suoi misfatti: la crisi di ruolo dei partiti, l’indebolimento radicale delle istituzioni, la caduta verticale di qualità della classe dirigente, l’abbandono di un progetto insieme di equità e crescita nella visione e nell’esito di governo della stessa sinistra.

Ecco in breve il ritratto di Giovanni Pieraccini, nato a Viareggio il 25 novembre 1918, deceduto quasi centenario a Viareggio il 14 luglio 2017, sette volte ministro della Repubblica e altrettante volte deputato o senatore, capogruppo parlamentare, direttore dell’Avanti!, costruttore di politiche del possibile nella gestione delle competenze di maggiore scontro tra destra e sinistra negli anni ’60 (l’urbanistica e la programmazione economica), generatore di progetti culturali a Roma (come Fondazione Roma-Europa) e in Versilia (come la Galleria d’Arte contemporanea al Museo Civico di Viareggio) tuttora messi alla prova dei fatti.

Vera Verdiani, che per ragioni famigliari gli favorì i primi contatti con i socialisti toscani, sposata a Firenze all’indomani della Liberazione, accanto a lui per 72 anni, gli sopravvive dopo un’esemplare storia solidale che è parte di un racconto a sé stante delle generazioni che hanno pagato prezzi più alti dei nostri per contribuire a fare l’Italia e gli italiani.

 

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