ICMPD, Club of Venice, EUROMED Migration, Ministero francese degli Affari Esteri – Quarta conferenza euromediterranea su Migrazioni e Comunicazione – Parigi, 2 e 3 novembre 2021


Stefano Rolando (presidente Club di Venezia)
- Intervento nella sessione di apertura
- Spunti per la tavola rotonda conclusiva
- Risposta a intervista videoregistrata finale
Versioni IT e FR

Workshop su comunicazione e migrazioni
Parigi, 2-3 novembre 2021
Sessione di apertura
Stefano Rolando
Presidente del Club di Venezia
Gli incontri promossi da ICMPD, svolti con la collaborazione del Club di Venezia – cioè la rete con 35 anni di vita dei responsabili della comunicazione istituzionale dei paesi e delle istituzioni dell’Unione Europa che articola i suoi incontri con carattere informale, integrando i tavoli di lavori con esperti, studiosi e rappresentanti di agenzie di pubblico servizio – sono al loro quarto anno.
E in questo approdo a Parigi il forum conta sull’autorevole partnership del Ministero degli Esteri francese.
Mi pare chiaro il percorso e ben leggibile la qualità dei programmi. Quello di questi due giorni migliora, precisa e dettaglia lo scopo e l’approccio che si è già espresso nelle occasioni degli incontri in Tunisia e in Grecia.
Anche se sconfino un po’ con la tematica di quel segmento che viene chiamato “di alto livello”, trovo che i punti qualificanti di questa edizione chiariscono bene l’utilità dell’evento.
Sono punti che pervadono tutte le sessioni previste nei due giorni. E dico subito che li condivido concettualmente e per il perimetro complessivo che disegnano.
Infatti essi abbracciano tutta la filiera istituzionale, sociale e professionale di quella articolazione della comunicazione pubblica che comincia ad avere una sua fisionomia disciplinare, che è la comunicazione applicata ai processi migratori.
Economia, sociologia, demografia, diritto, tecnologia e culture delle narrazioni e delle ibridazioni sono poi le componenti disciplinari principali di un approccio che ha il suo sbocco non tanto nelle teorizzazioni ma nella produzione e nell’adattamento di politiche pubbliche.
Faccio brevissimi commenti a questi sei principali punti.
- Euromed sostiene che bisogna tener conto della geopolitica del fenomeno affiancando le prospettive regionali e quelle nazionali. E’ un tema giusto e interessante. Proprio questo è il terreno in cui i territori intrecciano i loro confini anche a prescindere dalle separazioni degli Stati-Nazione. E aprono ad un coinvolgimento appunto dei “territori” in cui i fenomeni migratori concretamente si formano, si muovono e approdano con una mobilità globale ormai nell’ordine di centinaia di milioni di esseri umani.
- Il secondo tema portato in evidenza riguarda gli operatori di comunicazione (e anche di relazione, aggiungo) in ordine al loro processo di specializzazione, cioè di capacità (che è la parola usata). Il coraggio di guardare a diverse esperienze è necessario. Ci sono tracce di nuova interpretazione di ruoli e funzioni in cui prevalgono cultura di accompagnamento di spiegazione. E vi sono tracce che fanno parte della vecchia cultura della propaganda. Mostrare le differenze è cruciale. Segnalare i nuovi percorsi formativi professionali è molto utile. Capire se le istituzioni si aprono a un approccio critico grazie anche alla collaborazione con il sistema universitario (in alcuni ambiti sì, in altri no) non ci deve spaventare.
- Il terzo punto segnalato è in relazione con tutto il resto: come avanza la ricerca applicata su questa materia? La ricerca applicata (a differenza di quella teorica o disciplinare) ha bisogno di committenza, che dovrebbe essere largamente istituzionale. Essa esiste? C’è una domanda di ricerca applicata? La risposta che potrà emergere è molto importante. Lavoro ancora in Università (a Milano) e dirigo un Osservatorio di comunicazione pubblica che vive soprattutto in base a questa domanda. La mia impressione è che gli impulsi sono scarsi e disuguali. Per cui i fondi di studio e ricerca che aprono a collaborazioni interuniversitarie sono preziosi. C’è un bilancio che può essere mostrato all’attenzione di governi (locali, nazionali e sovrannazionali) che continuano a pensare che servono più i sondaggi sulla percezione dei cittadini che le analisi di trasformazione della realtà per compiere scelte e decisioni. Vincenzo mi segnale un eccellente lavoro di James Dennison, collaboratore dell’ICMPD aggregato all’EUI, che ha pubblicato regolarmente rapporti molto dettagliati. Lieto di ricordarlo qui.
- Mi piace molto il quarto punto. Che si pone il problema di alzare la professionalizzazione di una certa etica pubblica (lo dico qui con parole diverse dal documento di base). Da una parte l’esigenza di raccontare la verità, intesa come mestiere sia del giornalismo indipendente sia dell’operatore pubblico e sociale. Dall’altro lato sentire che lo sviluppo professionale della funzione non si limita a descrivere. Ma si allarga alla necessità di agire sul territorio della spiegazione dei processi. Che è l’unico modo per aggredire l’analfabetismo funzionale, troppo alto nei nostri stessi paesi occidentali, che è la base per una domanda di negazionismo, antiscientificità, eccetera, cioè culture che non riguardano solo le crisi sanitarie ma anche le crisi sociali. Ecomed ha già esperienza di stimolazione del nuovo giornalismo d’inchiesta e di indagine. Creare condizioni di mescolare storie ed esperienze aprendo questi cantieri anche agli operatori istituzionali, sarebbe importante.
- Ancora di più mi piace il quinto punto. Che parla di “errori del passato”. Onestamente attorno ai rapporti tra l’Europa e le migrazioni ci sarebbe una storia degli errori da scrivere. Aiuterebbe anche a capire meglio perché l’Europa – pur adesso con le migliori intenzioni – continua a faticare a mettere questo tema nelle priorità dell’agenda. E spiegherebbe perchè finora si è rinunciato ad avere un vero ruolo regolatore (salvo sporadiche occasioni), così mantenendo vive categorie nella politica europea sui processi globali della migrazione (per esempio le categorie dei buoni e dei cattivi) di cui un governo degno di questo nome dovrebbe vergognarsi. Perchè quasi sempre sono categorie che nascono nella speculazione elettorale non nella qualità previsionale e riformatrice della politica.
- Infine – ultimo punto – il tema molto importante di come lavorare sui sentimenti sociali, cioè sulle percezioni bilanciate dalla trasformazione dello sguardo dell’opinione pubblica non solo sui temi di immediato allarme, ma su quelli che tengono insieme criticità all’origine e potenzialità di sviluppo. E’ fin troppo ovvio che la difficoltà di sviluppo di questo argomento è di tenere in tensione (capire e far capire) non solo i popoli limitrofi attorno alle zone di crisi, ma anche i popoli lontani che nel terzo Millennio non possono vivere come le tre scimmiette della tradizione proverbiale giapponese secondo cui “una non vede il male, l’altra non sente il male e la tersa non parla del male”.
Il documento di base di questa edizione accenna a questi sei punti.
Volevo solo dire – per dare senso ad un contributo introduttivo che riguarda la mia parte professionale e istituzionale del progetto Euromed – :
- che concordo con l’approccio,
- che nel contesto di questo nostro incontro è importante che sia valore aggiunto alle risposte, non limitandoci a parafrasarle;
- che soprattutto in questo periodo di sforzo di superamento della crisi pandemica penso che abbiamo il dovere di mettere la sensibilità professionale dei comunicatori pubblici sul tema dell’ apprendimento della crisi attraversata; cioè rispetto a come pensiamo di voler e potere orientare alcune rettifiche di paradigmi per non ritrovarci solo con funzioni e approcci burocratici che non comprendendo come va il mondo finiscono per occuparsi solo della visibilità di politiche reticenti.
Grazie e auguri per un forum coraggioso.

EUROMED 4
Atelier du communicateur sur les migrations
Paris, 2-3 novembre 2021
Séance d’ouverture
Stefano Rolando
Président du Club de Venise
Les réunions promues par ICMPD, réalisées avec la collaboration du Club de Venise – c’est-à-dire le réseau vieux de 35 ans des responsables de la communication institutionnelle des pays et des institutions de l’Union européenne qui organise ses réunions à caractère informel, intégrant les tables de travail avec des experts, des universitaires et des représentants d’agences de service public – ils en sont à leur quatrième année. Et dans ce débarquement à Paris, le forum compte sur le partenariat remarquable du Ministère français des Affaires étrangères.
Le chemin me semble clair et la qualité des programmes clairement lisible.
Le programme de ces deux jours, améliore, clarifie et détaille le but et l’approche qui a déjà été exprimé à l’occasion des rencontres en Tunisie et en Grèce.
Même s’ils dépassent un peu le thème de ce segment dit « de haut niveau », je trouve que les points qualificatifs de cette édition montrent l’utilité de l’événement. Ce sont des points qui imprègnent toutes les séances programmées sur les deux jours.
Et je dis tout de suite que je les partage conceptuellement et pour le périmètre global qu’ils dessinent.
En fait, ils embrassent toute la chaîne institutionnelle, sociale et professionnelle de cette articulation de la communication publique qui commence à avoir sa propre physionomie disciplinaire qu’est la communication appliquée aux processus migratoires.
L’économie, la sociologie, la démographie, le droit, la technologie et les cultures de récits et d’hybridations sont alors les principales composantes disciplinaires d’une approche qui trouve son débouché non tant dans la théorisation que dans la production et l’adaptation des politiques publiques.
Je fais de très brefs commentaires sur ces six points principaux.
- Euromed soutient que la géopolitique du phénomène doit être prise en compte en combinant les perspectives régionales et nationales. C’est un thème juste et intéressant. C’est précisément le terrain sur lequel les territoires entrelacent leurs frontières même en dehors des séparations des États-nations. Et elles ouvrent à l’implication des « territoires » dans lesquels concrètement les phénomènes migratoires se forment, se déplacent et atterrissent avec une mobilité globale désormais de l’ordre de centaines de millions d’êtres humains.
- Le deuxième thème mis en évidence concerne les opérateurs de communication (et aussi relationnels, j’ajoute) par rapport à leur processus de spécialisation, c’est-à-dire de capacité (c’est le mot utilisé). Le courage de regarder différentes expériences est nécessaire. Il y a des traces d’une nouvelle interprétation des rôles et des fonctions dans laquelle prévaut une culture d’explication d’accompagnement. Et il y a des traces qui font partie de l’ancienne culture de propagande. Montrer les différences est crucial. Le signalement de nouveaux parcours de formation professionnelle est très utile. Comprendre si les institutions sont ouvertes à une approche critique également grâce à la collaboration avec le système universitaire (dans certains domaines oui, dans d’autres non) ne doit pas nous faire peur.
- Le troisième point évoqué est lié à tout le reste : comment avance la recherche appliquée sur ce sujet?La recherche appliquée (contrairement à la recherche théorique ou disciplinaire) nécessite une commande, qui doit être largement institutionnelle. Existe-t-il ? Y a-t-il une question de recherche appliquée ? La réponse qui peut émerger est très importante. Je travaille toujours à l’Université (à Milan) et je dirige un observatoire de la communication publique qui vit avant tout de cette demande. Mon impression est que les impulsions sont rares et inégales. Dès lors, les fonds d’études et de recherche qui s’ouvrent aux collaborations interuniversitaires sont précieux. Il y a un bilan qui peut être montré à l’attention des gouvernements (locaux, nationaux et supranationaux) qui continuent de penser que des enquêtes sur la perception des citoyens sont plus nécessaires que des analyses de transformation de la réalité pour faire des choix et des décisions. Vincenzo me rapporte un excellent travail de James Dennison, collaborateur de l’ICMPD agrégé à l’IUE, qui publie régulièrement des rapports très détaillés. Content de s’en souvenir ici.
- J’aime beaucoup le quatrième point. Que se pose le problème de la professionnalisation d’une certaine éthique publique (je le dis ici en des termes différents du document de base). D’une part, la nécessité de dire la vérité, entendue comme un métier à la fois de journalisme indépendant et d’opérateur public et social. D’autre part, sentir que l’évolution professionnelle de la fonction ne se limite pas à décrire. Mais elle s’étend à la nécessité d’agir sur le territoire de l’explication des processus. Ce qui est le seul moyen de s’attaquer à l’analphabétisme fonctionnel, qui est trop élevé dans nos propres pays occidentaux, qui est à la base d’une demande de déni, de non-scientificité, etc., c’est-à-dire de cultures qui concernent non seulement les crises sanitaires mais aussi les crises sociales. Ecomed a déjà l’expérience de stimuler le nouveau journalisme d’investigation et d’investigation. Il serait important de créer les conditions d’un mélange d’histoires et d’expériences en ouvrant également ces chantiers à des opérateurs institutionnels.
- J’aime encore plus le cinquième point. Qui parle d'”erreurs du passé“. Honnêtement, autour de la relation entre l’Europe et les migrations, il y aurait une histoire d’erreurs à écrire. Cela aiderait également à mieux comprendre pourquoi l’Europe – même maintenant avec les meilleures intentions – continue de lutter pour mettre cette question en tête de l’agenda. Et cela expliquerait pourquoi jusqu’à présent nous avons renoncé à avoir un véritable rôle régulateur (sauf sporadiquement), maintenant ainsi vivantes dans la politique européenne des catégories sur les processus globaux de migration (par exemple les catégories du bien et du mal) dont un gouvernement digne de ce nom, il devrait avoir honte. Parce que ce sont presque toujours des catégories qui surgissent dans la spéculation électorale et non dans la qualité prévisionnelle et réformatrice de la politique.
- Enfin – dernier point – la question très importante de savoir comment travailler sur les sentiments sociaux, c’est-à-dire sur les perceptions équilibrées par la transformation de l’opinion publique non seulement sur les questions d’alerte immédiate, mais sur celles qui rassemblent des questions critiques à l’origine et potentiel de développement. Il est trop évident que la difficulté de développer ce thème est de maintenir en tension (de comprendre et de faire comprendre) non seulement les peuples voisins autour des zones de crise, mais aussi les peuples lointains qui au troisième millénaire ne peuvent pas vivre comme les trois singes de la tradition proverbiale japonaise selon laquelle « l’un ne voit pas le mal, l’autre n’entend pas le mal et la tersa ne parle pas du mal ».
Le document de base de cette édition fait allusion à ces six points.
Je voulais juste dire, pour donner du sens à une contribution introductive concernant mon volet professionnel et institutionnel du projet Euromed :
- que je suis d’accord avec l’approche,
- que dans le contexte de notre réunion, il est important qu’elle apporte une valeur ajoutée aux réponses, et pas seulement en les paraphrasant ;
- qu’en particulier en cette période d’efforts pour surmonter la crise pandémique, je pense que nous avons le devoir de mettre la sensibilité professionnelle des communicateurs publics au sujet de l’apprentissage de la crise que nous avons traversée ; c’est-à-dire par rapport à la façon dont nous pensons vouloir et pouvoir orienter certains ajustements de paradigme afin de ne pas se retrouver seuls avec des fonctions et des approches bureaucratiques qui, ne comprenant pas comment va le monde, finissent par ne traiter que de la visibilité des politiques réticents.
Merci et meilleurs vœux pour un forum courageux.

Spunti per la tavola rotonda di conclusioine della primna giornata
Narrazioni
Parola molto in uso. Nel caso delle questioni migratorie essa esprime tuttavia anche un conflitto. Da un lato la forte alimentazione dell’immaginario collettivo in cui – in molti paesi e per molto tempo – la percezione ha avuto il netto sopravvento rispetto alla realtà. Appunto perché la statistica e l’analisi delle cause non è riuscita in larga parte a trasformarsi in “narrazione”. Dall’altro lavoro la crescita di responsabilità – soprattutto nell’ambito di giornalisti giovani e coraggiosi (che abbiamo conosciuto in questi anni di incontri euro-mediterranei – che hanno capito che era necessario stare sul posto e soprattutto “raccontare storie”. Oggi “raccontare storie” vuol dire fare uscire dall’immaginario collettivo l’idea che migrazioni significhi soprattutto masse indistinte. Ma invece persone, famiglie, donne, bambini, luoghi, ragioni, origini, dolori, scelte, speranze. E’ come scoprire lo zoom nella macchina fotografica.
Italiani
Abbiamo molti argomenti per fare racconto anche attraverso la storia. A cominciare dalla vicenda biblica. E per noi italiani (così come per tedeschi, portoghesi, irlandesi e molti altri) si tratta di una vicenda strutturale della nostra stessa evoluzione identitaria. Dal 1890 al 1920 migrano nel mondo non alcuni italiani, ma la metà degli italiani, più di 20 milioni di persone rispetto al paese che ne contava poco più i 40 milioni. Formando – tra mille traversie, pregiudizi, stereotipi, durezze – in tanti contesti del mondo, finalmente nuove classi dirigenti. Oggi si può parlare di una buisiness community, comunque una grandissima comunità di lavoro stimata in 250 milioni di persone. In realtà un patrimonio geopolitico e culturale. Di cui non si ha spesso idea soprattutto in Italia.
Anche un secolo fa la questione migratoria era considerata solo come una tragedia. Ma gli italiani che pensavano al futuro (penso a Francesco Saverio Nitti che fu capo del governo italiano proprio un secolo fa e la cui azione fu spezzata dal fascismo) provò anche dire che le migrazioni, insieme ai dolori, avrebbero portato sprovincializzazione, rediti per famiglie povere, conoscenza, futuri scambi e futura crescita. Fu preso per un visionario stravagante. Questo ci insegna a cogliere anche la componente evolutiva. Tra le chiavi di narrazioni oggi poco di moda.
Università, ricerca e storie da raccontare
Le narrazioni – in generale tutto il processo comunicativo – ruotano soprattutto sull’atto finale: lo sbarco. Così che è questo “atto finale” è come se fosse una vicenda anonima, senza origini, senza motivazioni, senza un dna umano. Ci sono barconi per mare o camion per terra che traportano numeri. Che si ingigantiscono nell’immaginario e che arrivano come bombe. Bombe immateriali fatte di turbamenti, di intrusioni, di contaminazioni.
Ho dedicato un po’ di tempo negli scorsi anni per associarmi ad un’esperienza di ricerca condotta dal mio prorettore di allora, il prof. Angelo Turco, un geografo e africanista. Per andare con lui in una missione di studio sulle fonti geo-economiche e geo-sociali delle migrazioni. Per esempio in Guinea partendo dai villaggi rurali, poi nelle periferie urbane, poi sulle spiagge di Konakry dove i ragazzi si allenano al pallone sperando di diventare tutti i nuovi Pogba e di essere notati e portati al Paris St.Germain. Ho imparato più in quel viaggio che in mille ore di tv dedicate ai migranti. E’ chiaro che i media stanno sulla notizia. Ma devo anche alla lezione dei giovani giornalisti che abbiamo incontrato aver capito che una storia umana ben raccontata può diventare una notizia. E così che il sistema dell’università e della ricerca applicata può dare il suo contributo a raddrizzare le narrazioni. Non per fare “buonismo”, ma per ampliare l’informazione sulle cause. Che in altre parti del mondo significa carestie, problemi di libertà, problemi di clima (Il Bangladesh che finisce sottacqua entro il 2050), eccetera.
Idées pour la table ronde de fin de première journée
Narrations
Mot très utilisé. Dans le cas des questions de migration, cependant, il exprime également un conflit. D’une part, la forte alimentation de l’imaginaire collectif dans lequel – dans de nombreux pays et depuis longtemps – la perception a clairement prévalu sur la réalité. Précisément parce que les statistiques et l’analyse des causes ont largement échoué à se transformer en «narration». D’autre part, l’accroissement de la responsabilité – notamment dans le cadre de jeunes et courageux journalistes (que nous avons rencontrés dans ces années de rencontres euro-méditerranéennes – qui ont compris qu’il fallait rester en place et surtout «raconter des histoires “. Aujourd’hui «raconter des histoires», c’est faire sortir de l’imaginaire collectif l’idée que la migration signifie avant tout des masses indistinctes. Mais à la place des personnes, des familles, des femmes, des enfants, des lieux, des raisons, des origines, des douleurs, des choix, des espoirs. C’est comme découvrir le zoom dans l’appareil photo.
Italiens
Nous avons de nombreux sujets à raconter, même à travers l’histoire. A commencer par l’histoire biblique. Et pour nous Italiens (ainsi que pour les Allemands, les Portugais, les Irlandais et bien d’autres) c’est une histoire structurelle de notre propre évolution identitaire. De 1890 à 1920, beacoup d’Italiens migrent à travers le monde, la moitié des Italiens, soit plus de 20 millions de personnes par rapport au pays qui en comptait un peu plus de 40 millions. Qui – au milieu de mille épreuves, préjugés, stéréotypes – dans de nombreux contextes du monde, vont former enfin de nouvelles classes dirigeantes. Aujourd’hui, on peut parler de communauté d’affaires, certainement une communauté de travail très importante, estimée à 250 millions de personnes. En réalité un héritage géopolitique et gèoculturel. Dont on n’a souvent aucune idée, surtout en Italie.
Il y a encore un siècle, la question des migrations n’était considérée que comme une tragédie. Mais les Italiens qui pensaient à l’avenir (je pense à Francesco Saverio Nitti qui était à la tête du gouvernement italien il y a tout juste un siècle et dont l’action a été brisée par le fascisme) ont également tenté de dire que la migration, avec la douleur, aurait conduit à la déprovincialisation, aux revenus des familles pauvres, au savoir, au commerce futur et à la croissance future. On le prenait pour un visionnaire extravagant. Cela nous apprend à saisir aussi la composante évolutive. Parmi les clés de récits qui ne sont pas très à la mode aujourd’hui.
Université, recherches et histoires à raconter
Les récits – en général l’ensemble du processus de communication – tournent principalement autour de l’acte final : l’atterrissage. Alors qu’est-ce que cet « acte final », c’est comme s’il s’agissait d’une histoire anonyme, sans origines, sans raisons, sans ADN humain. Il y a des bateaux sur la mer ou des camions à terre portant des numéros. Qui sont magnifiés dans l’imaginaire et qui arrivent comme des bombes. Des bombes immatérielles faites de troubles, d’intrusions, de contaminations.
J’ai passé du temps ces dernières années à m’associer à une expérience de recherche menée par mon vice-recteur de l’époque, le prof. Angelo Turco, géographe et africaniste. Avec lui j’etais en mission d’étude sur les sources géo-économiques et géo-sociales des migrations. Par exemple en Guinée en partant des villages ruraux, puis dans les banlieues urbaines, puis sur les plages de Conakry où les garçons s’entraînent au football en espérant devenir tous les nouveaux Pogba et être remarqués et emmenés au Paris Saint-Germain. J’ai appris plus lors de ce voyage qu’en mille heures de télévision consacrées aux migrants. Il est clair que les médias sont sur l’actualité. Mais je dois aussi à la leçon des jeunes journalistes que nous avons rencontrés de comprendre qu’une histoire humaine bien racontée peut devenir une actualité. C’est ainsi que l’université et le système de recherche appliquée peuvent contribuer à redresser les récits. Non pas pour “faire le bien”, mais pour élargir l’information sur les causes. Ce qui dans d’autres parties du monde signifie famines, problèmes de liberté, problèmes climatiques (le Bangladesh va sous l’eau d’ici 2050), etc.
Risposta videoregistrata a intervista conclusiva
Migrazioni e comunicazione pubblica: che fare?
Stefano Rolando
E’ molto opportuno porre questa domanda a un punto avanzato dei nostri lavori qui a Parigi.
Importante è certamente descrivere, importante analizzare. Ma migliaia di operatori – nel sistema euromediterraneo – hanno l’impressione che la spinta delle istituzioni, soprattutto della politica, sia ancora debole per adottare non continue posizioni tattiche, ma vere e proprie strategie, che sono quelle che poi determinano svolte comunicative.
Cominciamo col dire che la stessa parola “comunicazione” è un po’ inflazionata. E’ diventata un ambito enorme, con molto potere e molti soldi. Ma conserva tratti ambigui, se la vogliamo misurare su un tema complesso come le migrazioni.
E non basta trasformarla nella parola “narrazioni” perché anche esse non sono neutrali e soprattutto esprimono sulla materia un conflitto ancora forte.
Il fatto che stiamo trattando qui in questo panel dell’eccesso di spazio al tema della percezione (regolato più dai sondaggi che dalla statistica) è proprio una delle misure della conflittualità e della ambiguità.
La percezione ovviamente è favorita da ambiti della politica e dei media.
Non tutti gli ambiti, sia chiaro. Ma da quelli che finora hanno tratto voti o fatto ascolti sulla drammatizzazione, sull’allarmismo, sul gigantismo immaginario del tema.
In questo quadro la comunicazione istituzionale resta ancora insufficiente ovvero spesso subordinata, spesso orientata più a processi e procedure burocratiche che ad intervenire nell’ interpretazione e nella spiegazione.
Eppure c’è un giornalismo – lo abbiamo visto in questi anni proprio nell’ambito di Euromed – che ha abbandonato l’insistente rappresentazione delle masse in mobilità, masse indistinte e perciò minacciose. E ha cominciato a raccontare storie di persone, storie di origine dei processi migratori, storie legate al rapporto con le libertà, con le crisi, con le disuguaglianze.
E’ comincia a formarsi nelle agenzie internazionali – come quelle che organizzano questo workshop, ma anche in seno alle istituzioni europee – filiere di funzionari, spesso giovani e preparati, che sanno lavorare su questi dossier non tanto ideologicamente, ma con la cultura del fare e del risolvere.
Dunque ci sono questioni diverse da affrontare per immaginare una vera evoluzione degli ambiti che negli apparati di governo potrebbero orientare diversamente le proprie capacità e le proprie responsabilità.
Ma qualcuno dovrebbe lavorare oggi in modo innovativo al dossier dei modelli organizzativi di questi settori.
Ecco, soprattutto, dove si annida il tema del “che fare”.
Provo a dire in breve qualche spunto connesso al ripensamento delle competenze e dell’organizzazione.
- Gli ambiti della statistica sono molto importanti. Ma vanno sollecitati a funzionare anche dal punto di vista della moderna, semplificata ed efficace comunicazione. Non solo a sfornare illeggibili repertori, tabelle e istogrammi. Competenze e nuclei di lavoro formati.
- La ricerca applicata – l’ho detto questa mattina – ha bisogno di domanda, per capire cause e dinamiche, soprattutto nei contesti di origine; la domanda o è pubblica o non si forma. E questo comporta poi che sui risultati ci sia una volontà divulgativa, connessa con i media e con gli ambiti di formazione.
- Lo spazio pubblico si gioca non solo con la formazione professionale ma con tutta la filiera del sistema educativo, dalla scuola alla università. Dove il contributo della conoscenza – che va organizzato in modo interdisciplinare – è un’altra responsabilità delle istituzioni.
- Va messa in tensione la sensibilità dei territori (regionali e locali) che costituiscono la frontiera di prossimità per ridurre la soglia di disinformazione, manipolazione e deformazione dei dati e degli aspetti sostanziali della vicenda migratoria.
- E poi resta la rete dei servizi pubblici radiotelevisivi a cui sono i governi a dare una concessione sulla base di accordi programmatici riguardanti proprio la mission di “servizio pubblico” e conferendo anche le risorse per assicurare prodotti che non fanno leva sul mercato dell’intrattenimento.
Mi limito a pochi spunti, solo per segnalare cosa vuol dire movimentare la creatività di un governo della comunicazione pubblica sulle migrazioni, fatta di tasselli che, tutti insieme, producono svolte cognitive e quindi svolte civili.

Réponse enregistrée sur vidéo à l’entrevue finale
Migration et communication publique : que faire ?
Stefano Rolando
Il est tout à fait approprié de poser cette question à un stade avancé de notre travail ici à Paris.
Il est certes important de décrire, il est important d’analyser. Mais des milliers d’opérateurs – dans le système euro-méditerranéen – ont l’impression que la poussée des institutions, notamment politiques, est encore faible pour adopter non pas des positions tactiques continues, mais de vraies stratégies, qui sont celles qui déterminent ensuite les changements communicationnels.
Commençons par dire que le mot même «communication» est un peu gonflé. C’est devenu une zone immense, avec beaucoup de pouvoir et beaucoup d’argent. Mais il garde des traits ambigus, si l’on veut le mesurer sur une question complexe comme la migration. Et il ne suffit pas de le transformer en le mot «récits » car eux non plus ne sont pas neutres et surtout ils expriment un conflit encore fort en la matière.
Le fait qu’il s’agisse ici dans ce panel de l’excès d’espace au sujet de la perception (régulé davantage par des enquêtes que par des statistiques) est précisément une des mesures du conflit et de l’ambiguïté.
La perception est évidemment favorisée par les domaines de la politique et des médias.
Pas tous les domaines, remarquez. Mais de ceux qui ont jusqu’ici tiré des votes ou des jeux sur la dramatisation, sur l’alarmisme, sur le gigantisme imaginaire du thème.
Dans ce contexte, la communication institutionnelle est encore insuffisante ou souvent subordonnée, souvent davantage orientée vers des processus et procédures bureaucratiques que pour intervenir dans l’interprétation et l’explication.
Pourtant, il existe un journalisme – on l’a vu ces dernières années dans le cadre d’Euromed – qui a abandonné la représentation insistante des masses en mouvement, indistinctes et donc menaçantes. Et il s’est mis à raconter des histoires de personnes, des histoires sur l’origine des processus migratoires, des histoires liées au rapport aux libertés, aux crises, aux inégalités.
Elle commence à se former dans les agences internationales – comme celles qui organisent cet atelier, mais aussi au sein des institutions européennes – des filières d’approvisionnement de fonctionnaires, souvent jeunes et formés, qui savent travailler sur ces dossiers non pas tant idéologiquement, mais avec la culture du faire et de la résolution.
Il y a donc différentes questions à traiter afin d’imaginer une véritable évolution des domaines qui dans les appareils gouvernementaux pourraient orienter différemment leurs capacités et leurs responsabilités.
Mais quelqu’un devrait travailler aujourd’hui de manière innovante sur le dossier des modèles d’organisation de ces secteurs.
C’est surtout là que se cache le thème du « que faire ».
J’essaie de dire brièvement quelques idées liées à la refonte des compétences et de l’organisation.
- Les domaines des statistiques sont très importants. Mais il faut aussi les pousser à fonctionner du point de vue d’une communication moderne, simplifiée et efficace. Non seulement pour produire des répertoires, des tableaux et des histogrammes illisibles. Compétences et groupes de travail formés.
- La recherche appliquée – je l’ai dit ce matin – a besoin d’être questionnée, pour comprendre les causes et les dynamiques, notamment dans les contextes d’origine ; la demande est soit publique, soit non formée. Et cela implique alors qu’il existe une volonté de diffusion des résultats, en lien avec les médias et avec les espaces de formation.
- L’espace public se joue non seulement avec la formation professionnelle mais avec toute la chaîne du système éducatif, de l’école à l’université. Où l’apport de connaissances – qui doit être organisé de manière interdisciplinaire – est une autre responsabilité des institutions.
- La sensibilité des territoires (régionaux et locaux) qui constituent la frontière de proximité doit être soulignée afin de réduire le seuil de désinformation, de manipulation et de déformation des données et des aspects substantiels de l’événement migratoire.
- Et puis il reste le réseau des services publics de radio et de télévision auquel les gouvernements accordent une concession sur la base d’accords programmatiques concernant la mission de « service public » et conférant également les moyens d’assurer des produits qui n’exploitent pas le marché pour divertissement.
Je me limite à quelques idées, histoire de souligner ce que signifie déplacer la créativité d’un gouvernement de communication publique sur la migration, constitué de morceaux qui, tous ensemble, produisent des virages cognitifs et donc civils.