Guido Melis sul saggio del 1910 di Gaetano Salvemini “Il ministro della mala vita”,ripubblicato da Bollati Boringhieri, 2021 (a cura di Sergio Bucchi).

Recensione di Guido Melis a G. Salvemini, Il ministro della malavita, Torino, Bollati Borighieri, 2021, in ““Rivista giuridica del Mezzogiorno”, 2021,http://lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2021/12/Recensione-Melis.pd.


Gaetano Salvemini, “Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale“, a cura di Sergio Bucchi, con una Nota di Gaetano Arfè, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, pp. LXXI-198.


Quando il volume uscì, a Firenze nel 1910 nelle edizioni de “La Voce” inventate da Giuseppe Prezzolini, l’autore aveva 37 anni ma già recava nell’animo il peso schiacciante di una irreparabile tragedia personale che lo aveva solo due anni prima travolto e quasi annichilito.

Pugliese, nato a Molfetta, un centro agricolo sulla costa adriatica prossimo a Bari, figlio di una famiglia di piccola borghesia rurale, il ragazzo Salvemini aveva studiato con enormi sacrifici grazie a una modesta borsa di studio dell’università di Firenze, divenendo l’allievo prediletto del grande storico Pasquale Villari.

Aveva quindi intrapreso la carriera di insegnante, ma senza mai rinunciare all’amore per la ricerca storica, così da giungere ancora relativamente giovane alla cattedra nell’Università di Messina.

Si era segnalato, sin da quei primi anni, per l’originalità dei suoi studi ma anche per l’appassionata e generosa partecipazione al movimento per la riforma scolastica, militando nelle file della neonata Federazione nazionale degli insegnanti. E proprio a Messina, nel dicembre del1908, la sua serenità familiare era stata distrutta in pochi drammatici minuti dal terribile terremoto che aveva in una sola notte raso al suolo la città dello stretto.

Una catastrofe di proporzioni ineguagliabili, nella quale Salvemini perse la moglie, cinque figli e una sorella. Egli stesso, sfuggito per miracolo alle macerie, fu in un primo momento dato per morto, e come tale persino commemorato in qualcuno dei giornali del “continente”.

La crisi intima che ne seguì, e la difficile risalita psicologica dall’abisso del dolore, lo votarono definitivamente agli studi “matti e disperatissimi”, accompagnandolo lungo tutta la successiva non facile esistenza: antifascista della prima ora, nemico acerrimo del regime, ne avrebbe subìto le persecuzioni, sino all’esilio, in gran parte trascorso negli Stati Uniti in una coraggiosa e indomita attività di agitazione e propaganda contro il fascismo.

Era stato forse anche per lenire quel recente trauma del 1908 che il giovane storico aveva accentuato il suo impegno civile: prima impegnandosi in prima persona nelle battaglie democratiche del partito socialista d’inizio secolo (era un riformista, avverso ad ogni massimalismo, all’inizio molto legato a Turati), poi in una collocazione via via sempre più solitaria, deluso come fu dalla sordità del suo partito verso il problema del Mezzogiorno e dalle malcelate simpatie turatiane nei confronti della politica di Giovanni Giolitti.

Anche per questo, probabilmente, volle scrivere un libro radicalmente diverso dagli studi accademici precedenti: più che una riflessione teorica, un’inchiesta quasi giornalistica, condotta secondo i canoni di un certo giornalismo di stampo anglosassone che proprio allora cominciavano ad affermarsi anche nella stampa italiana (ne era stato antesignano il “Corriere della sera” di Luigi Albertini).

Oggetto dell’indagine, condotta personalmente dall’autore recandosi sui luoghi degli eventi, erano le elezioni meridionali, in particolare per prime le votazioni in un comune del retroterra pugliese, Gioia del Colle (poi però, come si vedrà, il raggio dell’analisi si sarebbe esteso, sino a cogliere i tratti tipici di un fenomeno più generalmente esteso a molte altre aree del Mezzogiorno).

Metodo adottato: l’osservazione rigorosamente di prima mano, in via diretta, o, se indiretta, la ricostruzione sulla base di attendibili testimonianze di ciò che avveniva e la raccolta paziente in loco della relativa documentazione. Solo dopo l’esposizione dell’accaduto in chiave di cronaca e l’analisi dei documenti veniva l’interpretazione, e infine l’inquadramento nel contesto storico e politico più generale.

Scelta di fondo etica, mai tradita: “dire sempre e a ogni costo la verità” (sono parole scritte da Salvemini all’amico socialista Costantino Lazzari nel 1910), e dirla in un linguaggio il più possibile diretto, semplice, accattivante. Farsi capire dal lettore insomma, nella certezza che la buona ragione potesse alla lunga prevalere sul sopruso e sulla falsificazione della propaganda.

A Gioia del Colle Salvemini conobbe un tipico esponente della classe politica dell’epoca, specie di quella meridionale. Sembrava predestinato a vincere le elezioni, avesse o no raggiunto con mezzi leciti il consenso degli elettori. Si chiamava Vito De Bellis, ma – lo descrive Salvemini – “non è un uomo, è un simbolo, è un individuo rappresentativo, è un’istituzione. Vito De Bellis è il giolittismo”.

Il libro si apre con il suo sferzante e insieme sapido ritratto: direttore di una banchetta locale, affarista senza scrupoli e più che discusso commerciante, eletto deputato nel 1895 dopo che il suo rivale era stato assassinato nella pubblica strada senza che mai se ne trovasse l’uccisore, sarebbe stato rieletto nel 1897 e poi ancora nel 1904.

Nel 1905 avrebbe trionfato nelle comunali a Gioia del Colle. Non senza contrasti, a destra come a sinistra: ma da Roma “Giovanni Giolitti vegliava su di lui”. Con le buone o con le cattive la sua vittoria era assicurata.Di questo personaggio, un parvenu spregiudicato che utilizzava la politica come l’arma contundente per una scalata alla ricchezza e al potere, il libro racconta le malefatte, l’irresistibile scalata ai vertici della piccola società locale, percorrendo con stile piacevolissimo (la scrittura di Salvemini è godibilissima, nell’alternarsi del registro dell’ironia che si fa sarcasmo con l’indignazione di certi passaggi) le vicende di un piccolo comune periferico, assunto però come campione emblematico di tutta una regione o forse del Paese per intero.

Uno dopo l’altro Salvemini, con puntualità e rigore, elenca gli episodi di corruzione, denuncia le intimidazioni verso avversari ed elettori, annovera le violenze contro circoli, associazioni, case private, indica le protezioni vergognose della questura avvalorate dal prefetto, i brogli sugli elenchi dei votanti, i conteggi di voti (truccati dopo avere espulso con la forza dalla sala del seggio gli osservatori indiscreti), le schede scomparse, bruciate oppure aggiunte in segreto nell’urna da mani complici. Un caleidoscopio di artifizi illeciti messi in opera con sfacciata protervia sotto gli occhi di chi avrebbe dovuto assicurare la legalità e che invece collaborava attivamente con la malavita, aspettandosi da ciò benefici economici e promozioni.

Già, perché tra questi “mazzieri” (come proprio da Salvemini in poi furono battezzati gli squadristi ante litteram), c’è il fior fiore della delinquenza comune, persino (càpita anche questo) qualche ex carcerato, rimesso alla bisogna in libertà in cambio della sua “collaborazione” nelle squadracce intimidatorie di De Bellis.

De Bellis diventa così il prototipo dell’àscaro (un’altra parola coniata all’epoca): cioè il parlamentare senza altra virtù né merito che non siano la sua capacità di raccogliere e convogliare verso il patròn il consenso clientelare della sua provincia, privo in fondo di una sua ideologia e di una identità politica, docile strumento nelle mani del politico nazionale che lo ha reclutato.

Deputato di fila, non necessariamente buon oratore, ma in compenso diligente esecutore alla Camera dei voleri del suo dante causa. E Giolitti “che a prima vista sembra il dittatore della maggioranza, in realtà è il servo e lo strumento dei deputati della maggioranza; i quali in tanto gli hanno conferita la dittatura, in quanto sanno che questa dittatura sarà esercitata a tutela dei loro interessi. È il loro capo, dunque deve servirli”.Non sfugge qui, appena celata sotto la ruvida, corrosiva ironia salveminiana, la denuncia morale ancor prima che politica del pactum sceleris tra Giolitti e i suoi caporioni nel Sud: una politica che non ha anima si pone al servizio degli interessi personali e di clientela, li soddisfa e ne ricava in cambio la delega a esercitare il potere e i voti necessari per poterlo fare indisturbata.

La grande maggioranza giolittiana, alla quale molti anni fa dedicò un bellissimo libro lo storico Giampiero Carocci, vota compatta a Roma senza avere un programma comune, né una percezione collettiva dei propri interessi che non sia la somma dei piccoli guadagni personali di ciascuno nei collegi elettorali di provenienza. Meridionale, vota in genere contro il Sud, per mantenere il Mezzogiorno nella grande depressione nella quale langue dall’unità d’Italia almeno: cioè in definitiva vota contro l’interesse generale delle popolazioni cui dovrebbe assicurare rappresentanza in Parlamento, ignorandone la miseria, l’ingiustizia che regna sovrana, le poche ma pure presenti speranze di riscatto.

Qui l’analisi di Salvemini si fa spietata: Giolitti, uomo del Nord industriale, è – per dirla con una espressione che sarà poi cara a Gramsci – il rappresentante del blocco industriali-agrari cui aderisce in subordine la classe operaia settentrionale dietro gli stendardi del Partito socialista; e di quel blocco di classe, che esclude il Sud, quei deputati reclutati dal ministro della malavita sono i portatori d’acqua (e di voti).

Ritornerò sul punto in conclusione, perché costituisce un passaggio da discutere. Intanto però, sfogliando ancora il libro del 1910, ecco un Salvemini, ormai isolato nello schieramento socialista, che cerca l’aiuto di due eminenti personalità della sinistra: Giuseppe De Felice Giuffrida e Napoleone Colajanni. Sono entrambi due “eretici” della sinistra, come lo è ormai Salvemini. Del primo, catanese, promotore nel 1896 ai temi di Crispi dei Fasci siciliani, leader democratico antigiolittiano, il libro riporta col titolo Come sono state fatte le elezioni in Sicilia un appassionato discorso di denuncia tenuto alla Camera il 23 maggio 1909 (c’era stato anche in questo caso persino un tentato assassinio).   

Del secondo, Colajanni, che aveva nel 1892 fatto scoppiare lo scandalo della Banca Romana e che era un importantissimo e rispettato parlamentare, pubblica la denuncia circostanziata di un altro “manipolo” (così nel libro le chiama Salvemini) di elezioni truccate da Giolitti e dai suoi accoliti in Sicilia e altrove.Vi sono poi, nel volume, altre vicende apparentemente frammentarie, ma in realtà tutte unite dalla medesima causa scatenante (la ricerca del voto imposto con la violenza) e dagli stessi metodi (la brutalità della forza fisica, la minaccia delle armi, il ricatto e la compravendita degli oppositori).

Compaiono sulla scena altri De Bellis, sia pure differenti per nome, luogo di azione, vicende personali. Ma il prototipo è sempre lo stesso. E la cifra di queste altre cronache non differisce. Ne viene un dossier impressionante: una sorta di viaggio all’inferno, nel quale i deboli sempre soccombono, gli onesti pagano il prezzo salatissimo della loro virtù e i sopraffattori restano impuniti, sotto la protezione delle autorità, della magistratura, dell’opinione pubblica borghese legata agli interessi malavitosi.

L’edizione di Bollati Boringhieri di questo libro (che ha alle spalle altre edizioni, tra le quali quella curata da Elio Apih nelle Opere di Gaetano Salvemini, uscita per Feltrinelli nel 1962) segue fedelmente la falsariga la traccia del 1910 (e quindi i tre scritti principali: “Le elezioni di Licata“, “Come fu eletto il barone Saporito“, “Documenti elettorali giolittiani“) aggiungendovi però alcuni testi pubblicati invece nella seconda edizione del 1919 (“Ricordi di una domenica di passione”, vibrata denunzia delle elezioni del 16 ottobre 1913 a Molfetta; “La Federazione degli insegnanti medi e le candidature Salvemini“; “L’impresa della malavita a Bitonto“).

Si compone così l’affresco (il quadro a tinte fosche, per lo più) di una società corrotta e violenta, nella quale mafiosi, camorristi, affaristi senza scrupoli, profittatori di ogni risma giocano la loro eterna partita assistiti e protetti da poliziotti senza scrupoli in cerca di commende, carabinieri obbedienti ai potenti, uomini dello Stato disponibili a farsi comprare. Sullo sfondo, sottovoce, Salvemini fa parlare però anche le vittime, i senza-parola, quasi sempre anonimi: “Siamo soffocati da un cumulo di prepotenze di ogni minuto”, dice una di loro; “Qui siano addirittura all’inferno”, piange un altro. Salvemini stesso, candidato nel 1913 a Molfetta per contestare quell’universo del male, deve invocare la presenza dell’amico giornalista Ugo Ojetti: “La sola cosa di cui la prefettura ha paura è la stampa. Io sono sicuro che se tu vieni a Molfetta annunziandoti come redattore del ‘Corriere della Sera’, qui non avviene più nulla, perché temono allora di essere denunciati al paese. E Giolitti non vuole lo scandalo”.

Giolitti, appunto: uno dei governanti che nella storia d’Italia ha lasciato i migliori ricordi, al punto che un’epoca intera, il primo quindicennio del Novecento, ha da lui preso il nome nei manuali di storia come l’età giolittiana. L’uomo schietto ma coraggioso che capì i tempi nuovi e mise fine alla svolta reazionaria di fine Ottocento, riconoscendo i socialisti come interlocutori sia pure di parte avversa e promuovendo nel Paese una prima legislazione sociale. Il politico della mediazione, della tolleranza anche, promotore nel 1912 della legge sul suffragio universale (sia pure ancora solo maschile). Colui che creò il quadro istituzionale nel quale poté maturare e svolgersi il primo decollo industriale italiano. Il ritratto che Salvemini traccia di questo indiscusso leader nazionale è come l’immagine riflessa in uno specchio rovesciato: visto dalle desolate plaghe del Sud, Giolitti appare tutto in negativo: ministro della malavita, appunto.

Nella bella introduzione premessa al volume il curatore Sergio Bucchi affronta la domanda cruciale che la rilettura di oggi ancora solleva: ma fu, Giolitti, davvero quello che Salvemini consegna a queste sue pagine? Bucchi risponde alla domanda in modo intelligente e anche molto articolato. Ritorna sulla polemica Salvemini-Croce dell’immediato secondo dopoguerra, quando il filosofo difese valori e opera giolittiane e Salvemini al contrario ripeté inesorabile la sua condanna. Ma anche evoca la difesa del vecchio politico piemontese fatta dal leader comunista Togliatti e le stesse posizioni più dialettiche, seppure mai assolutorie, assunte da Salvemini.

Questi, avendo ormai alle spalle la nefasta dittatura fascista, parlò dei limiti profondi della cosiddetta democrazia liberale pre- fascista (“Fu l’Italia prefascista una democrazia?“, si chiese in un saggio sul “Ponte” del 1952); ammise che “non fu certo lui”, Giolitti, a inventare la corruzione, sebbene l’avesse portata a un grado di sistematica diffusione in tutte le regioni meridionali; registrò con onestà infine la differenza di qualità tra quel regime corruttivo giolittiano e l’altro soppressivo di ogni libertà che sarebbe sopraggiunto col fascismo: non senza notare però che paradossalmente l’uno aveva concorso a preparare l’altro, per lo meno nel senso che aveva addomesticato le coscienze adattandole al supino chinar di capo davanti alla violenza e preparandole alla pratica vile della tolleranza nei confronti del sopruso. Tesi che, in poche dense pagine della Nota finale di questo volume di Bollati Boringhieri, sono argomentate da uno dei più affezionati discepoli di Salvemini, lo storico del partito socialista e del movimento operaio Gaetano Arfè.

Efficacissime, persino emozionanti a rileggerle, nella denuncia del ministro della malavita, queste pagine salveminiane lasciano tuttavia, a tanti anni di distanza, qualche perplessità. Sembrano come sospese e circoscritte: sospese in un tempo che è fatalmente quello dell’Italia degli anni di Giolitti; circoscritte in un Mezzogiorno che è la sede della questione meridionale sorta subito dopo l’unità, tanto bene descritta dai grandi meridionalisti della prima generazione (Giustino Fortunato, De Viti De Marco, Villari, poi Colajanni, Ciccotti, Tommaso Fiore, Guido Dorso).

Il tema dello sviluppo industriale, del primo “balzo in avanti” del Paese proprio in coincidenza con quei fatti così efficacemente descritti, e il ruolo che vi ebbe Giolitti, sfuggono totalmente all’analisi tanto acuta di Salvemini; il suo giudizio sulla prima legislazione sociale (cui aveva potentemente concorso la spinta esterna del socialismo riformista che egli criticava per avere tradito il Sud) è quasi inesistente; il tema cruciale della disarticolazione del blocco dominante industriali-agrari, per sostituirlo con una operosa e nuova classe dirigente meridionale legata alla riforma del latifondo agrario non ha cittadinanza in queste pagine.

Manca – se vogliamo – una prospettiva per il futuro, un progetto. La soluzione salveminiana, del resto, era allora un’altra, come scrive Bucchi: si concentrava sul suffragio universale, l’arma potente del voto messa nelle mani dei senza voto, per divenire il grimaldello decisivo col quale forzare la porta stretta che divideva il Mezzogiorno dal resto del Paese. Una soluzione che, paradossalmente, sarebbe stata nel 1912 realizzata proprio dal ministro della malavita; e che non sarebbe bastata a modificare lo scenario del Sud d’Italia tanto ben descritto da Salvemini in queste sue pagine.

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