Parole, simboli, significati. Nota storica al libro di Angelo Molaioli su “Comunicazione politica e propaganda socialista dal 1892 al 1992”

Angelo Molaioli – L’Altra storia – Comunicazione politica e propaganda socialista dal 1982 al 1992 –– Prefazione di Stefania Craxi, prefazione di Fabrizio Cicchitto, nota storica di Stefano Rolando – Fondazione Craxi ed- 2021

L’ampio volume di ricerca iconografica e analisi della storia della comunicazione del Partito Socialista Italiano è stato presentato a Roma il 16 dicembre 2021 a Palazzo Santa Chiara dalla Fondazione Craxi – Sono intervenuti Margherita BONIVER, Fabrizio CICCHITTO, Gianluca COMIN, Silvia COSTA, Stefania CRAXI , Paolo MIELI, Walter VELTRONI

Nota storica

La rappresentazione del riformismo riduce l’alterazione velleitaria e la finalità manipolatoria della comunicazione politica

Stefano Rolando [1]

Il titolo di questo libro autorizza a fare due immediate contestualizzazioni.

La prima è quella di voler abbracciare il secolo intero di una storia tesa tra due nette polarizzazioni.

Da un lato essa è radicata nel momento cruciale dello sviluppo industriale dell’Occidente e nell’emergenza della classe operaia.  Dall’altro lato essa è sfiorita nel momento cruciale del declino delle identità nazionali a favore di un processo di globalizzazione che introduce l’economia immateriale e una radicale trasformazione della cultura del lavoro (1892-1992).

La seconda contestualizzazione è quella di non avere reticenza (il titolo) nel coniugare due parole che dominano ciascuna una metà di quell’intreccio di vicende scandite da due guerre mondiali: la parola “propaganda”, che domina la prima metà; la parola “comunicazione”, che domina la seconda metà.

Questa peregrinazione storica assume, anno per anno, una velocità inusuale nella storia del mondo.

La trasformazione tecnologica e l’innovazione scientifica e produttiva inducono ogni anno trasformazioni più massicce di quante si fossero avverate in blocchi ventennali nel corso dell’800.

Come può essere rimasto uguale un soggetto politico esploso a fine ottocento nelle lotte di emancipazione dei lavoratori, degli operai, dei contadini e cresciuto nel ‘900 – soprattutto nella seconda metà del secolo – nella stabilizzazione delle condizioni di qualità sociale soprattutto del ceto medio, così da ridurre la polarizzazione di censo e l’enorme disparità che l’800 aveva consegnato a società e paesi che conoscevano da tempo le parole “libertà” ed “uguaglianza”?

Come può questo stesso soggetto raccontare nelle sue forme anche più simboliche un identico protagonismo sociale che apparteneva comunque a chi era più capace di invocare quella riduzione di disparità e l’implicita violenza di condizioni ingiustificate sia dei punti di partenza che dei punti di arrivo nel ciclo di vita delle persone e delle famiglie?

Basta scorrere – con l’effetto cinema – le pagine fittamente illustrate che qui seguono per avere visivamente chiaro questo arcobaleno in cui si alza, nel primo vento liberatorio del conflitto sociale e poi nel secondo vento liberatorio della sconfitta del nazifascismo, l’impeto popolare della storica coniugazione dei socialisti tra giustizia e libertà.

Ma in cui si abbassa anche, in due fasi importanti di questo secolo, la forza d’urto di questo grande movimento: una prima volta vedendo devastata l’idea di libertà e una seconda volta sgretolandosi la tutela e il relativo benessere di un vasto ambito sociale costretto a misurarsi con nuove proletarizzazioni.

Il lavoro di documentazione, studio, repertorio storico che Angelo Molaioli dedica meritoriamente ai decenni che precedono la sua generazione e poi quello di produzione, creatività, riorganizzazione, innovazione che riguardano la sua generazione, raccoglie un immenso sistema di frammenti visivi che ci riconsegnano queste storie, queste vicende, questi sentimenti.

Vi sarebbe poi un terzo tempo – quello contemporaneo – che è escluso dalla ricerca, perché la trasformazione digitale modifica radicalmente gli stilemi e perché (soprattutto) il soggetto storico della sua ricerca è estromesso dall’arena e, anzi, dichiara il suo sostanziale scioglimento nel 1994, pur restando poi con coraggio allusivo in campo, anzi riproponendo anche più volte la sua magnifica storia comunicativa per dimostrare radici, significati, memorie. 

Già è abbastanza impressionante la trasformazione della cultura visiva e grafica di questo grande movimento organizzato della politica italiana e internazionale che ci riconsegna il tempo anticapitalista e antipadronale e quello di una cultura di governo e riforme che convive con le regole del mercato. Che ci riconsegna il tempo di lotte e sollevazioni nella condivisione simbolica, cromatica e persino onirica che potremmo considerare rivoluzionaria;  e il tempo del consolidamento e del miglioramento dei risultati di quelle lotte che per tutto il ‘900 si è chiamato il tempo del riformismo.

A differenza dei rivoluzionari del “tanto peggio, tanto meglio”, i rivoluzionari del “piutost che nient, l’è mei piutost” hanno tenuto vivi i valori di un’etica sociale che invece la cultura provocatoria del “faremo come in Russia” alla fine – dopo scontri durissimi, dopo conflitti ideologici senza quartiere – ha sepolto sotto il grigiore burocratico e autoritario del finto socialismo anche la fine di quei valori.

Il tema “propaganda e comunicazione”.

Lo schematismo di attribuire nettamente la propaganda ai movimenti e ai regimi autoritari e la comunicazione alla democrazia si è rivelato venato da ipocrisia.

Nei sistemi democratici la cultura della propaganda non solo non è mai morta ma si è raffinata nella trasformazione tecnologica fino a generare una delle più potenti storie di “falsificazione” informativa, quella dell’epoca delle fake news senza limiti.

Così che la prosecuzione per molti anni, nel quadro di una consolidata democrazia, della funzione di “propaganda” negli stessi partiti della sinistra è stato evidente segnale che si intendeva celebrare la legittimità del posizionamento informativo fazioso.

Fino a quando attorno a quella parola “propaganda” si venivano mescolando in modo spesso ambiguo e dunque manipolatorio pratiche di destra e di sinistra, esperienze di rivendicazione ed esperienze di falsificazione, principi elitari e principi partecipativi. Insomma un groviglio di equivoci che hanno reso alla fine la parola “propaganda” non più esprimibile liberalmente come una funzione adeguata e legittima per una forza politica.  Anche se poi magari ancora praticata nella sostanza, ovvero da intendersi all’interno della dura lotta elettorale come una componente del machiavellico (e dunque nobilitato) “fine che giustifica i mezzi”.

Con queste parole noi guardiamo oggi alla differenza storica dell‘uso dell’espressione propaganda.
Ma non può consolarci l’idea di purificare e santificare la parola “comunicazione”. Anch’essa ha subito contaminazioni e distorsioni – tanto nel sistema politico, quando nei sistemi aziendali e commerciali – percorrendo tanto strade di positiva pratica di spiegazione e di accompagnamento sociale, quando strade di più opache esperienze di suggestione, di confusione tra il vero e il falso e soprattutto di sottrazione di dati e di informazioni pertinenti allo scopo di abbassare la soglia di un uso critico dell’informazione stessa.

Tutto ciò lo diciamo adesso, a valle di più di trent’anni di corsi di laurea introdotti anche in Italia nel campo della comunicazione e delle comunicazioni. Con anni di studi comparativi. E con la crescita (non impetuosa, ma costante) di un più attento sguardo critico ai processi comunicativi. 

Quindi guardiamo ora – con la benevolenza di un inventario che riflette l’uso di segni e parole prodotte in epoche meno levigate dal punto di vista teorico e metodologico in questi campi – a periodi pur non lontanissimi che avevano tuttavia percezione di problemi diversi da quelli che oggi possono essere messi in evidenza.  

Ma si tratta di epoche anche che contenevano una loro verità di sintesi nelle raffigurazioni, nel processo di identificazione di vittime e di eroi, di buoni e cattivi, di rischi e di opportunità.

L’inventario della grafica e dell’illustrazione popolare che esprime la cultura socialista – e in generale quella di forze, partiti e movimenti nettamente ispirati al metodo del riformismo – è non integralmente ma ampiamente più al riparo dagli aspetti più caduchi di queste attitudini manipolatorie, perché prevale un afflato di principi emancipatori – che riguardano uomini e donne, lavoratori urbani e rurali, nord e sud, persino poveri e meno poveri – in cui la connotazione, in senso ampio, riformatrice riconduce una parte delle energie conflittuali ad individuare battaglie realistiche, non per questo meno dure, con risultati prevedibili e misurabili.

Da questo punto di vista gli anni del primo centrosinistra (anni ’60) sono, a questo riguardo, mirabili per la capacità di dare sempre forma sintetica alla complessità e a volte anche alla tecnicità di certe battaglie. Che poi hanno significato una scuola migliore e più allungata, una sanità riformata per tutti, una condizione del lavoro più tutelata. Eccetera. Insomma si può dire in sintesi che la rappresentazione del riformismo abbia ridotto, nell’esperienza europea, l’alterazione velleitaria e la finalità manipolatoria della comunicazione politica.

Gli anni di transizione alla modernità

Dopo la metà degli anni ’70 – a cui si riferisce l’esperienza attiva, creativa e gestionale di Angelo – che per le vicende del Partito Socialista Italiano sono anche semplificati come “gli anni di Craxi”, nell’inventario della rappresentazione comunicativa non sono in campo solo istanze valoriali, appelli di lotta, individuazione di battaglie sociali e in senso ampio “comunicazione di appartenenza”. Perché si esprimono anche, nel bisogno di far crescere nuove forme e nuovi canali di comunicazione, tre sostanziali novità:

  • il disegno di una mutazione della descrizione della geografia politica italiana ed europea – anzi in cui quella europea traina una revisione di quella italiana – in cui il soggetto del socialismo riformatore si profila e si narra con una sua costante centralità; ovvero a un lato con  protagonismo, dall’altro lato con  la posizione di  costante conflittualità ideologica a sinistra con i comunisti e di esplicita conflittualità politica a destra con i democristiani;
  • il processo di leaderizzazione della politica, che anticipa in forme assai meno dirompenti, ma comunicativamente già forti, un fenomeno ormai diffuso a partire dalla cosiddetta “seconda Repubblica”, in cui la guida di Bettino Craxi influenza questa narrazione ma anche questa narrazione influenza i comportamenti del gruppo dirigente della politica;
  • la prima tendenza di collocare in modo non strumentale la narrativa politica (volti, colori, eventi, radici, formazioni delle leadership, collateralismi, eccetera) allargando l’idea di identità nazionale in chiave europea.

Sono tre argomenti su cui scorrono fiumi di inchiostro e su cui il mercato della notizia somma commenti, satira, gossip, fotografie, titoli.  

Ma anche su cui una linea di rinnovamento grafico-visuale assume connotati di modernizzazione che non hanno la stessa raffinatezza (propria di un posizionamento alto e minoritario) dei repubblicani, ma richiamano sempre l’esperienza di razionalità e chiarezza in voga da anni nelle scuole di identità visuale italiane (a cominciare dalla Scuola di grafica dell’Umanitaria di Milano) e che hanno soprattutto una loro cifra di distinzione rispetto alla grafica e alla visualità popolarizzante sia dei comunisti che dei democristiani.

Il risultato politico della parallela responsabilità per quattro anni (1983-1987) delle due massime istituzioni politiche del Paese, il Quirinale e Palazzo Chigi, guidate da Sandro Pertini e da Bettino Craxi, socialisti di lungo corso, il secondo per altro figlio di un esponente della stessa generazione e della stessa epica resistenziale del Capo dello Stato, offrono alla narrazione sulla nuova “centralità” un argomento dirompente che non a caso loro stessi stemperano con un saggio riequilibrio di distinzioni e precisazioni che non tradiscono mai la fedeltà delle appartenenze ma evitano accuratamente la sovrapposizione di una valenza che nella democrazia rappresentativa italiana cresce ma senza ribaltare ancora a fondo il concetto di “bipartitismo imperfetto” che il politologo Giorgio Galli aveva disegnato a proposito dell’Italia nello spirito di veder crescere quell’imperfezione.


[1] Professore di Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM di Milano, già dirigente della Rai, direttore generale dell’Istituto Luce e direttore generale dell’Informazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore nel 2009 del libro di ricerca Una voce poco fa. Politica media e comunicazione nella vicenda del Partito Socialista italiano dal 1976 al 1994 (Marsilio).

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