

Lontani da quella ipocrisia. Rispettare la memoria della propria Patria è un alto sentimento, per nulla gettato alle ortiche dall’Occidente, ma che è trattato con pudore, misura, e immenso ritegno a utilizzare quella memoria per coprire anche le proprie nefandezze.
Testo scritto in esclusiva per questo blog il 9.5.2022
Il lungo tratto di storia della desovietizzazione, quello dalla cancellazione della bandiera rossa, dei simboli di falce e martello, del ritratto devozionale di Lenin, che Vladimir Putin ha utilizzato nella sua vita per togliersi la divisa di tenente colonnello del KGB e, nella scia della pseudo rivoluzione democratica di Elstsin, per scalare il potere di un nuovo Stato, di una nuova bandiera, di un diverso ma relativamente nuovo apparato di potere, d’un tratto – nella giornata annunciata come data storica dell’identità russa – sparisce dalla retorica ufficiale.
Gli ufficiali e i soldati dell’antica Armata Rossa tornano a essere chiamati “compagni”.
E la parola “compagni” torna nel discorso (accompagnato dall’aggettivo “cari”) quando si riavvia la narrativa dopo un tema esaurito.
Ma qui – nel discorso del presidente della Federazione Russa a migliaia di soldati radunati da ogni latitudine nazionale – l’unico tema della celebrazione non si esaurisce mai.
Si comincia dalla “patria” e si finisce con la “patria”.
Avvolgendo tanto la memoria quanto le allusioni nell’autocelebrazione di una storia continua a difesa dei sacri interessi. Da Borodino a Stalingrado, da Kiev a Minsk. Citando ogni luogo di famose battaglie, ogni baionetta sguainata, ogni carro armato sospinto, ogni sangue versato.
Avvolgere tuttavia questa attuale guerra – che resta per la maggioranza del mondo “ingiustificata e di invasione” – dentro quel sacro lenzuolo non è la suprema condivisione di un sentimento. Appare come il nascondersi dietro una monumentale ipocrisia per vendere un prodotto religioso al posto di una mercificazione paranoica.
In un solo passaggio cambia la sintassi. Quando lo sguardo lascia per un attimo la catena patriottica eroica e sanguinante (in cui c’è dentro la resistenza antinapoleonica e antitedesca con la continuità dell’ardore antinazista che consente di includere la coventrizzazione dell’Ucraina (mai citata) come ragione di una identica legittimità della storia, per cercare il “vero” nemico.
L’Occidente e l’America come “degrado morale”
Non i fratelli ucraini, che sono carne della nostra carne (tra le città martiri della storia russa arrivano anche quelle che oggi Putin bombarda), ma naturalmente l’orrenda America che torna ad essere spirito di Satana. Non solo come fomentatrice dell’unico assedio di cui parla Putin – quell’Occidente ai danni dalla Madre Russia – ma come involgarita, egocentrica, immorale terra senza onore. Che non ascolta, non dà retta, non si degna di valutare alla pari la preoccupata lamentazione di un governo saggio ed equilibrato che vede crescere l’aggressione solo perché quell’aggressione è parte di un piano prestabilito e segreto (“i Paesi della NATO non volevano ascoltarci, il che significa che in realtà avevano piani completamente diversi”).
Il brano è il seguente:
«Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno curato solo la loro esclusività, umiliando così non solo tutto il mondo ma anche i propri Paesi satelliti che sono costretti a far finta di non accorgersi di nulla e a inghiottire tutto questo docilmente. Ma noi siamo un Paese diverso. La Russia ha un altro carattere. Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, alle usanze degli antenati, al rispetto verso tutti i popoli e le culture. Mentre in Occidente, a quanto pare, hanno deciso di abolire questi valori millenari. Un degrado morale diventato la base di ciniche falsificazioni della storia della Seconda guerra mondiale, della fomentazione della russofobia, dell’esaltazione dei traditori, arrivando a cancellare il coraggio di coloro che ottennero tra le sofferenze la Vittoria».
In questo brano, non solo l’Occidente (America in testa) è degno di ogni sprezzo per il rifiuto di riconoscere “valori millenari; ma si esprime il rammarico di un “gentiluomo” (parliamo sempre di un ex ufficiale del KGB sovietico, eh!) sfoderato senza pensare che delle due l’una: o l’America è in preda a una cinica involuzione entropica o è la testa di un feroce attacco imperialistico al mondo. In ogni caso una polemica tra Stati in cui il fattore più rilevante appare il rinfacciare “tu non mi vuoi più bene” è la misura stessa della dinamica paranoica di questo discorso e di chi lo ha pronunciato.
Insomma la benzina ai carri armati che hanno invaso l’Ucraina, ai missili che hanno distrutto le case, gli ospedali e le scuole dei “fratelli” ucraini uniti al popolo russo nel respingere l’invasione nazista (“oggi la milizia del Donbass, insieme ai combattenti dell’esercito russo, sta combattendo nella propria terra”), sarebbe stata fornita dal dispiacere, anzi dallo sgomento, di non vedere più gli americani attribuire alla Russia il giusto merito nell’aver perseguito insieme, 70 anni fa, lo scopo di sconfiggere il Terzo Reich e i suoi alleati. Stupefacente.
Vi è chi mette in campo altri sguardi
Ci saranno psicoanalisti che lavoreranno meglio di chi scrive su questo passaggio.
Non avrei mai potuto immaginare il presidente Ciampi, mentre restituiva l’onore ai militari resistenti italiani nei Balcani, per giunta cosciente delle gesta orribili di altri militari italiani al comando del generale Graziani contro i croati di cui la cattedrale di Zagabria reca perenne memoria, protestare con i Vincitori per non avere invitato De Gasperi a Yalta. E lo stile di Ciampi in Grecia come lo stile di De Gasperi a Ginevra, ci ricordano che rispettare la memoria della propria Patria è un alto sentimento, per nulla gettato alle ortiche dall’Occidente, ma trattato con pudore, misura, immenso ritegno a utilizzare quella memoria per coprire nefandezze. Che tutti gli eserciti fomentati dispoticamente hanno fatto. Anche gli italiani. Pagandone però, prima o poi, il prezzo.
È programmata per la sera del 9 una intervista nel corso della prima serata della 7 con la nipote di Kruscev, anche lei si chiama Nina (come si chiamava la moglie del leader sovietico della destalinizzazione) è politologa e sta in Georgia. Propende per una idea del percorso personale di Putin in cui il senso del destino appare a lui stesso più importante del senso della politica. E, nelle pur brevi battute di queste interviste televisive, per due volte pronuncia la parola “folle”, nel senso di come può apparire ciò a noi, a chi conosce poco le cose russe. Non sembra condividere pienamente, mantiene riserve “da studiosa”, ma non sembra aderire nemmeno all’idea di un Putin pazzo.
Una parte dello studio italiano (da Antonio Scurati a Lucio Caracciolo) sembra disponibile a mitigare il furore contro l’invasore, mentre qualcuno racconta che anche Macron riesce a parlare spesso con il leder del Cremlino e va ripetendo che per arrivare a negoziati bisogna trovare il modo di ”non umiliare Putin”.
Sono personalmente stra-favorevole ad un qualunque negoziato di pace, ma i miei pensieri e le mie parole non influenzano nemmeno un’ombra lontana di questa prospettiva. Perciò a fronte delle determinazioni che hanno condotto chi “si lascia la politica dietro le spalle perché vive ormai solo nella luce della storia” (qualcosa che si sarebbe adattato a Garibaldi a Caprera) non riesco a lasciare da parte la sconclusionata, crudele, sanguinosa strategia militare adottata da Putin in Ucraina. E quindi rimetto le lancette del mio orologio sulla stupefazione negativa circa il discorso del 9 maggio che ha componenti intimamente connesse al discorso del 24 febbraio. Per i nostri esperti di geopolitica – in questo caso intendo l’ISPI di Milano – basterebbe fermarsi al giudizio di mediocrità dell’evento: “molta retorica e nessun annuncio”. Detto meglio: “Poco o nulla di nuovo si è registrato nell’intervento che sembrava finalizzato a proiettare incertezza negli interlocutori sulle prossime mosse del Cremlino”. Mentre il Corriere segnala che il fronte degli esperti moscoviti – quelli con buone aderenze di sistema – non è univoco. Eughenij Minchenko (Centro ricerche sulle élite dell’Università delle relazioni internazionali di Mosca), intervistato da Marco Imarisio, dice: “I discendenti dei soldati di allora (russi e ucraini mescolati, n.d.r.) si stanno ammazzando tra loro e tutti fingono che sia una circostanza normale. Davvero non so come si possa spiegare tutto questo”.
L’altra faccia della medaglia
La stampa occidentale, più in generale, non sta commentando negativamente il discorso di Vladimir Putin, durato 11 minuti dal palco allestito sulla Piazza Rossa a Mosca, nel contesto (insopportabile) degli “hurrah” militarmente organizzati per gli 11 mila soldati che sfilano per scandire devozione e consenso.
Ho sotto gli occhi i nostri quotidiani nei resoconti del pomeriggio. Corriere, Repubblica, Sole 24 ore. Il tema è quello di valutare non tanto le cose dette – scontando tutti l’imbonimento – quanto le cose “non dette”. Putin non ha dichiarato “guerre totali”, non ha fatto cenni ad escalation, non ha mostrato i muscoli sulle zone conquistate nel sud-est dell’Ucraina e non ha alzato veli oscuranti sulle zone abbandonate dopo le incursioni al cuore del Paese. Non ha, come detto, mai neppure citato l’Ucraina. Ha parlato solo (come fosse il generale Zukov il capo dell’Armata Rossa che guidò i sovietici alla resa dei nazisti) di “Vittoria!”.
I più parlano di discorso politicamente prudente, di tattica del ripiegamento nei valori (autogiustificativi) della storia. Sarà. E se viene scritto ciò ha il suo rilievo.
Ma il peso della cornice propagandistica, che era già montante da giorni, con oggi entra in una sorta di aspetto strutturale. Tanto che cominciano anche a lievitare i discorsi sulla “guerra lunga e lenta”.
La controprova viene nel pomeriggio dalle immagini che in particolare la “maratona della 7” (Enrico Mentana) mette a disposizione grazie al lavoro difficile ed efficacissimo che Luca Steimann sta svolgendo come inviato nelle aree militari presidiate dai russi. Quindi nel sud-est occupato, conquistato e oggi ripulito da molti segni di guerra efferata per celebrare con le bandiere della Russia repubblicana attuale e persino con le bandiere sovietiche del comunismo anti-nazista, la giornata lanciata dal Cremlino come metafora del senso prolungato e continuato della difesa russa della sua identità.
Ogni centro, grande, medio, piccolo del Donbass appare come festa di popolo, reduci e bambini, soldati e famiglie, a deporre fiori ai monumenti ai caduti e soprattutto ai monumenti della memoria del 9 maggio.
Gli “hurrah” qui non sono coro militare ma la diretta fotografica e televisiva di una capacità russa di riportare la martoriata Ucraina al pax russa, intesa come “pax romana” (dura lex sed lex).
Anche per la vistosità metaforica di queste immagini, esprimo rispetto per le analisi dei corrispondenti e traggo auspici per un ammorbidimento della stretta assediante. Mantenendo però – si consenta – i fondati sospetti sulle prospettive perché più che fondati appaiono i segni minuziosamente predisposti della sceneggiatura comunicativa del passaggio di fase, una volta acquisito che Mosca non può mangiarsi l’Ucraina come un boccone.