Valerio Onida – I sessanta anni della Costituzione repubblicana (1948-2008) – Lezione magistrale, La Sapienza Roma 2008.

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Testo pubblicato da:

NOMOS – Le attualità nel diritto

Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale [2]

Introduzione di Fulco Lanchester

A nome della Facoltà porgo il benvenuto al pubblico che partecipa alla lectio magistrale per l’inaugurazione dell’anno accademico del Master in Istituzioni parlamentari europee e storia costituzionale.

Negli ultimi tre anni si sono successi al leggio: prima l’allora Senatore a vita Giorgio Napolitano (Le Assemblee parlamentari a 60 anni dall´assemblea costituente), poi divenuto Presidente della Repubblica; quindi il Presidente della I Commissione Affari costituzionali Luciano Violante (La funzione di coordinamento del Parlamento italiano), che ritornava in Facoltà dopo dieci anni; oggi il prof. Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che parlerà invece su I sessanta anni della Costituzione repubblicana (1948-2008).

Il tema è attuale e rischia di essere un epitaffio di pensionamento, mentre il relatore è un costituzionalista che ha speso tutta la sua vita all’inveramento dei valori costituzionali.

C’è quindi solo da ascoltare. Vorrei però premettere poche parole per esprimere la mia gratitudine nei confronti di Valerio Onida che ha accettato la mia richiesta.

Quando ho conosciuto Valerio, mi ero appena laureato a Pavia e si era nel periodo delle celebrazioni del 30° Anniversario della Liberazione e dell’Assemblea costituente.

Valerio Onida aveva vinto il concorso per la prima cattedra di diritto parlamentare nel 1970/71 (gli altri della terna erano Giuliano Amato e Silvano Tosi) ed era stato chiamato per lo straordinariato a Sassari e poi si era trasferito a Pavia (quindi nel 1974/75). Fucino e allievo di Tosato e poi di Biscaretti (come Franco Bassanini), Onida era arrivato a Pavia nella Facoltà di Giurisprudenza sostituendo Serio Galeotti.

I temi che aveva trattato durante gli anni Sessanta erano di ampio respiro. Fondamentale la sua prima ponderosa monografia su Le leggi di spesa nella Costituzione (1963), che ne faceva (lo dico ovviamente scherzando) un emulo di Paul Laband, che con il suo Budgetrecht aveva fondato la scuola di diritto pubblico tedesco, e poi il successivo volume su Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi (1967).

Ma quello che mi aveva impressionato di questo professore magro, che viaggiava sull’autobus Milano – Pavia (il successore del gamba de legn) e che era provvisto di una famiglia numerosissima, era il suo severo metodo giuridico attento al documento storico oltre che all’attualità costituzionale.

Nel 1975 Onida era stato coinvolto nella serie di conferenze che diedero vita alla pubblicazione di Italia: 1945-1975: fascismo antifascismo, Resistenza, rinnovamento (Milano, Feltrinelli, 1975), dove con altri aveva approfondito la stagione di riflessione sulla carta costituzionale a 30 anni dalla Liberazione. In quel periodo, già all’inizio degli anni Settanta, il gruppo che poi fonderà Quaderni costituzionali (ricordo in questo proprio Enzo Cheli, che oggi insegna in questa Facoltà) era impegnato nella analisi della recente vicenda costituzionale italiana, verificando l’attuazione della carta costituzionale, i suoi sviluppi e le sue possibili modifiche. Si stava aprendo la fase degli studi promossi dalla Regione Toscana, che vennero pubblicati dal Mulino tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ma anche la riflessione sulle riforme istituzionali che caratterizzerà il quindicennio successivo (ricordo per questo di Giuliano Amato, Economia, politica e istituzioni in Italia del 1976 e Una repubblica da riformare: il dibattito sulle istituzioni in Italia dal 1975 a oggi del 1980).

In questo ambito Valerio Onida ha fornito il suo contributo allo studio della Costituzione come atto normativo e da interpretare con metodo giuridico, inserendolo nel determinato contesto in cui era nato e valutandolo anche alla luce della concreta prassi con alcune pubblicazioni, che ho letto e consultato nelle mie biblioteche lungo l’asse ferroviario PaviaMilano-Firenze-Roma, con qualche scalo al Mulino di Bologna.

Tra le tante collegate ai temi del master e di questa lezione magistrale ricordo in particolare la preziosa raccolta di documenti a sua cura su L’ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all’avvento della Costituzione repubblicana, testi e documenti, Bologna, Cooperativa libraria universitaria editrice,1976; oppure i due volumi di Materiali per lo studio del diritto e della prassi costituzionali del 1984 (il primo su gli organi; il secondo sulle attività) pubblicati con due suoi allievi (Antonio D´Andrea, Giovanni Guiglia) nel 1984.

Quel metodo e quell’impegno Valerio Onida lo ha coerentemente portato avanti sia come docente sia come giudice costituzionale sia, infine, come Presidente della Consulta.

Egli ha tenuto ferma la bussola anche nelle temperie della stessa crisi di regime degli anni Novanta, che prima ha scosso l’albero della Costituzione, suggerendone innovazioni profonde, ma anche mettendo in gioco il suo equilibrio.

Il suo volumetto sulla La Costituzione. La legge fondamentale della Repubblica (la cui prima edizione è del 2004) è rappresentativo dello sforzo di considerare attuali “le idee di fondo che costituiscono il patrimonio costituzionale” e di non considerare anziana e pensionabile la stessa.

La scomparsa dei soggetti politici individuali e collettivi che avevano dato vita alla Costituzione aveva già posto problemi negli anni Novanta.

Oggi il modificarsi veloce del panorama politico-partitico nell’ambito di un contesto europeo e internazionale post-1989 pone problemi di tenuta di alcune scelte e di alcune interpretazioni che per molti anni abbiamo ritenuto non controvertibili.

Il rapporto tra Costituzione materiale e Costituzione formale (categorie che nonostante le cautele di Livio Paladin e dello stesso Onida alcuni di noi persistono ad utilizzare nell’ambito della lezione mortatiana) impone di verificare il grado di elasticità del testo costituzionale vigente ed i pericoli di rottura dello stesso.

Nel 2006 il Corpo elettorale è sembrato più equilibrato del suo ceto politico.

Dalla lezione di oggi speriamo che la lampada di Valerio Onida ci dia i lumi necessari per i passi futuri

Lezione magistrale di Valerio Onida

La Costituzione Italiana a sessanta anni dalla Assemblea costituente

L’argomento del sessantesimo della Costituzione invita, naturalmente, ad una riflessione sulle radici e sull’attualità, cioè il passato, il presente, il futuro.

Partendo proprio dalle radici è mia intenzione leggere un passo non mio, ma di un costituente – Giuseppe Dossetti –, canonista di professione, che fu uno dei più grandi artefici dell’opera dell’Assemblea costituente. Giuseppe Dossetti, in una celebre relazione pronunciata il 16 settembre 1994 all’Abbazia di “Monte Relio”, vicino Bologna, conduce una riflessione sul tema delle radici della Costituzione.

Di questa riflessione io vorrei leggere un passo iniziale, abbastanza breve ma molto significativo poiché esprime, come meglio non si potrebbe, ciò che anch’io penso della Costituzione e delle sue radici.

Qual è – diceva Dossetti della Costituzione – la sua radice più profonda? Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi rivolti al passato; altri pensano che essa nasca da una ideologia antifascista, di fatto coltivata da certe minoranze che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del Fascismo. Altri ancora, come non pochi dei suoi attuali sostenitori, si richiamano alla Resistenza, con cui l’Italia può aver ritrovato il suo onore ed in certo modo si è omologata a una certa cultura internazionale. E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata, come, e più di altre pochissime Costituzioni, da un grande fatto globale, cioè i sei anni della Seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente nella storia del XX sec. va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive, e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o anche solo che nasca oggi può e potrà accantonare, o potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia, e con qualunque animo lo scruti”.

Ecco, mi sembrano parole che esprimono perfettamente la realtà delle radici costituzionali; oggi proprio perché sono passati sessanta anni io credo che noi siamo in grado di vedere queste radici, forse più chiaramente, più liberi da condizionamenti contingenti di quanto non fossero altri in epoca passata.

Perché la Seconda guerra mondiale è in realtà un evento che non solo ha sconvolto e rinnovato il Mondo sotto tantissimi profili, evidentemente, ma che anche dal punto di vista del costituzionalismo segna una tappa fondamentale. Ed io vorrei qui fermarmi, brevemente, su due aspetti di questo cambiamento, di questa novità profonda – in tanti sensi – rappresentata da quella svolta storica sul terreno del costituzionalismo. Il primo è quello che chiamerei la definitiva internazionalizzazione dei principi base del costituzionalismo.

La seconda è l’affermazione definitiva, ancora una volta, del principio della garanzia costituzionale, cioè la trasformazione della Costituzione da documento prevalentemente politico a strumento giuridico a pieno titolo.

In relazione al primo aspetto, tutti sappiamo che il costituzionalismo nasce da una ispirazione ed una tensione di carattere universalistico; basti pensare all’incipit della celebre Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776, che così recita:

riteniamo che vi siano delle verità incontrovertibili e di per sé evidenti, che fra queste siano, che tutti gli uomini sono stati creati uguali e sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che per assicurare il godimento di questi diritti gli uomini hanno stabilito tra loro dei Governi di cui la giusta autorità emana dal consenso dei governati”.

Questo famosissimo incipit dei costituenti americani fornisce chiaramente una impronta a questa ispirazione universalistica.

E del resto, anche l’altro famoso documento, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che sarà parte della Rivoluzione francese – come ricordate – proclama i diritti dell’uomo prima che del cittadino. Dunque, l’ispirazione non è diversa.

Ma in realtà, noi sappiamo che lo sviluppo del costituzionalismo, per lungo tempo, è avvenuto, invece, in ambienti ed in ordinamenti giuridici a carattere essenzialmente nazionale; il diritto costituzionale è nato come il diritto delle Costituzioni nazionali, è stato coltivato dai costituzionalisti nell’ambito delle singole esperienze nazionali, ed inoltre possiamo ritenere che vi sia un nesso storico fra Costituzione e Nazione, fra Stati costituiti su base nazionale e Costituzioni.

Mentre il diritto internazionale, cioè il diritto della Comunità Internazionale e dei rapporti fra gli Stati, si è basato per altrettanto lungo tempo – anche dopo l’avvento del costituzionalismo – su principi che non sono altri, ma profondamente diversi.

Possiamo dire che i principi classici del diritto internazionale siano, in essenza, la sovranità, la pari sovranità di tutti gli Stati, che vuol dire piena indipendenza dei poteri di ciascuno Stato nei confronti degli altri, parità degli Stati fra di loro (es. art. 11 cost. Italiana).

Fra gli Stati, quindi, che sono pari in questa Comunità sovraordinata vi possono essere, o vi sono, rapporti di tipo contrattuale; infatti, la grande regola di fondo (la Grundnorm) del diritto internazionale classico era pacta sunt servanda. E poi, siccome fra gli uomini l’accordo permane finché vi è una volontà in tal senso, si possono palesare anche i momenti del conflitto e della controversia, e dunque la guerra diviene unico strumento alternativo per la risoluzione dei conflitti.

Nel diritto internazionale classico, lo strumento alternativo per risolvere i conflitti – laddove il pacta sunt servanda non bastava, o si riteneva che vi fossero delle violazioni dello stesso – era rappresentato dalla guerra; quindi la forza e non il diritto si poneva alla base del diritto internazionale nel momento del conflitto. Ecco, noi oggi possiamo aggiungere – anche se non è un principio del diritto internazionale ma è una realtà della politica internazionale nell’epoca del primo costituzionalismo, quindi del Settecento, dell’Ottocento e della prima metà del Novecento – le politiche coloniali, cioè l’auto assunzione da parte di quelle che allora si chiamavano le “Grandi Potenze”, soggetti della Comunità Internazionale in posizione particolare per sviluppo economico e militare, quasi di un diritto, o meglio di un potere di avere delle colonie, ossia di esercitare su altri popoli e terre un potere di sovranità non più legato alla Nazione, ma legato, invece, alla politica di espansione coloniale, sancendo di fatto una supremazia di alcuni popoli su altri popoli.

Questi, in estrema sintesi, sono i principi del diritto internazionale classico, ossia quello che, appunto, è stato tutto il diritto internazionale fino alla Seconda guerra mondiale, perché la Prima guerra mondiale è ancora guerra di Nazioni, ed anzi, per molti versi, è una guerra per le Nazioni, cioè per dare espressione statale alle Nazioni. In Italia, da sempre, nella retorica ufficiale ma anche nella realtà degli storici, la guerra è stata vista come il compimento del processo risorgimentale di unificazione nazionale.

  • La prima guerra, quindi, indipendentemente dalle ragioni specifiche, dai suoi svolgimenti e dai suoi esiti, è ancora una guerra di Nazioni, fra Nazioni, per le Nazioni.
  • La seconda guerra è un’altra cosa, perché vede, in realtà, un confronto che non è più fra Nazioni, ma piuttosto fra regimi che avevano posto alla loro base i principi del costituzionalismo e regimi che non solo praticamente si opponevano, si contrapponevano, ma che postulavano sul piano teorico ed ideologico il rifiuto di quei principi (tutto nello Stato e nulla al di fuori dello Stato, poiché non è lo Stato che serve alle persone ma sono le persone che debbono mettersi al servizio dello Stato; la disuguaglianza e non l’eguaglianza, poiché ci sono delle disuguaglianze in natura secondo queste ideologie, ideali ecc.; autorità e non consenso, come principio fondante dei Governi).
  • La seconda guerra vede il confronto fra questi regimi ed i regimi che, invece, si ispiravano – sia pure poi con tutte le contraddizioni pratiche, tra cui le politiche coloniali di cui abbiamo parlato – ai principi del costituzionalismo.

Quindi la guerra è l’evento finale in cui si giocano le sorti del costituzionalismo, che ne esce vittorioso.

L’atto di nascita del costituzionalismo del Novecento contemporaneo, il nostro costituzionalismo, io lo fisserei in un celebre discorso del Presidente degli Usa, Roosevelt – discorso noto come delle “quattro libertà” – indirizzato al Congresso statunitense il 7 gennaio 1941.

Il discorso è molto significativo, poiché – anche se gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, lo faranno solo nel 1942 – denota come gli Usa fossero sempre più consapevoli del loro coinvolgimento in questo evento storico-mondiale che si era scatenato.

E quindi il discorso è ricco di esortazioni ai cittadini, alla Nazione cui si rivolgeva, perché la Nazione americana non si chiudesse in sé stessa, dietro – diceva Roosevelt – “muraglie cinesi” (isolazionismo), ma aiutasse i popoli e gli Stati che avevano regimi comuni, caratterizzati dai medesimi principi, anche con le armi.

Era un invito a prepararsi ad entrare eventualmente in guerra ed a fornire aiuto, anche producendo armi, armamenti.

Accanto a questo invito pratico, in quel discorso c’era una fortissima affermazione proprio dell’ideale universalistico del costituzionalismo, delle libertà e dei diritti.

Leggo un passo:

come gli uomini non vivono di solo pane, essi non combattono solo con le armi, coloro che conducono le nostre difese e coloro che alle loro spalle costruiscono le nostre difese, devono avere la forza ed il coraggio che proviene dalla fede incrollabile nel modo di vivere che stiamo difendendo. La possente azione alla quale stiamo chiamando non può e non potrà basarsi su un disprezzo per tutte le cose per le quali vale la pena di combattere”.

Ciò che di nuovo e di caratteristico vi è in questo discorso, è la convinzione che vi sia e vi debba essere un futuro dell’umanità costruito su principi – quelli del costituzionalismo – che valgono e debbono valere per tutti. Ancora Roosevelt che parla:

nei giorni futuri che noi cerchiamo di assicurare, noi guardiamo ad un Mondo fondato su quattro libertà: libertà di parola ed espressione; libertà di religione, intesa come libertà di adorare Dio nel modo suo proprio; libertà dal bisogno, intesa come necessità di intese economiche che assicurino ad ogni Nazione una vita pacifica e sana per i loro abitanti; libertà dalla paura, intesa come riduzione degli armamenti, in modo che nessuna Nazione sia in grado di compiere un atto di aggressione nei confronti di qualunque altra”.

Bene, queste quattro libertà sono affermate, in quel discorso, come libertà da assicurare “everywhere in the World”, ovunque nel Mondo.

Ed è questa la nota caratteristica del discorso.

Aggiungeva Roosevelt:

questa non è la visione di un lontano millennio, è la base definita per un tipo di Mondo raggiungibile nel nostro tempo e nelle nostre generazioni”.

Roosevelt è uno degli animatori principali di questa costruzione di futuro cha dà la seconda guerra. Siamo nel 1941 e dovevano ancora succedere molte cose perché finisse quel confronto.

 “Ovunque nel Mondo”, questa è la frase essenziale, la chiave di lettura di quel discorso; per la prima volta l’umanità – e non sparute minoranze intellettuali che avevano, a quel tempo, immaginato progetti di pace perpetua – ha potuto guardare al futuro sulla base di ideali universali, quali il rispetto dei diritti della persona, di pace, di prevalenza del diritto e non della forza, e quindi del diritto e delle sue ragioni sulle ragioni della forza.

Non stupisce, quindi, che quella fase storica abbia visto, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in immediata e rapida successione, rispetto ai tragici eventi della guerra, eventi come la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – la quale, per la prima volta realizza, sul piano giuridico, la comunità degli Stati, la Comunità Internazionale – e poi subito dopo la proclamazione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948), che, a sua volta, contiene ed esprime quei principi universali a cui tutti gli Stati appartenenti all’ONU si rifanno, almeno sulla carta o nelle intenzioni.

Questo è il clima culturale ed istituzionale in cui nasce anche la nostra Costituzione, ed ha ragione Dossetti, quella è la radice vera della Costituzione, non quindi – come per tanti anni si è detto – una sorta di compromesso domestico, di accordo più o meno tripartito, di accordo fra democristiani e comunisti, nelle versioni più involgarite di certa nostra storiografia. In realtà, la Costituzione è il documento che porta l’Italia nella famiglia dei sistemi costituzionali ispirati a tali principi, nell’ambiente del costituzionalismo contemporaneo a pieno titolo.

E del resto, sono qui anche le radici di quell’altro grandioso processo di livello sovranazionale che proprio in quel momento parte e pochi anni dopo comincia a realizzarsi, ossia il progetto ed il processo di integrazione dell’Europa, avviato e condotto alla sua progressiva realizzazione, nel corso degli anni Cinquanta, non da visionari, ma da statisti e forze politiche che credevano prima di tutto, come scrisse Schumann nella famosa dichiarazione del 1950, “che solo in questo modo – cioè attraverso la integrazione, la collaborazione e la creazione dell’Europa unita – si sarebbe potuto rendere non solo impensabile, ma materialmente impossibile un’altra guerra in terra europea”.

E i fatti che sono intervenuti in questi sessanta anni, ed anche negli anni più recenti, da un lato, il progressivo approfondirsi ed allargarsi dell’Europa comunitaria – che ormai è un dato di fatto nonostante ogni crisi o rallentamento del processo, in particolare dopo la fine dei muri che hanno per tanto tempo attraversato il Continente – e dall’altro lato, invece, gli eventi tragici che hanno visto il risorgere di nazionalismi aggressivi e di guerra nei Balcani, hanno segnato e segnano tutt’ora la conferma storica più piena di quelle intuizioni, di quella fede nei principi universali del costituzionalismo.

Ed io credo che sia necessario, oggi, richiamare con forza questo poiché siamo in un tempo in cui si tende a perdere la fede, in tanti sensi.

Carattere essenziale della nostra Costituzione è questa apertura, questa ispirazione, dunque l’apertura internazionalistica; infatti, gli artt. 10-11 non sono norme qualsiasi della Costituzione, ma sono le norme che esprimono nel modo più felice – tra l’altro anche dal punto di vista redazionale – questa apertura.

È significativo che in Italia non abbiamo avuto bisogno di una “clausola europea” inserita in Costituzione per via di modifiche, di emendamento, per aderire con pienezza, sino ad oggi, ai processi di costruzione dell’Europa unitaria.

Perché noi, la nostra clausola europea l’abbiamo sempre avuta, è l’art. 11 che, infatti, non a caso fin dalle origini la giurisprudenza della Corte costituzionale – parlo del ’64 e del ’73, soprattutto – ha individuato come fonte costituzionale di legittimazione di quelle cessioni di sovranità che sono il modo giuridico attraverso cui si realizza l’integrazione europea, la quale dà luogo ai fenomeni di avvento del diritto comunitario che prevale sui livelli nazionali.

È una clausola, questa, che è nella Costituzione e che ha consentito e giustificato – senza necessità di specifiche revisioni costituzionali – la rinuncia parziale alla sovranità nazionale.

Questa rinuncia è il modo attraverso il quale l’ordinamento costituzionale italiano si inserisce in una nuova realtà sopranazionale, che richiede questo afflato ed impianto di natura universalistica. L’universalismo del nuovo diritto costituzionale, che si esprime fondamentalmente, ma non soltanto, nell’universalismo dei diritti, cioè nel riconoscimento universale degli stessi diritti a tutti gli individui (come recitano le Convenzioni in materia).

Questo universalismo si esprime anche nell’affermazione, sempre più importante, di giurisdizioni sopranazionali, ad esempio la Corte di Giustizia UE, ma anche quella Corte europea dei diritti dell’uomo che nell’ultimo decennio sta giocando un ruolo sempre più rilevante in tema di diritti.

Si badi, per decenni è potuto sembrare in Italia che noi, avendo già una bella Costituzione, non avessimo necessità di ricorrere alle Convenzioni internazionali, ad esempio, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la quale altro non è che il trattato multilaterale che cerca di dare attuazione, nell’area europea, a quei principi che sono contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti del 1948.

Da quando, però, nel 1998 è entrato in vigore nell’Europa allargata – nel Consiglio d’Europa – il Protocollo XI, aggiuntivo alla CEDU, che ha previsto il ricorso individuale e diretto di chi si ritenga leso nel suo diritto garantito dalla Convenzione dinanzi alla Corte, senza più passare attraverso gli Stati né attraverso la mediazione della Commissione – come originariamente previsto – da allora si è andata affermando in modo travolgente una giurisprudenza sui diritti che non è più nazionale, ma a carattere ed efficacia sopranazionale.

Quest’ultima non si sostituisce, peraltro, alle giurisprudenze nazionali, ma dialoga con esse, ossia adotta delle decisioni che per loro natura valgono per tutti ma non ignorano ciò che nelle singole giurisdizioni nazionali – specialmente costituzionali – viene affermato in relazione agli stessi diritti.

Per cui, nelle sentenze della Corte europea si trova sovente riferimento alle giurisprudenze delle Corti costituzionali dei Paesi membri.

L’intento è quello di dar vita a standard condivisi. Da questo punto di vista, quella riforma dell’art. 117 cost. che, effettuata nel 2001 quasi distrattamente, stabilisce per inciso che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, non fa altro che canonizzare un fenomeno che realizza proprio quegli intenti già insiti nella Costituzione, cioè il dire che vi sono dei vincoli sopranazionali – in particolare in materia di diritti, ma non solo – che hanno efficacia di imporsi rispetto a quei sovrani assoluti, come si ritenevano fino a qualche tempo fa i Parlamenti nazionali.

Quando la Carta costituzionale italiana, negli esempi delle ben note sentenze dell’Ottobre 2007, n. 103-104, ha affermato chiaramente che l’osservanza ed il rispetto della CEDU, delle sue norme e della giurisprudenza della Corte europea che su quella base si è formata e si va formando è condizione della costituzionalità delle Leggi italiane, altro non fa che consolidare e convalidare questo concetto cui ho fatto riferimento.

Si potrà, pertanto, non condividere o non trovare soddisfacenti alcune sentenze della Corte di Strasburgo, ma d’ora in avanti non potremo più rinchiuderci in forme di nazionalismo giuridico e anche di nazionalismo costituzionale, ma dovremo necessariamente concorrere al formarsi, consolidarsi ed arricchirsi di un patrimonio costituzionale e giurisprudenziale comune, di una common law costituzionale. Questa è la realtà odierna in Europa.

Il contenuto dei diritti garantiti, in tal modo, si articola, precisa ed arricchisce sempre più attraverso il dialogo fitto tra giurisdizioni nazionali – in particolare costituzionale – e sovranazionali. Del resto, è nota la tecnica con cui queste Convenzioni enunciano e definiscono i diritti; mentre la nostra Costituzione tende ad essere dettagliata (soprattutto in materia di diritti civili), le Convenzioni internazionali enunciano i diritti e, nel contempo, indicano le condizioni alle quali questi diritti possono subire limitazioni.

Così facendo istituiscono una sorta di percorso che rispecchia il seguente schema unico:

  1. La Corte valuta se siamo in presenza di una incidenza sui diritti garantiti, se cioè l’atto in discussione vada o meno ad incidere su di essi;
  2. se questa incidenza sui diritti garantiti dalla Convenzione abbia una “base legale” che, nella terminologia della Corte, vuol dire che questa ingerenza dell’autorità nel diritto garantito sia contemplata e disciplinata pienamente da norme di diritto che abbiamo sufficiente grado di chiarezza, di univocità, quindi prevedibilità, certezza di confini (ad esempio la Corte afferma che se c’è una giurisprudenza confusa o contrastante non c’è base legale sufficiente, se vi sono leggi non chiaramente univoche non c’è base legale sufficiente);
  3. la Corte valuta se quella ingerenza persegua un fine legittimo fra quelli che sono ammessi come fini che abilitano l’autorità ad intervenire sul terreno dei diritti, modificandolo o limitandolo;
  4. il passo più importante è quello nel quale la Corte valuta se una ingerenza – che si riferisca a diritti garantiti, che abbia base legale, che persegua un fine legittimo – sia però improntata a criteri di proporzionalità, che, nel linguaggio della CEDU e della Corte, vuol dire soprattutto se una misura limitativa “sia necessaria in una società democratica”, secondo l’espressione che ricorre in tutte le sentenze.

Si capisce, pertanto, come attraverso questa giurisprudenza sui diritti, in realtà, è lo stesso concetto di democrazia che viene ad essere conformato.

Quindi questa giurisprudenza non è solo relativa al contenuto dei diritti ma è una giurisprudenza che va a definire e conformare i principi fondanti di un ordinamento democratico.

La seconda grande novità è la costruzione e il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali.

Le Costituzioni dell’Ottocento erano prevalentemente – se non esclusivamente – dei documenti politici, erano importanti e venivano considerate una cosa molto rilevante dal punto di vista storico di una Nazione, ma la loro portata pratica era vista essenzialmente come quella di un documento politico.

Si pensi allo Statuto Albertino – ed alla sua parabola ben nota di cento anni – che vive come documento politico attraversato da eventi giuridico-normativi tali che portano a stravolgerlo completamente poiché privo dell’efficacia e portata di un documento giuridico.

Queste Costituzioni erano affidate, per la loro attuazione, alla politica ed alle forze che determinano la politica. Soltanto negli Usa, dopo Marbury vs. Madison del 1803, si era affermata l’idea che le Corti (cioè il potere giudiziario) come garanti della Costituzione fossero anche giudici della costituzionalità delle Leggi e quindi potessero negare applicazione ad una Legge in quanto ritenuta incostituzionale.

In Europa, invece, il mito della sovranità della Legge (o del Parlamento o del popolo) è durato di più e solo negli anni fra le due guerre ha cominciato ad affacciarsi l’idea di una giurisdizione costituzionale, cioè di una garanzia giurisdizionale, da parte di un giudice indipendente, imparziale e terzo non espressione della maggioranza politica.

Ma ancora alla fine della Seconda guerra mondiale la giustizia costituzionale era un istituto fondamentalmente estraneo al tessuto della larga parte degli ordinamenti costituzionali europei. L’Assemblea costituente italiana, in questo campo, è stata realmente anticipatrice, poiché per prima fra le Costituzioni del dopoguerra ha previsto la giurisdizione costituzionale (la Germania arriverà solo dopo con la Costituzione di Bonn del 1949).

Così che non meraviglia affatto che da alcune parti, nella stessa Assemblea costituente, la previsione di una Corte costituzionale indipendente dal Parlamento ed abilitata a sindacare, ed eventualmente annullare, atti derivanti dalla volontà del Parlamento, sia stata considerata come una anomalia, una bizzarria. Oggi possiamo apprezzare in pieno la visione presbite dei nostri costituenti, che sessanta anni fa intuirono che questa fosse una chiave importante verso la realizzazione di un ordinamento realmente aderente ai principi del costituzionalismo. In seguito, la GG tedesca del 1949 ha ripreso l’idea della Corte costituzionale, perfezionandola mediante la previsione di un ricorso individuale e diretto, a tutela dei diritti fondamentali, che noi non abbiamo.

E poi si è avuta la diffusione in Europa del fenomeno della giustizia costituzionale.

La Francia del 1958 ha creato un organismo che non parve subito una Corte costituzionale, bensì un organismo di regolazione di rapporti fra Parlamento e Governo, ma che lo divenne a partire almeno dal 1971, quando lo stesso Conseil Constitutionnel ha affermato che il proprio controllo sulle Leggi si poteva esercitare non solo sulla base delle norme che disciplinano i rapporti fra Parlamento e Governo (distribuendone i compiti), ma sulla base del cd. “blocco di costituzionalità”, cioè di tutte le norme di valore costituzionale che sono vincolanti per il Legislatore ordinario, individuando, fra queste, per prima la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789; per cui voi oggi trovate decisioni del Conseil Constitutionnel che dichiarano l’incostituzionalità di una Legge perché violativa della Dichiarazione del 1789.

E poi vi è stato il Preambolo alla Costituzione del 1946 (IV Repubblica), che riconfermava ed arricchiva il catalogo dei diritti, riferendosi a quelli economici e sociali.

Questo Preambolo non è affatto caduto con la caduta della IV Repubblica e conserva ancora oggi valore costituzionale, in quanto il Preambolo della Costituzione vigente (1958, V Repubblica) afferma la fedeltà della Francia ai principi sanciti nella Dichiarazione del 1789 e nel Preambolo del 1946, oltre ai principi del diritto pubblico francese.

Quindi, anche in Francia si ravvisa una sorta di continuità per cui, in realtà, attualmente si può e si deve dire che quei principi, arricchiti nel tempo, sono principi costituzionali efficienti.

Anche la Gran Bretagna, sotto certi profili la patria del costituzionalismo, dal 1998 ha, in un certo senso una Costituzione scritta perché, dopo molti anni, non solo ha aderito e sottoscritto la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ma l’ha trasportata nel proprio ordinamento, stabilendo cioè, con lo Human Rights Act del 1998, che i giudici sono vincolati ad attuare le norme della Convenzione. Inoltre, che debbono interpretare e applicare le leggi nazionali, in conformità alla Convenzione Europea e che laddove riscontrino una incompatibilità insanabile, ovvero non risolvibile sul piano interpretativo, devono segnalare la cosa al Parlamento perché la modifichi. Loro non hanno una Corte costituzionale, ma già l’esistenza di un catalogo scritto di diritti esiste perché c’è la Convenzione europea con tutto il suo portato giurisprudenziale.

Si capisce perché – apro una brevissima parentesi – negli Stati Uniti c’è una discussione fra i giuristi sul fatto se sia lecito o non sia lecito riferirsi a ordinamenti stranieri per interpretare la costituzione americana. Ci sono giudici della Corte suprema che stabiliscono che questo è illegittimo.

Quando fu nominato l’ultimo Chief Justice, John Roberts, un anno fa o poco più, nella hearing in Senato – voi sapete che il Senato deve confermare le nomine dei giudici della Corte suprema e si fanno degli interrogatori che durano giorni – uno degli argomenti su cui vi fu insistenza da parte di alcuni senatori fu questo: ma

lei John Roberts, nominato Presidente della Corte suprema, condivide l’idea che si possa far riferimento anche al diritto straniero per decidere questioni di interpretazione della Costituzione americana?”.

Questo interesse nasceva dal fatto che vi sono recentissime decisioni – nel 2005 per esempio una decisione nel caso Ropert in cui la Corte suprema ha dichiarato non costituzionale l’applicazione della pena capitale ai minorenni – in cui uno degli argomenti usati dalla maggioranza (fu una decisione presa cinque a quattro) era proprio il fatto che gli Stati Uniti erano rimasti gli unici, con la Somalia, in tutto il Mondo ad applicare la pena di morte ai minorenni. Di fronte a queste vicende giurisprudenziali, si sono ripetute interrogazioni, e si discute – ma non entro nel dettaglio di quel dibattito anche se l’ho ricordato – perché quel dibattito segna, stranamente, nel Paese che ha inventato l’universalismo dei diritti, una sorta di chiusura di tipo nazionalistico, ovvero che il nostro diritto costituzionale è solo nostro.

Diceva un giudice, “ma noi non stiamo applicando una Costituzione tedesca o spagnola o asiatica, stiamo applicando la Costituzione americana; quindi, solo ciò che ha detto e pensa il popolo americano può valere”.

È una visione, questa, del tutto regressiva rispetto all’idea originaria e sviluppatasi del costituzionalismo che invece è universalistico per sua natura.

In Europa questo per fortuna non accade, anzi, la Costituzione più bella da questo punto di vista è la Costituzione africana del 1996, che non solo contiene un Bill of Rights dettagliatissimo che raccoglie tutti i frutti dell’elaborazione sui diritti a livello mondiale, ma dice esplicitamente che la Corte costituzionale sudafricana nell’applicare questo Bill of Rights dovrà riferirsi anche al diritto internazionale, a ciò che dicono le Corti internazionali, e potrà riferirsi anche ad esperienze di altri Paesi.

Quindi, oggi la giustizia costituzionale è un fatto ormai diffuso in Europa e ormai un fatto costitutivo del costituzionalismo europeo. Non c’è Paese dell’Est che ha rifatto la Costituzione dopo il 1989/‘90 che non abbia inserito la giustizia costituzionale. Quindi quello che appariva un’anomalia nel 1947, quando i nostri costituenti antiveggenti/presbiti lo hanno per primi inserito, oggi è diventato un luogo comune, un fatto necessario nel tessuto costituzionale ed elemento essenziale di ogni Costituzione europea.

Se non fossimo in un periodo di tempo nel quale dire di modificare la Costituzione è pericoloso perché spirano venti negativi da questo punto di vista, se non fosse così, sarebbe probabilmente oggi il momento di mettere mano ad una integrazione della nostra Costituzione. Io ci credo da tempo. Cioè alla previsione, anche per noi, di un sistema di giustizia costituzionale che includa il ricorso individuale a tutela dei diritti fondamentali. Ci sono tante difficoltà pratiche, ma l’idea di una giurisdizione costituzionale dei diritti, come c’è in Germania e in Spagna, approfittando anche delle esperienze positive e negative che loro hanno avuto, secondo me potrebbe essere un fatto del futuro.

Noi abbiamo un sistema di tutela dei diritti, ovviamente, perché abbiamo una Costituzione e una giurisprudenza costituzionale che ci dicono che non ci può essere diritto sostanziale, cioè posizione giuridica garantita dall’ordinamento, se non c’è un giudice che la garantisce. Sarebbe impensabile che esista un diritto ma non ci sia nessun giudice al quale chiederne la tutela. Quindi, il giudice ci deve essere, anche laddove il legislatore non provveda. Questa lacuna è colmata a livello costituzionale, poiché la Corte lo ha detto nella sentenza del 1999, fate voi, cercatelo voi, ma un giudice c’è, ci deve essere, non ci può non essere, per qualunque tipo di controversia, perché un diritto senza giudice non esiste.

Il nostro sistema conosce un giudice, ma io dico che l’assenza di un giudice ad hoc sul tema dei diritti fondamentali è, in fondo, un limite del nostro ordinamento, perché l’esistenza di un giudice ad hoc per i diritti consente, anzi impone, di fare emergere il punto di vista dei diritti fondamentali.

Permettetemi di fare una piccolissima digressione. Cosa vuol dire questo? Ad esempio, ne “Il Giornale” di ieri, c’è un articolo di Salvatore Scarpino che tratta di una recente pronuncia di un giudice milanese, che ha dichiarato discriminatorio il comportamento del Comune di Milano in materia di ammissione di bambini, figli di immigrati, alla scuola materna.

Questo scrittore dice: “Il comune di Milano ha emesso tempo fa una circolare con cui si escludevano i bambini degli immigrati irregolari dalle scuole materne. Lo ha fatto sulla base di leggi e regolamenti fin qui indiscussi”. Poco più avanti aggiunge che “il Comune ha agito in base alle leggi, ma pare che altre contraddicano quelle norme. Nella culla del diritto, a cavallo del cavillo, si può sostenere tutto. I cittadini sono sconcertati. Hanno la sensazione di vivere in un singolare Paese in cui le leggi si scontrano e si elidono”.

Per molti versi ha ragione questo scrittore de “Il Giornale”. Perché è vero, e noi lo sappiamo benissimo, che la nostra esperienza giuridica ci mostra molti casi di incertezza legislativa, di contraddizione apparente fra le norme.

Ma ecco perché può essere importante avere il punto di vista dei diritti come punto di vista autonomo e in qualche modo superiore. Perché fa valere un’esigenza costituzionale superiore, quella di garanzia dei diritti fondamentali, perché un giudice che debba porsi dal punto di vista dei diritti, non può avere esitazioni, non può tra una norma che, in ipotesi, gli dica l’immigrato irregolare non può portare suo figlio alla scuola materna e una norma che gli dice, invece, che laddove c’è un minore, un bambino, dovunque sia e da qualunque parte venga, qualunque sia la sua storia, qualunque siano le condizioni dei suoi genitori, ha dei diritti fondamentali (fra questi il diritto all’istruzione), quindi a scuola ci debba andare.

È evidente che se assumi il punto di vista dei diritti devi concludere in questo modo, non puoi non concludere e non da un punto di vista politico o di preferenza, ma dal punto di vista dell’ordinamento, dal punto di vista del diritto.

Perché questo è il diritto. Mentre, invece, se ti limiti a dire “io sono qua ad applicare le leggi”, come un giudice amministrativo applica le leggi amministrative, quello civile applica il Codice civile, si può provocare questo modo di elisione reciproca di legislazione.

Poi c’è la legge di polizia, etc. Per concludere su questo punto, io penso che l’idea di arricchire la nostra giurisdizione costituzionale facendone anche una giurisdizione autonoma sui diritti in senso pieno – cioè dando questa possibilità ultima di ricorso ad un giudice dei diritti fondamentali per far valere eventuali violazioni, prima che si debba andare a Strasburgo, che esiste sempre come garanzia esterna – sarebbe un’idea da portare avanti.

Guardando al futuro della Costituzione, questa internazionalizzazione del diritto costituzionale è il fenomeno fondamentale che ha investito e che ormai ha trasformato il nostro diritto costituzionale in modo irreversibile.

Quale futuro per la nostra Costituzione?

Qui vorrei brevissimamente affrontare due temi che vengono spesso evocati. C’è chi dice che la nostra è una Costituzione obsoleta per certe parti, e non si parla soltanto della seconda parte – quella sull’organizzazione della forma di governo – ma anche della prima parte. Sempre più spesso affiorano opinioni che dicono che anche la prima parte andrebbe rivista perché è vecchia, perché è ispirata a principi superati, per esempio si dice che è una Costituzione troppo sociale, non liberale. Quindi affiorano queste tentazioni.

In realtà, se noi guardiamo all’evoluzione storica, sappiamo benissimo che il costituzionalismo parte sul terreno dei diritti civili e arriva in un secondo momento ai diritti sociali, cioè i diritti che, per così dire, vengono fatti rientrare nella seconda generazione.

Ma nessuno, credo, potrebbe oggi negare che il costituzionalismo contemporaneo sia fatto allo stesso titolo dai diritti civili e dai diritti sociali. Se ci togliete i diritti sociali non è che ritornate ad un costituzionalismo più puro, semplicemente fate un passo indietro di due secoli sullo stesso concetto di diritti umani universali. D’altra parte, è lo stesso discorso delle “quattro libertà” che citavo prima che in un passo significativo parla, come ricordate, della libertà dal bisogno, non solo della libertà di espressione, della libertà di religione, della libertà dalla paura ma anche della libertà dal bisogno, dicendo proprio che questo significa che devono essere assicurati certi beni materiali.

Se noi diciamo, ad esempio, che ogni individuo umano esistente al Mondo ha diritto ad avere dell’acqua potabile pulita in quantità che gli esperti fissano in 50 litri per individuo per una certa misura di tempo come minimo, non compiamo un’affermazione astratta ma affermiamo un diritto, un diritto che o è universale o non lo è. Credo che nessuno al Mondo, islamico, confuciano, europeo, asiatico, africano possa negare che il diritto all’acqua sia un diritto di tutti. I diritti sociali hanno questa stessa natura. I diritti sociali non sono diritti che solo un certo tipo di Costituzioni, per esempio solo la Costituzione italiana perché c’era l’influenza del partito comunista, ha sancito.

Sono in realtà la conquista, anch’essa diventata ormai definitiva, del costituzionalismo. Proprio Roosevelt in quel famoso discorso diceva che tra i fondamenti di una sana e forte democrazia ci sono “eguaglianza ed opportunità per i giovani e per gli altri, occupazione per coloro che possono lavorare, sicurezza per coloro che ne hanno bisogno, la fine di speciali privilegi per i pochi, la salvaguardia delle libertà civili per tutti”; questo era Roosevelt nel 1941, non un qualsiasi costituente socialista. Ancora, affermava che tra gli elementi essenziali della democrazia c’è “il godimento dei frutti del progresso scientifico e tecnico in un più ampio e costantemente crescente tenore di vita”.

D’altra parte, come è noto, vi sono Costituzioni – non la nostra – che quando definiscono il rispettivo Stato, aggiungono la qualificazione di Stato sociale. La Repubblica federale tedesca è uno Stato federale sociale, nel senso di democratico, federale, sociale. La Repubblica francese è uno stato unitario, invece, non federale, laico e sociale. La attribuzione della qualificazione di “Stato sociale”, è una qualificazione costituzionale accettata pacificamente in ordinamenti che non sono il nostro, quindi, quando si critica la nostra Costituzione perché sancisce che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, in realtà si dimentica che quel “fondata sul lavoro” non ha un significato diverso da quello che ha in altre Costituzioni l’espressione “Stato sociale”. Quando qualcuno dice che la nostra Costituzione trascura la proprietà, non è liberale perché prevede la prevalenza dell’interesse comune, sbaglia perché se io prendo la Costituzione tedesca vi leggo che la proprietà impone degli obblighi, che il suo uso deve al tempo stesso servire al bene comune, che l’indennizzo, nel caso di esproprio – materia recentemente nominata anche dalla Corte costituzionale – deve essere stabilito mediante un giusto contemperamento tra gli interessi della collettività e gli interessi delle parti. Queste non sono proposizioni di una qualsiasi Carta sociale o socialista, ma sono proposizioni del Grundgesetz della Repubblica federale tedesca.

Più in generale, si deve ricordare che in realtà i diritti sociali stanno in quella stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo che l’ONU proclamò il 10 dicembre 1948. Se voi andate a leggere quella dichiarazione universale, ci trovate – e poi li trovate sviluppati nei Patti di New York del 1966, uno dedicato ai diritti civili e politici e uno proprio dedicato ai diritti economico-sociali – i diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla dignità e al libero sviluppo della personalità dell’uomo.

Trovate “il diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro, alla protezione contro la disoccupazione, ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana”.

Tutto ciò non vi riecheggia l’art. 36 della Costituzione italiana? Questo sta nella Dichiarazione Universale dei Diritti e nei Patti internazionali sui diritti civili e politici. Ancora, ad “un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere propri della famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, il diritto all’istruzione” – quello che quei famosi bambini figli di immigrati che invece si volevano discriminare, e così via – “il diritto a partecipare ancora una volta al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

Queste sono proclamazioni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ONU, 10 dicembre 1948, quindi è un falso storico quello di dire che la nostra è una Costituzione ipersociale, antiliberale, perché, invece, è la Costituzione che recepisce esattamente i termini del costituzionalismo contemporaneo, in tutti i suoi elementi fondanti.

Che dire dell’altro, ultimo argomento che mi ripromettevo di toccare, cioè quello della forma di Governo. Come sapete, la nostra Costituzione ha fatto la scelta, ben nota, per il regime parlamentare, il famoso ordine del giorno Perassi, che recentemente ricordava Leopoldo Elia nella sua bellissima relazione, sostenendo come quella sia stata la scelta fondamentale del costituente benché, a suo dire, l’Assemblea costituente non sia andata abbastanza avanti nell’attuare e nell’ introdurre espressamente nella Costituzione quei dispositivi atti a razionalizzare e a rendere funzionante il sistema parlamentare e a evitare quelle che venivano definite come le “degenerazioni” del parlamentarismo.

Si può parlare, ad esempio, della sfiducia costruttiva, e di tante altre cose di cui ogni tanto si parla, e che potrebbero essere benissimo, volendo, attivate attraverso opportune modifiche della Costituzione.

Ma la scelta di fondo del sistema parlamentare non è una scelta eccentrica. In realtà il sistema parlamentare è il sistema che viene adottato in tutta Europa, la Francia è in fondo un’eccezione dovuta probabilmente al fatto che nella sua storia un Napoleone c’è sempre.

Oggi si chiama Sarkozy. La cosa che si trova quasi sempre sorprendente è che nel nostro Paese non vi sia un movimento per modificare il sistema in senso presidenziale, cioè che si voglia passare dal parlamentarismo al presidenzialismo. Perché il presidenzialismo, quello vero, è il sistema di governo che noi conosciamo bene perché è quello che vediamo attuato nel Nord e nel Sud America, ed è un sistema di governo – come dicono i giuristi – essenzialmente dualistico, cioè fondato su due poteri che sono tra di loro completamente indipendenti, con legittimazioni separate, e che potenzialmente, e spesso in fatto, configgono fra di loro, Legislativo ed Esecutivo. Da noi, invece, viene portata avanti l’idea che si debba adottare un sistema che io definirei “ibrido”, un sistema che avrebbe questi due elementi.

Da un lato, dare al capo dell’Esecutivo una legittimazione elettorale autonoma da quella del Parlamento, quindi farne una carica monocratica a diretta elezione popolare. Dunque, elezione popolare diretta del capo dell’Esecutivo. Legittimazione elettorale autonoma rispetto a quella dell’assemblea parlamentare, come è nel regime presidenziale, ma, per l’appunto, sono regimi in cui i due poteri sono interamente separati e l’uno non può influire più di tanto sull’altro. Da noi, invece, si vorrebbe inserire, da taluni, l’idea dell’elezione diretta popolare ma attribuendo a questo capo dell’Esecutivo direttamente eletto tutti i poteri tipici e di più, se fosse possibile, del governo parlamentare.

Ma sapete, il governo parlamentare è comitato direttivo della maggioranza, oltre che comitato esecutivo della maggioranza, cioè fonda il proprio potere sull’essere espressione della maggioranza parlamentare e quindi di quella si avvale per guidare e anche per condizionare, se volete, la propria maggioranza parlamentare. Cos’è, infatti, la questione di fiducia se non un modo per condizionare la propria maggioranza parlamentare e quindi per ottenere da parte del governo consenso per le misure e gli indirizzi politici che esso ritiene utili per il paese. Fino allo scioglimento delle camere ad opera dell’Esecutivo, questo è tipico dei regimi parlamentari. Provate ad andare in America e a dire che il Presidente della Repubblica può sciogliere il Congresso, non può farlo.

Anzi se lo vede rinnovare ogni due anni, alla Camera dei Rappresentanti, e se per caso nel rinnovo cambia la maggioranza, il Presidente si può trovare con una maggioranza contraria, come del resto può trovarsi anche all’inizio perché sono elezioni del tutto indipendenti.

Può trovarsi una maggioranza contraria al proprio partito, cioè prevale il partito opposto al proprio; quindi, quello che da noi potrebbe sembrare il cataclisma di una contraddizione, là è fisiologia. Quello che mi ha sempre sorpreso è che un’idea corrente da noi è quella di trasformare il sistema costituzionale adottando questo carattere ibrido, legittimazione autonoma e elettiva diretta del capo dell’Esecutivo, ma attribuzione a questo medesimo capo di tutti i poteri propri di un regime parlamentare.

Questo non va, perché verrebbe meno uno degli elementi fondanti del costituzionalismo in materia di forma di governo, che è l’equilibrio dei poteri.

Dicevano i costituenti francesi del 1789 nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, all’art. 16, che un popolo non ha una Costituzione se non ha due cose, il riconoscimento dei diritti dell’uomo e la divisione dei poteri. Divisione dei poteri vuol dire l’equilibrio, cioè la capacità di controbilanciare un potere con l’altro. Quando sento parlare oggi di Legislatura costituente, devo dire che mi corre un brivido lungo la schiena, all’idea che ci possa essere una Legislatura costituente di questi tempi, con questa cultura costituzionale che si va diffondendo. Perché non ci sono proprio le condizioni. Anzi il rischio è quello della regressione, dell’andare indietro.

Giocano oggi elementi che sono in senso antagonista rispetto a quelli che hanno consentito di giungere a questo punto, quelli che hanno consentito solo quelle tali cose di cui abbiamo parlato, e che sono l’affermazione di ideali universalistici, di apertura internazionale, di pace internazionale, di convivenza, di riconoscimento dei diritti a tutti, di uguaglianza, perché l’uguaglianza, non dimentichiamo, è uno dei fondamenti del costituzionalismo. Infatti, non è che l’uguaglianza l’hanno inventata i regimi comunisti, l’uguaglianza è l’égalité, era insieme alla liberté e alla fraternité, uno dei postulati della Rivoluzione francese; poi i regimi comunisti hanno in nome dell’eguaglianza, negato gli altri elementi; quindi, hanno dato vita a regimi in cui non c’era più la libertà, non c’era più neanche la fraternità e nemmeno l’eguaglianza per la verità. In nome dell’eguaglianza hanno tradito gli altri.

Non possiamo dimenticare che l’eguaglianza non è postulato non liberale o post-liberale, ma è un concetto di eguaglianza fondamentale, per cui tutti gli uomini sono stati creati uguali e sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, come dicevano nel 1776 i costituenti americani.

È un postulato del costituzionalismo liberale. È un postulato irrinunciabile, anche l’uguaglianza. In un tempo in cui, invece, rispetto a quell’ afflato internazionalistico e universalistico che ha caratterizzato la fine della Seconda guerra mondiale, prevale una diffusa sfiducia nelle istanze sovranazionali, viste soprattutto come impaccio, come elementi che sono destinati a non funzionare (la real-politik, ad esempio, vuole che si facciano le cose, che si faccia la guerra al terrorismo, quindi se l’ONU è un impaccio ci liberiamo dell’ONU, in termini molto sintetici). In un tempo in cui prevalgono non le aperture verso un di più di diritti, di eguaglianza, ma i tentativi di chiusura difensiva, perché siamo o riteniamo di essere, aggrediti, o in pericolo o messi in pericolo nel nostro benessere. In un tempo in cui persino la religione viene utilizzata come elemento non di progresso verso la convivenza dell’umanità – come il fattore religioso dovrebbe essere, ed è – ma viene utilizzato come elemento identitario per contrapporre un’identità all’altra, per difendersi da vere o presunte aggressioni, anche vere; come elemento col quale ci si difende, come scudo, come corazza e non come fattore che può rompere le disuguaglianze, che può portare a superare le differenze, e portare a viverle non come contrapposizione, ma come collaborazione.

Ebbene, in un tempo in cui alla fine la politica non è tanto vista come arte del governare per il bene comune, ma essenzialmente come scontro di poteri.

La politica, infatti, è oggi vista diciamo a livello comune, quando voi parlate di politica e di anti-politica, non è questo il tema.

L’antipolitica è l’avversione a questa politica, non alla politica come la si dovrebbe intendere.

A questa politica che è scontro di poteri a buon mercato. In un tempo come questo, è pensabile che ci si appresti a rifare la Costituzione?

Non ne uscirebbe un prodotto molto più arretrato, nella storia lunga dell’umanità, di quello che invece alla fine della Seconda guerra mondiale, in quelle condizioni storiche e culturali, ha prodotto, fra le altre la Costituzione italiana? Io penso che questo sessantesimo anniversario debba indurci a lavorare per ristabilire prima di tutto il rispetto, direi la venerazione, per la Costituzione – gli americani non avrebbero pudore ad usare questo termine, “venerare” la Costituzione –, a difenderne lo spirito, a difenderne l’impianto, a diffondere la conoscenza, a diffondere quello che molto bene è stato chiamato il patriottismo costituzionale.


[1] In occasione della dolorosa scomparsa del Prof. Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale e emerito di Diritto Costituzionale dell’Università Statale di Milano si pubblica la lezione da Lui tenuta presso il “Master in Istituzioni Parlamentari Europee e Storia Costituzionale” e il Dottorato di Ricerca in “Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche Comparate” presso l’Università La Sapienza di Roma, Mercoledì 13 Febbraio 2008, Sala Delle Lauree (Ore 15) 0, alla presenza del Rettore Magnifico Prof. Renato Guarini e preceduta da una introduzione dell’allora Preside della Facoltà di Scienze Politiche di Roma “La Sapienza” Fulco Lanchester. Il testo è quello inviato dal Prof. Valerio Onida; la registrazione dell’evento è recuperabile su Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/247091/i-sessanta-anni-della-costituzione-repubblicana-1948-2008.

[2]https://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2022/06/V.-Onida-I-sessanta-anni-della-Costituzione-repubblicana-1948-2008.pdf

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