Morto improvvisamente a Milano a 72 anni un creativo rigoroso figlio della Scuola grafica dell’Umanitaria. Grandi maestri, grandi esperienze, progetti da continuare.
Articolo pubblicato dal giornale online L’Indro (11.7.2022) – https://lindro.it/fulvio-ronchi-quattro-mostre-lasciate-in-eredita/
Stefano Rolando



Si può essere talentuosi, operosi, ammirati e non far notizia quando suona – per giunta in modo così precoce – la campanella dell’ultimo giro di una vita intensa.
Questo articolo è una piccola riparazione, nella consapevolezza che la scomparsa, avvenuta il 5 luglio a Milano, di Fulvio Ronchi ha toccato comunque la sensibilità di molti e il convinto dispiacere di chi ne conosceva il fondo umano e la caratura professionale.
Allievo della Scuola di Albe Steiner in Umanitaria e vicinissimo nella formazione a Giulio Confalonieri (la cosiddetta “Scuola Svizzera” milanese, per gli studi in Germania e in Svizzera del suo fondatore) di cui Fulvio diceva: “un creativo così autorevole da stare fuori dal pensiero comune della progettazione del tempo”.
La vita delle tipografie nella sua famiglia. Ma le regole di gestione dello spazio apprese dai nomi più illustri della grafica a Milano tra gli ’60 e ’70. A vent’anni è il più giovane art director della gloriosa Olivetti (”lavoro di squadra – diceva sempre – mie le due t del logo”), poi con Riccardo Felicioli nelle esperienze di grafica per l’editoria di impresa soprattutto per il gruppo Fiat-Iveco tra Milano e Torino e nella RPR di Mario Lucio Savarese a tutto campo tra mostre, fiere, riviste soprattutto per il gruppo IRI-Finsider a Roma.

Quando assumo nel 1985 l’incarico di direttore generale dell’informazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, propongo a Giuliano Amato una vera rivoluzione per la comunicazione dello Stato, coniugando l’estro della comunicazione di impresa con la necessaria austerità della comunicazione istituzionale. La rivoluzione consisteva (anche) nell’immettere nel forte corpo tecnico-industriale del Poligrafico dello Stato, attraverso una trasformazione creativa della componente più giovane dei quadri della comunicazione della struttura permanente alla Presidenza del Consiglio (ormai quasi silente dopo quarant’anni dall’antico rombante Minculpop), un talento grafico – sperimentato già in più di dieci anni di lavoro comune – abituato a spiegare, così da far crescere tanto i settori redazionali quanto quelli industriali. Una storia intensa durata dieci anni con mille (realmente mille) realizzazioni editoriali e multimediali, una per una frutto di un alto artigianato e di un’ispirazione del tutto inedita per le austere stanze governative. Un’ispirazione retta da una moderna cultura dell’identità visuale. A poco a poco la costruzione di un “palazzo immateriale”, l’architettura della riconoscibilità.


Non c’era settimana senza una scadenza stra-importante per la quale gli uffici stampa facevano il loro lavoro stando sulle notizie mentre noi costruivamo – come solo gli inglesi a malapena facevano al tempo – tutto un arco di contatti materiali con i cittadini, in Italia e nel mondo.


Nel 1988 dopo aver creato le condizioni per la realizzazione della prima edizione del Salone del Libro di Torino, all’Italia spettò l’onore di essere “ospite d’onore” alla Buchmesse di Francoforte. Un sistema-paese – con i suoi libi, la sua cultura, il suo spettacolo, i suoi artisti, i suoi autori – invadeva pacificamente una città proponendo tutto ciò che produce libri e tutto ciò che dai libri diventa altra forma d’arte. Era l’anno del “Nome della rosa” di Umberto Eco, era l’anno di un ennesimo successo di Federico Fellini e i due capeggiavano infatti la “trasferta” che produsse migliaia di articoli della stampa di tutto il mondo. Nell’immenso padiglione alla Buchmesse i sei palazzi costruiti da Cinecittà (scenografia di Mario Garbuglia) per contenere ciascuno un secolo di storie culturali dal ‘400 in poi. Un successo clamoroso e il rilancio dell’editoria italiana sulla scena internazionale. Fulvio si inventò una maschera, inesistente nel panorama italiano fatto da “una maschera per ogni città” che aggirava la I della targa automobilistica dell’Italia nota a tutti i tedeschi. Francesi e giapponesi – a cui sarebbero toccate la seconda e la terza edizione – vennero a prendere appunti. a

Non c’è lo spazio per raccontare quelle mille realizzazioni che terminano nel 1995, quando finisce anche l’impero della carta nella comunicazione e comincia l’era digitale. Fulvio seguì poi le sorti della comunicazione degli Affari Sociali alla Presidenza del Consiglio (con Livia Turco) e poi riprese il suoi lavoro milanese per il sistema di impresa e, dopo il 2000, anche una lunga esperienza di insegnamento di “Identità visuale”, prima nell’area del Design del Politecnico e poi all’Università IULM.
Delle tante, tantissime realizzazioni grafiche e visuali del tempo “istituzionale”, non posso tralasciare la straordinaria sintesi del logo del G7 a Napoli che Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio uscente, approvò nel 1993 lasciandolo in dote al presidente entrante, Silvio Berlusconi. Un tratto di penna per segnalare il Vesuvio e un altro tratto di penna per accompagnare la curva del golfo di Napoli, leggendosi perfettamente il logo “G7”. Quando Marinella – la più celebre azienda di cravatte di Napoli e forse dell’Italia – riprodusse quel marchio sulle cravatte blu esposte durante l’evento, dovette esaudire la richiesta immediata dell’ambasciatore del Giappone di acquistare tutta la partita prodotta.

In questi ultimi vent’anni non sono mancate le “grandi realizzazioni”, tra cui la più eclatante (con un indotto che ha rivoluzionato addirittura il turismo culturale nella città) la mostra sul Lotto a Bergamo (con tanti “compagni d’arte”, da Pierfrancesco Anzà, a Rosella Colleoni, a Paolo Boselli), esperienza che ha lasciato alla fine in laboratorio la sua straordinaria scoperta di un ordine esoterico dietro la Pala Martinengo del Lotto, capolavoro di un protagonista del Rinascimento veneziano che ebbe a Bergamo e nelle Marche i suoi più importanti ambiti di espressione. Scoperta da molti lodata – per la quale Fulvio aveva coinvolto anche Peter Greneway – ma che non ha finora trovato la sua giusta forma di realizzazione.
Così, come si è colto nelle brevi note citate, non ha trovato anche la sua degna forma di narrazione espositiva l’intero percorso creativo di Fulvio Ronchi, correlato alla maiuscola scuola della grafica milanese (pur esistendo un lavoro imbastito e anche un primo catalogo profilato dal suo assistente storico, Nicolò Chiaramonte).
Così come – mio cruccio – non si è ancora trovata la forza culturale per raccontare, a partire dai dieci anni della trasformazione della comunicazione governativa, tra gli anni ’80 e ’90, la peculiarità del cambiamento della comunicazione istituzionale in Italia, non partendo né dalle leggi, né dai modelli organizzativi, né dalla trasformazione digitale né dalla contaminazione europea dopo gli anni ’80. Ma partendo da dove si era in realtà partiti, cioè dal prodotto, dalle forme grafiche e multimediali, dalla linea estetica e dal rapporto tra questa cifra “esclusiva” e il cambiamento della fruizione sociale della messaggistica pubblica.
Lavoro monumentale concluso di recente invece l’Atlante Brand Milano (350 pagine e molte foto) attorno alla riflessione di 100 autori sulle trasformazioni di identità e immagine di Milano a due anni da Expo (Mimesis, 2017).

Infine – per far breve una lunga storia – la mostra finora più mancata all’appello ha riguardato il frutto di decenni di vita professionale nel design e l’attenzione costante all’iconografia e all’oggettistica (storica e di attualità) attorno ad una mitologia del disegno: la mano umana. Almeno tremila pezzi di antiquariato e oggettistica etnografica di tutto il mondo per un viaggio immenso sul simbolo centralissimo di atti antropologicamente fondanti: indicare, salutare, pregare, lavorare, combattere, accogliere, accarezzare, mangiare, comunicare.


Sul suo tavolo – anch’essa incompiuta (ma Nicolò si è assunto l’impegno a concluderla) – l’ampia brochure per la Fondazione “Paolo Grassi”, immaginata dopo che ne ho assunta la presidenza nel 2021 (ed Elio Franzini la presidenza del Comitato scientifico), finita nella selezione di testi e immagini e ormai pronta per quelle sapienti sagomature che rendono un prodotto carico e quasi illeggibile in uno spazio attraversato dall’aria e dall’intelligenza visuale.
Dal 2008 Fulvio è stato anche art director di Fondazione “Francesco Saverio Nitti”, sua la realizzazione del logo della Fondazione e della comunicazione visuale di molti eventi realizzati in questi anni.

