Pubblicato da Il Mondo Nuovo (30.8.2022) –

Il Mondo Nuovo
Podcast n. 7 – 29.8.2022 –
A quale età storica del pensiero apparteniamo?
Stefano Rolando
Ci sono epoche della storia che – per la forza delle idee che esprimono e per l’incidenza che hanno avuto sulla cultura, sui costumi, sulle dinamiche stesse della società e del potere – diventano un paradigma. Non solo del cambiamento, ma anche dell’appartenenza o meno di una porzione di umanità a quella specifica storia. Alla quale non ci iscrive come a un club o a un partito. A volte non si sa neppure esattamente di “appartenere”, ma nei momenti decisivi di una vita ci si trova a credere o al contrario a ripudiare il concentrato di caratteri che quella appartenenza comporta.
Insomma, alcune pagine storiche hanno un nome così importante, per la porzione dei terrestri che ne sono stati riguardati, da diventare dei veri e propri biglietti da visita di una comunità.
A volte anche di più comunità, lontane, tagliate da monti e mari, ma intrise di aspetti che rimangono poi nei libri di storia a spiegare epoche e persino misteri.
Nel mondo antico – per fare uno dei primi esempi che viene in mente – l’età ellenistica ebbe questa forza di “comunitarizzazione” (linguistica, culturale, valoriale) che durò praticamente tre secoli, datata cioè dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla battaglia di Azio, quella in cui Roma si assicurò il controllo dell’Egitto della regina Cleopatra (31 a.C.).
L’ellenismo è noto anche come età alessandrina. Il suo tratto caratterizzante è la diffusione della civiltà greca nel mondo mediterraneo, eurasiatico e orientale. E la sua fusione con le culture dell’Asia Minore, dell’Asia Centrale, della Siria e della Fenicia, dell’Africa del Nord, della Mesopotamia, dell’Iran e dell’India, e la conseguente nascita di una civiltà, detta appunto «ellenistica», che fu modello per altre culture relativamente a filosofia, economia, religione, scienza e arte.
Una potenza culturale che influenzò naturalmente la latinità. Dunque direttamente noi. E che mandò messaggi anche ai millenni successivi, certamente influenzando molte epoche, tra cui il Rinascimento italiano e il neoclassicismo in età più recente.
Ma per stare alla nascita stessa dell’età contemporanea si potrebbe parlare dell’età napoleonica, che durò in realtà poco tempo, dieci volte meno. In fondo, dalla discesa di Napoleone Bonaparte in Italia, sul finire della Rivoluzione francese, al Congresso di Vienna (1815) ovvero fino alla Restaurazione e all’attuazione delle sue regole, a cavallo dunque di XVIII e XIX secolo.
Poco meno di trent’anni. Ma capaci di trasmettere elementi contenuti nella Rivoluzione francese, altrimenti incistati, facendoli diventare lievito della contemporaneità.
Si potrebbe dire lo stesso per la Rivoluzione russa e la sua pur contraddittoria capacità di sedurre una parte importante del ‘900, fino a raccogliere – alla caduta del muro di Berlino – la controstoria del detto “la fine di un’illusione”.
Non potendo citare tutti i casi che rientrano in questa tipologia, viene da chiederci – pensando all’Italia che ci riguarda, quella dell’età contemporanea – se c’è qualcosa di così profondamente accomunante da farci toccare con mano il senso di queste appartenenze collettive in cui lingue, linguaggi, pensieri, letterature, sogni e manipolazioni, diventano elementi che connotano alcune generazioni. Magari provocando grandi appartenenze e al tempo stesso grandi riluttanze.
Certamente viene in mente il Risorgimento, viene in mente il Fascismo e viene in mente l’età della Costituzione e della Ricostruzione.
Profili diversi e contrastanti, che qualcuno ha cercato di legare in alcune continuità (naturalmente leggendo nell’età del Fascismo anche la storia dell’antifascismo e della Resistenza) rispetto a cui da almeno trenta anni appare evaporato un carattere forte di perdurante e diffuso vissuto culturale, restando tutto avvolto nei luoghi comuni dei manuali di scuola, nella proposta che le arti (soprattutto il cinema e la letteratura nel ‘900) hanno fatto, rielaborando tratti ed elementi simbolici, nella presenza di tracce (anche vistose, come l’urbanistica, la toponomastica, le leggi, eccetera) ma in progressivo distacco dalla vita quotidiana dei più.
Prende corpo – soprattutto per le nuove generazioni – l’idea che sia partito da alcuni anni un movimento accomunante di tipo globale. Quello che va sotto il nome di Età digitale. Che ora taglia abbastanza le generazioni e che costituisce ancora il cantiere delle trasformazioni più che un’epica delle appartenenze. E tuttavia i fenomeni di crescente dipendenza investono tanto il mondo del lavoro quanto la realtà del tempo libero. Dunque, la cosa va presa sul serio.

In ogni caso è in questa fase transitoria, insomma, tra il ‘900 e il nuovo ormai avviato secolo, che è collocato il dibattito pubblico e politico degli italiani (che avviene tra ciò che riguarda gli europei e ciò che riguarda, con molte differenza, i mediterranei e solo per una piccola parte dei nostri connazionali capace di saldare queste due sponde).
E quindi è in questo sfumato lungo interludio che si va collocando anche la lotta politica fino alle elezioni in corsa.
I più saranno autorizzati a pensare a questo punto che questo raccontino non sia una casuale materia per fare un po’ di aneddotica in questo appuntamento audio settimanale.
È infatti il tentativo di far rientrare questo punto di domanda tra gli argomenti che riguardano la rubrica “Biglietti da visita”, cioè interrogandoci sugli elementi principali che riguardano le dinamiche dell’appartenenza e della rappresentazione.
Il tentativo, cioè, di cogliere un argomento di fondo che, se vogliamo, tiene in sospeso la chiarezza del rapporto tra valori, idee, opzioni e voti. Ma molti faticano a cogliere.Per varie ragioni.
- Mai, come in questo momento, la cultura politica è affidata a un eccesso di anatemi, rispetto alle argomentazioni.
- Mai come in questo periodo essa è affidata a un eccesso di moralismo (come avviene quando ci si affanna a dividersi tra Bene e Male e non su programmi chiari e precisi).
- E ancora mai come ora essa è affidata a un eccesso di opportunismo, rispetto ai vincoli di una delega in cui un tempo contavano coerenza e senso della storia.
Insomma al di là di vecchi confronti (fascisti e antifascisti) oppure di insorgenti confronti (digitali e meno digitali), sono questi i giorni in cui dovremmo porci una domanda: siamo in grado di trovare una categoria della modernità a cui avrebbe senso far risalire, pur dividendoci, i progetti di cambiamento (per chi si occupa di offerta di politica) e la capacità di distinguere e di scegliere il cambiamento (per chi si occupa di domanda di politica)?
C’è qualcuno che vuole farci sapere la sua risposta?
Alcune risposte
Massimo Maggiore (30.8.2022)
All’età del flusso continuo, risponderei
Aldo Innocenti (30.8.2022)
Dovremmo vivere nell’epoca della “Costruzione dell’Europa” e invece viviamo nell’epoca della “Ricostruzione del Muro di Berlino”…
Alberto Abruzzese (30.8.2022)
Siamo sicuri di appartenere alla modernità? Caro Stefano, ti ho ascoltato. Grazie della profonda e sensibilissima questione che ci hai posto. Tra parentesi riporto qui gli appunti che ho preso, ascoltandola: (età storica in cui crediamo di appartenere; paradigma di una appartenenza; “biglietti da visita di una comunità” o più comunità con una loro durata, come per l’età ellenistica (alessandrina) e via a seguire; una civilizzazione che fece da modello per il “futuro”, spingendosi dal Rinascimento alla modernità propriamente detta – e si può dire la stessa cosa per la rivoluzione sovietica; viene quindi da chiederci se s’è per la condizione italiana qualcosa di simile: appartenenze e riluttanze; risorgimento, fascismo, democrazia ecc. e infine la riproposta mediatica di tutte queste tracce (cinema); infine il presente: il momento globale, digitale: un “cantiere delle trasfromazione del tempo del lavoro e tempo libero.
Qui si collocano anche le elezioni attuali e dunque si impone la domanda sulla idea di modernità di cui disponiamo. La necessità di porsi questa domanda sulla modernità in questa fase caratterizzata da una cultura politica attraversata da opportinismi e assenza di coerenza).
Ti faccio una sola domanda: non credi che prima vada affrontata seriamente e responsabilmente la crisi non recente a anzi di lunga durata dei valori e con essi dei mezzi e duque soggetti della modernità? L’appartenenza occidentale – compresi gli ulteriori mille contrasti glocal che ne sono derivati e che la hanno ibridata di sé – è il frutto della modernità, ma la mia sensazione è che ad essa sia mancata – recentemente, in sostanza appena dopo (se non già nel suo corso) l’esperienza novecentesca, e che quindi, proprio a misura del suo smarrimento, oggi non sia possibile fare più affidamento ad essa?