Congedi – Michail Sergeevič Gorbačëv (Privol’noe, 2 marzo 1931 – Mosca, 30 agosto 2022)

Dal 1985 al 1989 – i miei primi quattro anni alla Presidenza del Consiglio a capo dell’Informazione – i rapporti con l’est europeo erano un terreno importante, delicatissimo per i nessi tra politica internazionale e politica interna, in ordine a cui l’Italia pur con la sua dimensione geopolitica meno “a diretto contratto” di altri paesi europei, voleva avere e aveva da tempo (Togliattigrad, il Pci, eccetera) un ruolo non solo di routine.

Bettino Craxi fece un viaggio importante a Mosca nel maggio 1985 che viene ricordato in tutta la saggistica storica nel quadro del processo che passò dal disgelo alla liquefazione dell’URSS.

Ciriaco De Mita fece la visita ufficiale a Mosca nell’ottobre del 1988 in cui il segretario generale del PCUS espose alla delegazione italiana l’idea della “casa comune eurpea”).

In entrambi i casi il Dipartimento Informazione curò e pubblicò un ampio dossier.

Fin qui l’ufficialità.

Claudio Martelli ha raccontato che i vertici dei partiti politici che governavano il Paese (e il riferimento è a Craxi, ma anche a Andreotti, Mitterrand, ai capi della SPD tedesca) vivevano questa evoluzione con grandi preoccupazioni per i possibili effetti destabilizzanti. “Mi preme sottolineare che quello di Craxi era il giudizio di un professionista, di uno statista, non era un giudizio partigiano o fazioso: valutava freddamente dal punto di vista di uno statista il comportamento di Gorbaciov, che indubbiamente è stato un po’ un apprendista stregone, perché ha messo in moto un processo di riforma di un sistema che era irriformabile, un sistema altamente centralizzato, burocratico, inefficiente, ma che aveva una sua coesione. Insomma, introdurre la Perestrojka, cioè la ristrutturazione economica e politica, e la Glasnost, ovvero la trasparenza dei processi decisionali in un Paese totalitario, ha innescato un processo di disgregazione. Però va anche detto che la politica non si può vedere soltanto dalla parte degli statisti, ma anche dalla parte dei cittadini”. (AGI, 7.12.2021).

Nel periodo che precede ampiamente la caduta del muro prevaleva l’enorme interesse per l’evoluzione delle garanzie di pace (rispetto ai potenziali rischi nucleari) e anche per l’evoluzione dei rapporti economici.

Molte analisi circolavano sulla durezza e la fragilità al tempo stesso della capacità della classe dirigente sovietica di reggere a trasformazioni così profonde. E altrettante analisi non mostravano con chiarezza che cosa si stava preparando.

Solo dopo l’89 – che fu accolto con l’applauso pubblico e con immensa e più trattenuta preoccupazione dal sistema delle democrazie europee – si delineò l’evoluzione di quella glasnost. Gorbačëv avrebbe voluto controllare un processo di trasformazione per mantenere la Russia nella cornice del suo carattere “socialista”, ma si profilava una radicalizzazione senza troppe mediazioni sia all’interno che nei maggiori equilibri internazionali. All’interno la coalizione di interessi economici che poi espresse la leadership di Eltsin (e nel suo quadro di Putin) si voleva sbarazzare al più presto di “eredità” e “continuità”. L’Occidente (Usa in testa) volevano la bollatura immediata e clamorosa della sconfitta del nemico planetario. Ben presto Michail Sergeevič Gorbačëv – pur restando nei libri di storia “l’uomo che cambiò il mondo” – passò in Russia per “traditore” e in Occidente come un “pensionato”. Il Premio Nobel per la Pace – a volte azzeccato, a volte assegnato con strane motivazioni – nel suo caso (1990) riconosce un grande e difficile impegno sia sul fronte interno che su quello mondiale.

Nel novembre del 1989 fece l’ultimo suo viaggio come presidente. E fu il viaggio in Italia. Michele Mezza, sull’aereo con lui tra i giornalisti italiani al seguito, così lo ricorda: “Gorby comunque fu ancora più vivace e tenne banco per tutto il viaggio con una sequela di battuta e intonando più volte le melodie italiane che lo appassionavano da ragazzo, in particolare la canzone napoletana Dicitincillo Vuie, che  rivelò, sussurrava alla sua Raissa all’università. Quando scoprì che ero di origini napoletane mi volle vicino a lui seduto sul bracciolo, accanto ad una Raissa di grande carisma che con la sua interprete confessò la debolezza sua e del marito per il parmigiano.  Dopo ogni contatto ravvicinato mi chiedevo regolarmente da quale pianeta fosse mai arrivato questo strano personaggio: antropologicamente irriducibile alla tradizione sovietica, con  un istinto mediterraneo, una voce baritonale e un sorriso affabulante. Ma debole politicamente. Lo si percepiva, seguendolo da vicino nel tempo, e trovandolo sempre più estenuato nel ripetere la sua fiducia nella capacità del sistema di auto riformarsi. Ed era sempre più solo mentre lo diceva (…) E’ stato un grande, appassionato, cocciuto rianimatore di un cadavere. Aveva attorno dei becchini e non infermieri.  Ha avuto contro dei cinici avventurieri che ancora oggi ci minacciano”.

Mario Draghi segnala, nell’esprimere il cordoglio italiano, il profilo di uno statista (per altro di famiglia russo-ucraina) che non cavalcò la politica imperialistica russa. Dichiarazione tra le più politiche oggi, insieme a cose retoriche inevitabilmente in circolazione. Negli ultimi trenta anni le maggiori democrazie occidentali (certamente Usa, Germania, Francia, Spagna) gli hanno assegnato le loro più alte onorificienze. Suona strano che l’Italia non figuri in questo elenco.

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