Dopo il voto. I cantieri (veri e finti) del ridisegno della politica italiana.

Articolo per Democrazia Futura (n. 7/2022) anticipato dal magazine online Key4biz (3.10.2022) – https://www.key4biz.it/democrazia-futura-dopo-le-elezioni-i-cantieri-veri-e-finti-del-ridisegno-della-politica-italiana/418105/

Stefano Rolando

La tacita offerta di Mario Draghi ai partiti politici italiani considerati dal Capo dello Stato “inservibili” ad inizio del 2021 per fare le cose elementari del funzionamento di una democrazia (formare una maggioranza, esprimere un candidato alla guida del governo, più in là si vedrà anche il non sapere eleggere un presidente della Repubblica) era di considerare il cantiere dell’emergenza come un ambito formalmente non delegittimante ma sostanzialmente di opportunità rigenerativa.

Una offerta più che pertinente riguardante partiti impegnati sul piano parlamentare a vivere responsabilmente la convergenza necessaria per far fronte alla tenaglia delle due crisi (quella sanitaria e poi quella della situazione di guerra esplosa nel cuore dell’Europa). Considerando tutti “emergenza” anche la crisi politica, aveva un certo senso disporre di un tempo per le necessarie riparazioni. I partiti collocati in una sorta di “pronto soccorso” non per nascondersi, ma per rimettere ordine autonomamente nella propria identità e nella propria prospettiva.

Draghi non ha prospettato questa trama con saccenteria e nemmeno con tanti fronzoli politologici.

Lo schema era implicito nelle parole e negli atti. Uno stile che ora gli frutta – ad elezioni avvenute – il 63% di stima e fiducia degli italiani (dato morale, in rialzo).

Tuttavia, salvo il Partito Democratico (che pure aveva fremiti al riguardo), tutti i partiti non hanno retto fino in fondo questa condizione “terapeutica” convinti di dover uscire da una condizione un po’ raggelante e tornare alla rissa delle parole, delle promesse, degli anatemi. Da qui le elezioni anticipate. Perché ciò rispondeva ad una condizione attuativa della politica più consona, più genetica, più adeguata ad una cultura politica ormai più condizionata dal marketing che dalle scienze sociali o dalla filosofia.

Aperte le urne si è visto che solo l’unico partito che era all’opposizione, cioè Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, ha ben utilizzato lo spazio rigenerativo per mettere a punto posizionamento, narrativa e progetto. Quasi tutti gli altri sono entrati nel ballo di San Vito dell’elettrizzante improvvisazione della campagna elettorale. O perché si trattava di regolare conti nella propria coalizione.  O perché la condizione elettorale era un richiamo troppo seduttivo per chi sa fare più questo più che coltivare una coerente cultura di governo e della progettazione.

Sempre a risultati acquisiti si può dire che forse un secondo soggetto – sia pure con una modalità un po’ scostumata e comunque per ansia di salvezza – ha colto l’opportunità di riposizionamento. E cioè 5 Stelle il cui elettorato ha creduto alla giravolta permettendo a Conte di imporre la leadership, chiudere le faide interne e assicurare uno spazio al partito dichiarato del populismo italiano.

Giorgia Meloni ha invece impostato alcune rielaborazioni. In cui potrebbe anche pesare la sua stessa percezione che la vittoria elettorale è sì netta sui voti validi (il 26%) ma va vista con realismo rispetto all’insieme degli italiani (riducendosi al 15%). La più significativa di queste rielaborazioni appare la variazione di uno sterile “sovranismo” in un convinto “atlantismo” (che nelle condizioni del mondo significa dimezzare qualunque posizione “sovranista”), ma anche entrare nello schema dialettico europeo non con le posizioni di Visegrad ma con quelle più robuste dei “conservatori” europei.

Molte altre rettifiche saranno necessarie a Giorgia Meloni per superare la prova di una capacità di governo almeno nel breve e medio periodo. Prima di tutto quella di un’adeguata classe dirigente, argomento che si svelerà a breve e su cui è per ora legittimo nutrire riserve. Ma in ogni caso la sua forza negoziale interna è per un po’ al massimo; dunque, si vedrà con quale nuova linea identitaria e quale sostenibilità di progetto ripartirà il ruolo del suo partito nella democrazia italiana.

Macerie invece in casa del centrosinistra. Per ora resta uno spazio virtuale separato dal fiume delle incomprensioni e dei rancori tra lo schema costruito dal PD di Letta e quello dell’alleanza di due ex-amici diventati ex-nemici e poi ancora alleati elettorali che sono Calenda e Renzi.

La tentazione dei due partiti centristi di mettere a soqquadro definitivamente il perimetro tradizionale in cui il PD fa il traino come soggetto di sinistra e loro fanno la copertura al centro in condizione subalterna è evidente.  Probabilmente sta per mettere in campo la sperimentazione in due possibilità di grande importanza, le regionali in Lombardia e nel Lazio. Dopo di che si aprirà un’altra storia nella politica italiana che potrebbe avere al proprio interno l’implosione finale del berlusconismo e del salvinismo, riconsegnando un quadro molto ridisegnato della politica della legislatura in avviamento. Ma non è da escludere anche che ci siano argomenti per limitare l’opportunismo di Renzi e lo spettacolarismo di Calenda e riprendere il cammino di una cultura liberaldemocratica, fin qui approssimativamente sbandierata con poco studio e pochi nessi reali con gli ambiti in cui essa viene ancora aggiornata attorno ai nodi planetari.

Per questo la solitudine della condizione di onesta dichiarazione di sconfitta di Enrico Letta, limitata dal suo voler essere al timone almeno della “palestra”, è l’elemento che ora fa notizia. Anche se è ancora una notizia carica di incertezze circa le possibili evoluzioni.  Il progetto di rifondazione contiene grandi opportunità e grandi rischi. Dalle ipotesi di scioglimento e ricostruzione ab imis fundamentis (che significa un cantiere lungo e irto) alle ipotesi di ridisegno a tavolino delle alleanze interne per configurare un cambiamento gattopardesco. Le affrettate autocandidature non depongono benissimo al riguardo.

A regola, non sarebbe pensabile che questo cantiere si possa sviluppare al di fuori di una certa coerenza – almeno ricercata – con l’evoluzione della cultura della sinistra di governo nello schema europeo.  Dove il perno centrale resta – inutile bofonchiare – quello della socialdemocrazia europea (pur differenziata nominalmente) intesa come recupero del rapporto tra la politica e il ceto medio, nel suo possibile patto con la liberaldemocrazia di orientamento progressista e con il popolarismo cristiano che persegue un nuovo patto sociale per l’equità. Dunque, la politica che sa fare patto con il sistema di impresa e con le organizzazioni del lavoro.

Per ora non è stato questo il perno maggiore delle aggregazioni del PD. Diciamo pure il modello tedesco che – malgrado il freno imposto dalla crisi energetica e dalle conseguenze della guerra – sceglie la via di un accordo per reinventare il modello di sviluppo sostenibile e per accantonare l’estenuante cultura delle mediazioni che hanno avuto per anni in Germania il volto rassicurante di Frau Merkel, oggi non più funzionale a scelte più discontinue. In Italia l’evoluzione auspicabile dovrebbe anche avere una riapertura di dialogo con la società civile (vecchia diffidenza degli apparati di partito) che può offrire competenze alla politica, partendo dalla realtà (cultura delle comunità) di un 30% dell’Italia dal basso ora governata dal civismo. E – come ci ricorda Sabino Cassese – esprimere la “diffusione delle democrazie interne a sostegno della cultura costituzionale”.

Fare serie ipotesi su cosa ci riserva la meta congressuale del PD è ora impossibile. Non è accettabile però il pregiudizio radicale sull’impossibilità del cambiamento. Pur pesando – come ha pesato per vent’anni – il vizio di nascita di un finto pluralismo che il PD ha rappresentato. Che si è limitato a passare dalla filiera ex-comunista alla filiera ex-democristiana. Aggiungendo infine che qualcuno in quel contesto dovrebbe avere fin da ora a mente che le elezioni ci restituiscono comunque un PD primo partito di opposizione con la responsabilità immediata di vigilare sul negoziato e sul controllo del quadro politico-istituzionale dell’Italia di questo specifico e cruciale momento.

Se i cantieri di destra e di sinistra si riveleranno finti, succederà che la crisi sociale delle periferie italiane (da Sesto San Giovanni a Primavalle) sarà il vulcano dopo il loro insuccesso (e quindi anche dopo il turno di Giorgia Meloni) di una non prevedibile dirompenza.

Il nostro caveat riguarda ora anche l’importanza di fermare il taglio della memoria che ha inquinato e avvelenato l’evoluzione della cosiddetta “seconda Repubblica”, riportando soprattutto nella selezione delle responsabilità politiche il rapporto reale con la cultura (per la quale non basta lo stuolo di politici che provengono dal giornalismo precario) e con l’approccio interpretativo – espressione da sottolineare per i politici di professione che non vengono più nemmeno chiamati nei talkshow per fare questo ruolo – dei processi sociali ed economici del nostro tempo.

Ad articolo consegnato, arrivano stralci del primo discorso di Giorgia Meloni dopo gli esiti del voto, davanti (vaga stranezza) agli agricoltori della Coldiretti a Milano. Molti lo noteranno. La parola gramsciana “Paese” (divenuta però ormai lessico giornalistico trasversale) è liquidata, la parola prodotta dal Risorgimento ed ereditata dal nazionalismo novecentesco “Nazione” è ripetuta in modo premeditato fino a far capire la sua inusualità. Per essere il “primo discorso”, il carattere metaforico del peso della responsabilità (invocata a caldo dopo gli exit-poll) non pare abbia ancora prodotto effetti importanti. Così da far pensare che, per la sua tempra, Giorgia Meloni pare ancora emotivamente molto legata alla sua campagna elettorale. Insomma, duro sarà il cantiere del cambiamento della sinistra. Parimenti duro sarà il cantiere del cambiamento della destra.

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