Pubblicato sul magazine online Il Mondo Nuovo – Lunedi 23 gennaio 2023

Stefano Rolando
Versione audio:
Versione scritta:
Nando Pagnoncelli (presidente Ipsos e professionista che stimo) ha presentato a Bologna nei giorni scorsi la rilevazione “Quale clima economico e sociale ora in Italia?”
Prima di fare qualche cenno su questo interessante Rapporto, fatemi parlare un poco dei media e della gerarchia delle notizie. L’asso nella manica del sistema dei media, infatti, resta sempre quello di mettere in gerarchia le notizie. Già, perché proprio inventarsele di sana pianta – cosa che alcuni fanno – non è propriamente etico. Ma dire – tra le tantissime notizie in circolazione, una volta tolte di mezzo sciocchezze, falsità evidenti e ridondanze – quale è la prima, quale è la seconda e quale è la centesima notizia, beh questo resta il cuore di una professione basata sullo scegliere prima che sul fare.
A proposito, chi mi ascolta ha un’idea di quante siano le notizie valide e diffondibili tutti i giorni?
In gergo si chiamano “flottante notiziabile”.
Faccio spesso questa domanda ai miei studenti. Chi dice dieci, chi cento, chi duecento. Qualcuno azzarda talvolta la cifre di mille. Ma raramente imbroccano. Notizie compiute, con titolo e testo. Non una parolina in corpo otto in un necrologio. Ebbene tra ciò che una testata produce e soprattutto ciò che riceve in 24 ore, si tratta di lavorare su circa cinquemila notizie al giorno.
Come si sa, lo spazio è quello che è. Tra carta e digitale, tra notiziari e approfondimenti, tra TG e giornaloni, al massimo una testata di un certo rilievo può sfoderare 500 notizie.
· Il che vuol dire che l’arma numero uno del giornalismo uccide in redazione il 90% del notiziabile, cestinandolo impietosamente.
· Ma l’arma numero due mette poi le notizie superstiti in fila. Che siaimpaginazione oraria (se si tratta di audio-video), o che sia impaginazione consecutiva (per la stampa), sempre un allineamento verticale è.
· La terza componente di questa regola universale della “rappresentazione mediatica” (ecco perché ce ne occupiamo in questa rubrica che si intitola “Il biglietto da visita” e si occupa in senso lato di “rappresentazione”) è una regola anch’essa mai trasformata in norma, ma che è costitutiva della professione giornalistica. E cioè questa: la notizia deve “far notizia”.
Più è questo l’effetto immaginato o sperato, più quella notizia viene prima di altre. Poi giocano vari fattori: lo scoop, il mezzo scoop, la ripresa di uno scoop, la battaglia editoriale che premia più della notizia professionalmente forte. Ma in buona sostanza il professionista delle news ha il potere di dirci: questa è la cosa più importante e questo – se vuoi – è il trattamento che ti viene servito per un piccolissimo prezzo perché tu ti faccia un’idea, un’opinione.
Forse ai più non interessa farsi un’idea e neppure avere un’opinione. Forse un certo tipo di persone preferisce avere l’opinione che circola, quella sentita al bar, sul tram, dal vicino di casa. Ma così facendo, si corre il rischio di essere sempre al traino, come una pecorella smarrita che subisce la “Vox populi”.
Insomma, qualcuno che rinuncia a mettere, tra gli interessi di altri e il suo interesse, la barriera del suo cervello. Se si vede poi che un paese come l’Italia conta uno dei tassi più alti in Europa di analfabeti funzionali (so leggere e scrivere ma non capisco un’acca di quello che dicono i media e di coloro che parlano attraverso i media) si capisce che l’Italia apre molto il fianco alle manipolazioni.
Sembrerebbe così che, se i media scrivono il tema più importante oggi è questo, la maggioranza si debba formare automaticamente. Ma in realtà non è così, almeno teoricamente.
Per due fondamentali ragioni che contano in una democrazia fondata sulle libertà personali e collettive.
- La prima ragione è il pluralismo delle voci in campo, che, se davvero salvaguardato, permetterebbe in principio di differenziare tanto la gerarchia quanto il trattamento della notizia.
- La seconda ragione – che lo sviluppo di Internet ha naturalmente consolidato soprattutto attraverso i social – è che una parte dei lettori/ascoltatori può aggiungersi alle opinioni dei professionisti dell’informazione, andando globalmente a creare un altro fronte di opinionisti, magari meno competente, meno documentato (qualche volta è serio e documentato, ma il rischio che prevalga pressappochismo resta il problema principale della rete) così da produrre un sistema secondario di fonti che in un paese libero in qualche modo contribuisce a limitare e ridurre il pensiero unico, facendo – si intende – anche qualche danno nel rapporto tra vero e falso.
Ma c’è un “però”. Malgrado queste diversificazioni, si assiste, negativamente, anche a un altro fenomeno. Che va sotto il nome di trending topic. Nei media, troppi non scelgono le principali notizie in base a un criterio di valutazione tecnica civile, sociale, etica. Ma accodandosi a ciò che “tira”. Così da puntare a più ascolti o più vendite sulla linea del gregge.
E questo fenomeno ripropone alla fine il rischio del pensiero unico.
Ecco perché assume importanza seguire anche la buona (o presunta tale) demoscopia.
Non solo quella che viene svolta per vedere se una marca, un prodotto, un candidato hanno o non hanno consenso. Si chiama marketing, costituisce la dominante della domanda di questo mercato, serve a piazzare sempre qualcosa: un profumo, un’automobile, un candidato al Parlamento, eccetera.
Poi c’è anche quella che si occupa di quel che la gente pensa davvero attorno ai problemi del tempo in cui viviamo. Addirittura a valutare, rispetto a ciò che fa notizia più di altro, cosa sia più importante, cosa lo sia meno. E’ un genere di prodotto, diciamo così, anch’esso in vendita, ma non per promuovere altri prodotti ma per trovare sui media stessi o comunque nel mercato una domanda interessata a questo genere di analisi.
Ecco che, se ci fidiamo della fonte (cioè se cerchiamo di capire bene perché o per chi quell’indagine è condotta, soprattutto se su questo aspetto c’è trasparenza) diventa interessante confrontare l’esito di una rilevazione, rispetto alle indicazioni che i media che seguiamo personalmente propongono, profilando – ogni giorno, ogni ora – una certa gerarchia delle notizie. E poi i rispettivi trattamenti.
Le rilevazioni delle istituzioni europee sono in principio serie (per esempio Eurobarometro). Anche quando indagano se la gente si fida o no dell’Europa. Giusto chiederci: ma se poi scoprono che la gente non si fida dell’Europa, cosa fanno? censurano? non pubblicano? Può darsi, ma così sarebbero presto sbugiardate, perché la cosa si saprebbe e perché alla democrazia fa bene guardare in faccia la realtà per migliorarla.
In questo caso – finendo ora la lunga premessa generale e dando anch’io qualche notizia – si tratta di un serio istituto di ricerca, Ipsos, diretto in Italia da Nando Pagnoncelli, che fa delle rilevazioni non solo legate alle opzioni di acquisto (anche un voto è un’opzione di acquisto), ma per cogliere l’andamento corrente del pensiero collettivo in merito ai temi del momento.
La gerarchia delle cose importanti che esce da queste analisi può collimare ma può anche non collimare con quella proposta dai media. In ogni caso si tratta di un esito interessante da capire perché rimescola il bersagliamento mediatico, ma anche il passaparola popolare e anche il sistema di stereotipi e di pregiudizi che è parte di qualunque cultura sociale radicata.
Nando Pagnoncelli, come ho detto, ha presentato il 18 gennaio a Bologna la sintesi di questa ultima rilevazione intitolata “Quale clima economico e sociale in Italia”.
Eccomi qui a parlarne nel merito.
Tralascio le prime slide sul comprensibile ribaltamento di dominanti sul pessimismo e l’ottimismo in un anno in cui la “crisi” (quella pandemica) si è trasformata in una “policrisi”, per fissare l’attenzione su due tabelle dedicate ai principali problemi dell’Italia considerati dagli italiani (due opzioni, primo e secondo posto).
- Parlando in generale dell’Italia: una grande maggioranzal’84% segnala occupazione ed economia, il 55% dice welfare. Poi staccatissimi gli altri problemi: il funzionamento delle istituzioni 24%, l’ambiente 22%, la sanità (Covid compreso) scende al 21%, e – spero lo notino coloro che battono su questi due tasti come i principali – l’immigrazione il 18% e la sicurezza il 13%. Colpisce, perché non è un bel segnale civico ma se ne possono capire le ragioni, che la guerra in atto sia all’ultimo posto, all’8%.
- Spostata la domanda sulla propria zona di residenza, è la solita storia degli italiani per i quali a casa propria le cose vanno meglio e comunque è in Italia che vanno sempre peggio. Al primo posto c’è sempre occupazione ed economia ma al 49%, al secondo posto la mobilità al 34%, al terzo l’ambiente 33% come l’welfare, al 20% il funzionamento delle istituzioni, al 19% la sicurezza; sanità e COVID al 12% e, ultimo posto, l’immigrazione al 9%. La guerra, vista da casa, è sparita.
Ora, noi siamo abituati a sfogliare quotidiani e settimanali con la velocità del fulmine. Figuriamoci tabelle e istogrammi.
Ma, vedete, se non ci mettiamo un po’ di pazienza, entro un’ora dei dati che vi ho rifilato in sintesi vi rimarrà in testa a malapena che gli italiani sono preoccupati per l’economia e l’occupazione.
Che non è una grande scoperta! Cioè, senza strizzare un po’ queste slides, rischiamo di non vedere alcune ombre che camminano dietro i numeri. Ho fatto un cenno al costume degli italiani che vedono rosa in casa (dove vivono e lavorano) e nero in Italia (dove percepiscono). Non è solo colpa dei media. E’ anche una deformazione localistica degli italiani. Al contrario della Francia in cui le cose che avvengono nella grande France sono meravigliose e di quelle che stanno fuori dall’uscio di casa meglio diffidarne.
Ma guardiamo un po’ più da vicino la faccenda.
La preoccupazione economica per l’Italia è all’84%. Come di fronte a una catastrofe. Pensando a casa propria però anche la discesa è enorme, scende del 35%. La preoccupazione arriva al 48%, insomma sfiora ma non arriva alla maggioranza.
E così scende la preoccupazione per l’welfare, dal 55% al 33%, già proprio l’welfare che riguarda i luoghi dove si vive e si lavora.
E persino la sanità (Covid compreso) che non è tra le preoccupazioni maggiori (21%) ma se riferita a casa propria quasi si dimezza, arriva al 12%.
In verità l’unica preoccupazione che sale, passando dall’Italia a casa propria, è per la Sicurezza.
Bassa a livello nazionale (13%) ma a casa propria va al 19%. E qui c’è un tema. Perché furti, rapine, reati, femminicidi, dove volete che accadano? Genericamente in Italia? No, in posti identificati, percepiti come assimilati alla propria residenza.
Qui la regola non vale per tutto. E un altro dato ci dice che il proprio Comune, il Municipio insomma, non è più immune come una volta. Le istituzioni funzionano male. Per l’Italia lo dice il 24% (dato per altro migliore del dato Demos di fine anno che spostava questa sfiducia attorno al 36/40%), ma se si pensa a casa propria è solo un filo meglio (20%) ma non “molto meglio”.
Ultimo argomento da chiosare nell’ambito locale è che spunta al secondo posto un argomento che non c’era nelle indicazioni nazionali, la preoccupazione per la mobilità. Perchè evidentemente le infrastrutture funzionano per collegare le metropoli ma appena scarti diciamo nel paese reale, tutto si fa difficile. E l’Italia che non va in alta velocità te lo ricorda tra le cose più importanti.
Gli approfondimenti di Ispos ci spiegano poi un po’ meglio la dominante “occupazione ed economia”. Ci dicono tre cose, ognuna di un certo rilievo.
- La prima è che i conti di casa non quadrano nell’ammissione del 65% degli italiani e che uno su due (48%) lamenta di non riuscire più a risparmiare, ovvero che l’inflazione si sta mangiando i risparmi.
- La seconda è che la piramide sociale si allarga alla base, erodendo di nuovo il ceto medio, soprattutto la componente che sta sul filo del rasoio della crisi. Il ceto medio perde il 9% di percezione di appartenenza. E così coloro che si ritengono “ceto medio in discesa” si dichiarano al 35%, determinando una spinta verso la base (in basso) della maggioranza degli italiani,
- La terza – senza che la politica faccia cambiare questa percezione – è che pochi pensano che sia possibile fare ancora previsioni lineari. Il che vuol dire che aumenta, fuori norma, l’incertezza personale del futuro, anche quello immediato.
Il giudizio finale collima con gli altri rapporti di ricerca di cui abbiamo parlato di recente: Censis dice che gli italiani sono latenti, malinconici, rinunciatari. Demos dice che la sfiducia verso le istituzioni cresce.
Purtroppo, in questa rilevazione Ipsos, non migliorano i sentimenti diciamo di solidarietà.
Che pur esistono, negli ospedali, nei luoghi di lavoro, soprattutto all’interno di comunità abituali.
Ma se il tema si svolge lontano, addio buoni pensieri. La guerra è sparita dai radar degli italiani (abbiamo detto 8% a livello nazionale, ma nessuno la cita tra le preoccupazioni a livello locale).
Tanto che a sollecitare qualche preoccupazione arriva una domanda puntuale. Ma comunque sull’argomento cosa ti preoccupa di più: gli aspetti umanitari? (lo dice solo il 15%), il rischio di un coinvolgimento bellico? (lo dice il 19%), riverberi negativi sulla situazione economica (ecco, si torna al punto, lo dice il 53%).
Una volta si sarebbe detto – a fronte di un quadro così – come fosse un quadro immediatamente post-bellico ma senza l’entusiasmo della ricostruzione – che la politica, se ci fosse, avrebbe un immenso lavoro pedagogico da fare. Non ho detto propagandistico. Ho detto pedagogico, come lo pensava Massimo D’Azeglio.
Arriva il momento in cui bisogna aiutare gli italiani a pensare, a essere, a leggere in modo più solidale il cammino umano, anche con le sue storture e magari per reagire ad esse abbandonando una quota di malinconico rinunciatarismo.
Ma questa – come tutti capiscono – è un’altra storia.