
Che cos’è la comunicazione, quali sono i suoi risvolti?
Il nostro tempo, il vostro futuro.
Aula Magna del Liceo scientifico “Federico II di Svevia”
Melfi, 24 febbraio 2023
Stefano Rolando
Presidente della Fondazione “Francesco Saverio Nitti” (Melfi/Roma) e professore alla facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università IULM di Milano.
Buongiorno a tutte e tutti – studenti, insegnanti e caro preside prof. Armentano – grazie per essere qui in gran numero e per avere accolto la proposta di Associazione e Fondazione Nitti (che operano nel nome di un grande melfitano, il cui nome è nelle scuole, nelle vie, nelle piazze della città) di aprire un dialogo proprio con la generazione che si trova ad un anno dalla “maggiore età”. Dunque, in prossimità di assumere nuove responsabilità: di voto, di scelte per il futuro, di percorsi legati alla vostra cultura e alla vostra conoscenza.
I quattro incontri che abbiamo immaginato – insieme al Preside – si intitolano “Il nostro tempo, il vostro futuro”. Il presente ci sta riguardando tutti, ma esso è breve, brevissimo. Pronunciamo la parola ed è già passato. E quel futuro sarà più chiaro e con meno incertezze se riuscirete a scrutare meglio la nostra storia comune (le radici, le eredità) e se l’attualità sotto gli occhi riuscirete a leggerla con uno spirito critico, vedendo le cose buone ma anche i mali e le storture che il nostro tempo contiene. Da qui la scelta di quattro parole, apparentemente semplici e chiare, per discutere insieme anche i loro risvolti, la loro complessità. Oggi è la parola “comunicazione” – confrontando l’idea del perimetro che voi avete di questa parola e la sua reale consistenza (anche qui opportunità e rischi) che spero di potervi illustrare meglio. Poi le parole “legalità” e “democrazia” che contengono discussioni, conflitti, diversità su cui è bene gettare ora lo sguardo. E infine la parola “guerra” (che essendo il peggio che possa capitare al genere umano attraversa anche le parole precedenti e le trasforma tutte in senso negativo).

Comincio a parlarvi del tema prescelto per oggi e su cui lavoro ancora come professore universitario, essendomene tuttavia occupato anche per tutta la vita svolgendo varie professioni. Ogni tanto vi mostrerò un’immagine per aiutarvi a fissare meglio l’attenzione. Potrebbe far sorridere che una persona di una certa età – comunque nata molto prima dell’era internet – spieghi a dei giovani nati praticamente dentro un telefonino che cos’è la comunicazione. Ma lo scopo di questa chiacchierata è di provare a spiegare i lati a voi nascosti o forse meno visibili o meno praticati di un fenomeno che ha molti aspetti e che tra la mia e la vostra generazione è diventato la prima economia del mondo. È probabile, infatti, che per me e per voi la parola “comunicazione” significhi cose diverse.
Con una figlia nata l’anno di inizio dell’era internet – cioè il 1995 – l’ho capito molte volte. Proverò a tenerne conto. Ma considero un dovere oltre che una scommessa provare a trasferirvi qualcosa di quei significati più ampi attorno a cui si allarga il mercato del lavoro e quindi si aprono più possibilità per la vostra stessa generazione.
La prima economia del mondo nell’ultimo secolo è cambiata almeno quattro volte. All’inizio del ‘900 era la meccanica, poi dopo l’invenzione dell’illuminazione è diventata l’elettricità (Lenin aveva lanciato lo slogan: comunismo è soviet più elettrificazione).
Poi – tra le auto che andavano a benzina e l’invenzione della plastica – la prima economia del mondo è diventata la chimica. E nella seconda metà del ‘900 è diventata l’elettronica. Con il cambio di secolo mettendo insieme la comunicazione (il messaggio che vi sto dando in questo momento) e le comunicazioni (tutti i mezzi possibili e immaginabili con cuoi si può trasmettere da vicino e da lontano questo messaggio) questa galassia è diventata la prima economia del mondo.
Ma che vuole dire “prima economia”? Vuol dire che ci sono centinaia di mestieri connessi. Vuol dire che ci sono molte tecnologie che riguardano questo campo. Vuol dire che il valore aggiunto di ogni prodotto connesso ripaga gli investimenti, remunera chi ci lavora e fa mettere da parte profitto destinato ad ampliare il settore.
Questo significa tre cose:
Che la comunicazione è diventata anche un grande potere.
Che la comunicazione è diventata un pianeta con disuguaglianze.
Che la comunicazione (come la medicina) può fare molto del bene. Ma può anche fare molto del male.
Poi ce ne è anche una quarta, che – come ho già detto – riguarda il punto di vista delle generazioni. Proprio per intenderci (o non intenderci) su questa parola. Ma questo è il cuore del mio discorso e ci arriverò solo tra un po’.
Proverò tra poco ad approfondire un po’ questi concetti. Ma prima di farlo vi dico che cosa ho fatto io nella vita per avere qualche motivo di parlare ad altri di questa materia. E’ un modo per fare intendere anche i tanti campi (di conoscenza, di lavoro, di contenuti) che questa parola contiene e che possono essere attraversati tutti o quasi tutti in una lunga esperienza di vita. La mia è cominciata con il giornalismo e l’informazione.
A 10 anni producevo a mano i giornaletti di famiglia e di quartiere
A 16 anni ero direttore del giornale del mio liceo, il liceo classico Carducci di Milano, lì ho imparato il profumo delle tipografie e la costruzione di una comunità di lettura (chi scrive e chi legge come parti dello stesso temporaneo destino).
A 20 anni scrivevo su quotidiani, settimanali e mensili, soprattutto di politica internazionale e di diritti umani, guadagnando qualche lira e preparando il dossier per iscrivermi al più presto all’Ordine dei giornalisti.
A 22 finalmente iscritto all’Ordine dei giornalisti, questa cosa mi sembrava già un punto di arrivo ma era solo un piccolo punto di partenza.
A 25 anni andavo a lavorare in una delle agenzie di comunicazione (pubblicità e PR) più rilevanti tra Roma e Milano nel campo della comunicazione di impresa. Ho imparato la grafica, il copywriting, la redazione di riviste tecniche, gli audiovisivi, l’architettura dei padiglioni, la pubblicità. Ho cominciato a girare il mondo. La mia passione era il prodotto.
A 27 anni inventavo Firma Italia che ho portato all’estero, dalla Persia al Brasile. Dietro alle imprese un mondo di grandi creativi. Nomi famosi dell’arte, del cinema, della letteratura. Una specialità italiana.
A 29 anni entravo alla Rai come assistente del presidente della televisione italiana, da lui chiamato per l’esperienza concreta che avevo fatto fino a quel tempo. Lì ho conosciuto la comunicazione di massa, il rapporto tra cinema e tv, la meraviglia della radiofonia, la mitologia delle professioni dell’informazione, il rapporto con la politica e le istituzioni, una grande macchina di cultura, comunicazione e spettacolo. Dopo Paolo Grassi (uomo di teatro) sono stato in Rai anche l’assistente del suo successore, forse il più grande giornalista della radio e della televisione italiana, Sergio Zavoli.
A 34 anni – distaccato dalla Rai – facevo il cinema come direttore generale dell’Istituto Luce (33 film per le sale e 100 documentari per la tv in tre anni). Un ente storico da rimettere in piedi.
A 37 anni il governo mi chiamava a Palazzo Chigi come direttore generale dell’Informazione. Serviva che trasferisse nello Stato quello che allora l’impresa sapeva fare meglio: comunicare con i cittadini. Lì realizzai mille prodotti di ciò che si sarebbe chiamato da quel uno tempo “comunicazione pubblica”. Ho proseguito questa esperienza per dieci anni con dieci capi del governo.
A 47 anni lasciavo l’amministrazione per tornare nelle imprese e facevo il direttore centrale del gruppo Olivetti che da un secolo era la punta di diamante dell’industria italiana delle telecomunicazioni. Era il 1995, all’anno di internet e vidi il parto da molto vicino.
A 53 anni facevo il concorso a cattedra per insegnare a Scienze delle Comunicazioni, cosa che ho fatto poi per 20 anni a Roma, a Siena, a Milano, a Lugano e comunque di ruolo a Milano fondando praticamente nelle università la disciplina della comunicazione pubblica.
Negli ultimi dieci anni della mia vita mi sono occupato di comunicazione politica e di comunicazione sociale. Campagne concrete. Esperienze eccitanti.
Ho fatto parte del Consiglio superiore delle Comunicazioni a Roma (organo di consulenza del governo) e più recentemente ho fatto parte dell’Autorità regionale delle comunicazioni in Lombardia. Cioè le politiche in materia di comunicazione.
In ogni mia esperienza lavorativa ho proseguito a latere il giornalismo. Alla fine, ho scritto 4000 articoli e 70 libri.
Dal 2008 presiedo a Melfi la Fondazione Francesco Saverio Nitti, un grande lucano che divenne un secolo fa capo del governo e uomo di popolarità internazionale, colto, magnifica penna, molti libri e molta intelligenza. E da alcuni anni presiedo anche a Milano la Fondazione Paolo Grassi, grande organizzatore culturale e uomo di teatro di cui fui appunto assistente quando era presidente della Rai.

Tutto si tiene nella mia vita. E tuttavia se mi chiamano “un uomo della comunicazione” non mi ci ritrovo tanto in questa definizione. Provo a spiegarvi il perché.
Ormai si dice questa parola per significare una cosa che mi sembra riduttiva e che non mi piace molto: “L’arte di raccontargliela alla gente”. Un po’ intendendo che si semplifica. Un po’ intendendo che gliela si conta su. Ora la comunicazione può facilmente trasformarsi in propaganda. E questo – in tutti i campi e soprattutto nella politica – può comportare rischi e pericoli. La propaganda è la perdita di verità. La propaganda è abbellire una cosa solo per convenienza. La propaganda è far cadere sull’avversario lampi, tuoni e fulmini per screditarlo. Questa comunicazione – devo dirvi francamente – non mi ha mai interessato e non mi interessa. Mi interessa partecipare a un processo di rappresentazione, cioè il grande teatro in cui tutto e tutti trovano un copione e degli interpreti per spiegare ragioni ed argomenti, per trasferire conoscenze, per mettere chi sa nelle condizioni di far crescere i diritti e la qualità della vita di chi non sa.
Ecco, alla luce di questo mio punto di vista, posso ora dire qualche parola in più sui tre concetti che vi ho accennato prima:
La comunicazione è diventata anche un grande potere.
Il ‘900 ha riguardato prima la fotografia, la stampa (libri e giornali) e la radio, poi il cinema, la televisione e l’elettronica. Il cambio di secolo ha aperto le porte all’immensa transizione digitale in cui siamo immersi. Da comunicazioni verticali, punto a punto, siamo passati a comunicazioni orizzontali senza centro e periferie, dove tutti possono entrare interattivamente e in cui la velocità e la sintesi hanno preso il posto di una estetica che si è continuamente adattata ed è continuamente cambiata. Anche la pubblicità ha avuto un’evoluzione spettacolare e ha retto per più di un secolo diventando sia un contenuto della comunicazione sia una delle risorse più importanti del sistema. E’ ovvio che essere padroni dei mezzi (i media, si diceva una volta, ora contano le piattaforme, gli algoritmi) è un potere (poter di dire, potere di dar voce, potere di rappresentare e naturalmente anche di omettere) e in fondo anche una forma di ricchezza.
Ciò di per sé non è né un bene né un male.
Per cui la buona e la cattiva comunicazione non vanno distinte solo se sono ricche o povere ma se migliorano il mondo e la qualità della vita oppure no.
Da vari anni un ras della comunicazione può diventare capo di un governo. Cosa che gli americani temevano molto, ma alla fine hanno ceduto anche loro. Prima un attore (Reagan), poi un commerciale che vende di tutto curando gli slogan e i dettagli comunicativi (Trump). Da noi Berlusconi, stesso modello. Un tempo bisognava essere almeno ordinario di Diritto costituzionale, di Storia romana, di Economia industriale per diventare uno “statista”. Ora anche il potere politico va dietro ai nuovi modelli.
La comunicazione è diventata un pianeta con disuguaglianze.
Già, poteri vecchi e nuovi. Rappresentare, dare e togliere la parola è un grande potere. Anche se la Costituzione dice: tutti hanno diritto di pensare e parlare, tutti debbono e possono essere informati liberamente (articolo 21). Eppure, in fatto di informazione e comunicazione che trasmette conoscenza e soprattutto comprensione della realtà, le disuguaglianze sono ancora forti. Una volta c’erano gli analfabeti che non sapevano leggere e scrivere. Oggi questo genere di analfabetismo è stato combattuto e nel mondo oggi resta al 18%. Al tempo dell’unità d’Italia gli analfabeti nel nostro Paese erano il 78%. Dopo l’anno 2000 è rimasto totalmente analfabeta il 10% della popolazione. Dispiace vedere che i numeri più alti erano ancora in Basilicata (13,8%) e la Calabria (13,2%). Ora (2022) dice l’Istat l’analfabetismo puro è ridotto all’1 o 2%. Ma purtroppo sono a poco a poco cresciuti gli analfabeti di ritorno e soprattutto quelli cosiddetti “funzionali”: non capiscono neanche una parola di quello che diciamo adesso, non intendono le parole dietro un’immagine della televisione, un articolo di giornale per loro è arabo. A seconda delle stime e di cosa si intende per “non capire” si va dal 30 al 40%.
Immaginate voi quali disuguaglianze comporta questo muro di non comprendere quasi nulla nei contenuti di ciò che circola nei sistemi informativi e comunicativi.
La comunicazione (come la medicina) può fare molto del bene. Ma può anche fare molto male.
Il punto centrale tra il bene e il male è compreso nel fatto che è cresciuta anche un’altra cosa. E – dicono recenti studi dell’Università di Oxford – in particolare tra le giovani e le giovanissime generazioni. Cioè la crescente difficoltà di cogliere bene la differenza che c’è tra il vero e il falso.
Il falso può generare gravi conseguenze. Il vero deve essere accompagnato da molta verifica e molta spiegazione, per non indurre a fanatismi.
Molti dicono che la rete stessa, che è fonte di molte informazioni, di risposte a molte domande, di un flusso enorme di notizie e opinioni, proprio per questo moto ondoso, oceanico, immenso che ci sta attorno, a cui tutti accedono anche senza la minima guida, diventa per molti una specie di luogo in cui capita di dar ragione a tutti coloro che hanno conflitti di opinione. Perché mancano troppo spesso le condizioni di sapere storico e la capacità di cogliere il nesso tra una notizia e l’altra. Cioè le condizioni indispensabili per valutare, misurare, scegliere. Su questo fanno conto tutti coloro che pensano che ci sia mercato per rifilare le cosiddette “bufale”. A volte basta un amico a spiegarci che quella cosa non sta in piedi. Ma più spesso l’amico diventa un altro anello delle catene della manipolazione. Ciò responsabilizza molto scuola e famiglie, ma non tutti sono all’altezza di correggere il tiro e lavorare nella prevenzione.
Adesso devo occuparmi un momento del punto di vista generazionale sul senso stesso di questa parola. Avete sentito quante cose vengono in mente a uno come me se si evoca la parola “comunicazione”. Ma tra i 15 e i 25 anni (qualcuno anche prima, qualcuno anche dopo) l’evocazione fa venire in mente prima di ogni altra cosa il campo della relazione interpersonale. Cioè quella che si svolge tutta all’interno del vostro fratellino preferito, quello che se finisce nell’acqua o vi cade dal balcone siete pronti al suicidio, cioè quello scatolino nero e lucido che sta in una mano mentre il nonno di questo aggeggino solo mezzo secolo fa era grande quaranta, cinquanta volte tanto, stava dentro una cabina telefonica e funzionava solo se ci si mettevamo i gettoni prepagati. Il telefonino. Sali su un tram e dieci ragazzi in fila, seduti con gli occhi dentro il telefonino, fanno finta di non vedere il vecchietto che gli sta davanti non perché non hanno voglia di alzarsi e perché sono maleducati, ma perché se devono impiegare una mano per reggersi alle maniglie, si dimezza la velocità di replicare alle chat che è il maggior impiego di tempo libero di qualunque giovane nel mondo, compresi quelli che fanno professionalmente lo sport. Malattia di massa.
La parola comunicazione, per tutte le generazioni nate con internet o dopo internet (se ne contano ormai quattro) è, in apparenza, gratuita, sfrenata, liberatoria, libera, cazzeggiante, improduttiva, senza padroni, senza conseguenze.
Apparentemente è anche senza scopo e senza violenza. Ma questo, come sapete, non è vero, perché a volte scopo e violenza sono una cosa sola, entrano in gioco e producono sfracelli. Senza questo aspetto gli adulti non si sarebbero mai intromessi, perché in apparenza mai nella storia i ragazzi sono stati così buoni e docili (dico ancora in apparenza), accontentandosi di un telefonino in mano con carta prepagata e giga sufficienti per scrivere a chi pare loro e sentire tutta la musica memorizzata. Ai miei tempi la strada d’asfalto era una attrattività irrefrenabile. Uscire dalle grinfie dei genitori o dei nonni sorveglianti e ficcarsi nella mischia del pallone nei campetti e nelle strade attorno. Tornare a casa almeno con le ginocchia sbucciate se non qualche caviglia storta. Rubare i minuti alle puntualità indifferibili, il pranzo a casa o la campanella a scuola, ma non perdersi un dribbling con il compagno di banco diventato per quella mezzora un acerrimo nemico.
Tutto questo è preistoria rispetto alle ore della telefonomania.
E la comunicazione in questa cornice ha il suo protagonismo come arte di forgiare immagini, parole, sigle e iconcine che fanno sintesi del rapporto tra eventi storpiati ed esiti stupefacenti, che diventano poi protesi per le narrative personali, modi di stupire e divertire, assicurando risultati che possono essere riprodotti all’infinito, ogni volta traendo motivo di grandi risate.
Parlo per esempio soprattutto dei meme (tecnica principe dei social super-giovanili) che derivano il loro nome dalla memetica – cioè la condizione di riproducibilità di un fenomeno naturale o biologico – che prende la forma di un gesto e di una parola, a volte una sola parola, che, decontestualizzati, diventano virali. Con infiniti significati, in cui trovano posto solo brandelli della comunicazione che attraversa il mondo degli adulti – a cui ho fatto cenno e di cui tra poco continuerò a parlare – perché nel dialogo inter-personale e inter-telefonico conta il frammento stravolto che, ripetendosi all’infinito, diventa mitologico. Che poi esso riguardi Salvini che dice “Ah no?” o Mattarella che dice “Abbiamo problemi da non sottovalutare”, trascende la politica perchè conta piuttosto l’effetto comico della ripetizione di quelle parole, non la posizione politica di che le ha dette all’origine.
In questo diluvio di segni, segnini, parole e paroline, confesso che talvolta mi diverto anch’io. Dal vedere scendere un velo (con la scritta pietoso) o vedere la parola “vene” intrecciata alle parola “tagliare” riconosco a volte le modalità che mia figlia, che ha 27 anni, usa (insieme a occasioni qualche volta molto carine) per esprimere contrarietà alle cose che dico o che scrivo.
Mi fermo qui perché non volevo sembrarvi un marziano che non cerca di capire che usiamo parole comuni per connotare cose diverse. Penso che anche per voi esistono principi evolutivi che trasformeranno queste esperienze. E penso che per molti di voi si apriranno scenari in cui le parole, i segni, i messaggi assumeranno nuove complessità.
Abbiamo intitolato questo ciclo “I nostri tempi. Il vostro futuro”. E le nostre parole devono guardare oltre i nostri tempi perché chi vuole provi a lanciare uno sguardo sulle scelte (la prima, grossa scelta, vi riguarda a breve, cioè fra un anno e sarà importante per cambiare inesorabilmente sguardo) ed è questo il momento in cui ha senso provare a intercettare se non lo sguardo proteso di tutti, almeno di quelli che pur sentendo ancora la nostalgia dell’adolescenza, sono anche interessati a capire cosa si sta preparando appena dietro all’angolo.
Dunque, torno alla comunicazione come la intendo io. Ma anche come la intendono i mercati, i commerci, le imprese, i costruttori e i venditori dei vostri stessi telefonini.
Innanzi tutto, per ricordarci una cosa. La comunicazione – in ogni tempo – ha i suoi profeti nell’approccio propagandistico. Anzi nel ‘900 sia la politica che il commercio hanno inventato di tutto per accalappiare gli occhi di cittadini da trasformare in sudditi e gli occhi di utenti da trasformare in consumatori. Nazismo, Fascismo, Comunismo hanno inventato eventi, simboli, parate, parolone, effetti sonori, per plasmare le coscienze. Una gara fino all’ultimo dollaro e lira spesa con il sistema commerciale che ci ha fatto ridere, divertire, sognare pur di acquistare una saponetta, un dado da brodo, un dentifricio e anche un’automobile, un viaggio ai Caraibi, un gioiello o un vestito di lusso. L’idea è che magari tu sei nessuno, ma se dai il tuo consenso al grande leader o se compri quella saponetta, ebbene il prodotto ti premia e ti da il massimo che tu puoi avere dalla vita: la felicità. Non crediate che sia facile smontare questa stupidaggine. I più hanno molto bisogno di crederci.
Ecco perché il ‘900 – e quel che spunta di questo nuovo secolo e di questo nuovo millennio – hanno prodotto anche studiosi e critici di questo sistema, che hanno fatto capire pregi e limiti, difetti e persino gravi imperfezioni di quel giochetto innocente che va sotto il nome di “A me gli occhi please”. Uno dei più famosi è proprio un italiano conosciuto in tutto il mondo per i suoi romanzi (tra cui Il nome della rosa) che si chiamava (perché purtroppo è scomparso qualche anno fa) Umberto Eco. Di cui ero amico, con il quale ho collaborato in varie occasioni. E di cui è stato ripubblicato in questi giorni il breve saggio “L’era della comunicazione. Dai giornali a Wikileaaks”. Gli intellettuali dovrebbero avere tutti il compito di metterci in guardia, di farci capire il risvolto della medaglia. Ma, in positivo, soprattutto Umberto Eco – che possedeva la più grande biblioteca privata che io abbia visto nella mia vita – aveva il pregio di mettere dentro la parola “comunicazione” molte cose che anch’io considero la filiera complessa della materia.
- Le biblioteche, appunto, il luogo delle radici (oggi anche la rete è diventata la miniera che custodisce molta memoria);
- i secoli in cui si trasferiva la conoscenza copiandola; la velocità delle scoperte dall’età di Gutemberg ai Social;
- la nuova era della comunicazione integrata – una parola cioè che vuol dire che tutti i mezzi, tutte le forme, tutti i linguaggi – hanno la possibilità di intersecarsi, di essere parti di un processo;
- e poi le vie specialistiche in cui la comunicazione diventa parte di una storia, di una disciplina, di una visione.
Da qui nasce la comunicazione scientifica, la comunicazione religiosa, la comunicazione sociale, la comunicazione sportiva, la comunicazione per le crisi e le emergenze. Eccetera eccetera eccetera. Ciascuno di questi ambiti chiede di essere bravi in almeno due cose: conoscere la comunicazione e conoscere la materia di cui essa deve occuparsi.
È difficile saltare da una cosa all’altra, lo fanno alcune agenzie preparate un po’ a tutto.
Ma di solito il capo della comunicazione di un ospedale (che deve capire anche di medicina, di medici, di malati) finisce per fare quello nella sua vita di lavoro.
Ed è – per ogni materia – una montagna di cose oggi indispensabili.
La cosa oggi indispensabile in questo campo è capire la relazione tra forma, contenuti e tecnologia. Un mix che si modifica in ogni circostanza, in ogni occasione, per ogni diverso pubblico di riferimento. Rendendo sempre più chiaro che la separazione tra umanesimo e tecnica, in questo campo, è una regola davvero superata.
Tanto che uno dei profeti della comunicazione moderna, Marshall Mc Luhan, sociologo canadese morto a Toronto nel 1979, coniò la famosa etichetta: “il mezzo è il messaggio”. Che si è rivelata spesso vera, talvolta no, ma comunque ha influenzato molto la ricerca sull’immaginario collettivo nella fase storica in cui la tecnologia cambia velocemente così come velocemente cambia l’immaginario collettivo (McLuhan chiamò questo intreccio “il villaggio globale”).
Mi rimane ancora da parlarvi brevemente di una cosa che potrebbe riguardarvi nella vita. Per ora siete tutti consumatori di comunicazione, anche quando fate tutti i vostri messaggini, tutti i vostri tweet in realtà siete parti di un’interazione personale o di gruppo in cui il carattere produttivo non è professionale perché è compiuto con la psicologia di chi consuma un rito, raramente di chi lo crea, lo inventa, lo produce. Il clic però può succedere. E non è un caso che ragazzi nelle università hanno fatto scattare un clic, passando da consumatori a produttori. Ed ecco lì che un tipo che si chiama Marc Zuckerberg, nato a White Plains negli USA nel 1984, insieme ad alcuni suoi compagni della Harvard University, si è inventato un bel giorno Facebook, copiando il nome dai libri con dentro i nomi e le foto dei dormitori dell’università. Nel 2008 Zuckerberg ha donato in beneficienza il suo primo miliardo di dollari. Provate a immaginare che patrimonio finanziario ha creato. Tanto che la lista dei soldi che ha donato è la cosa più lunga della sua biografia. Lo so che uno su un milione tra tanti ragazzi che capiscono di innovazione arrivano a questi livelli. Ma quello che è evidente è che ci arrivano.
Ai miei studenti quando iniziano il triennio di Scienze della Comunicazione (diciamo voi tra un paio d’anni) chiedo subito: vi è chiaro in qualche pianeta siete atterrati? Vi è chiaro per quale indirizzo vi sentite più portati? È la domanda che viene rivolta a chiunque si iscriva a Medicina o chiunque si iscriva a Giurisprudenza.
Siccome è difficile districarsi – perché una volta le professioni della comunicazione erano due (pubblicitari e giornalisti) oggi sono duecento (combinando settori, linguaggi, pubblici, forme creative e tecnologie) allora faccio loro risuonare nella mente queste parole:
- Vi sentite portati per la creatività, cioè scrivere testi, copioni, idee narrative (vale per libri giornali spettacoli tv e altro)?
- Ancora se avete una tendenza creativa volete mettere insieme alcune tecniche (fotografia, musica, arte, eccetera) oppure limitarvi a lavorare la cosa principale del sistema informazione-comunicazione, che è la parola?
- Oppure vi sentite portati per organizzare il lavoro di gruppo e assumere una responsabilità di management, di direzione, che comporta anche comandare ma soprattutto assumersi responsabilità degli obiettivi da raggiungere?
- Oppure ancora vi sentite portati per gestire le tecnologie sempre più importanti nelle attività comunicative?
- Oppure volete seguire il fatto che, come tutte le cose di potere, ci sono molti conflitti e che sono necessarie molte regole e quindi tra politica e istituzioni crescono gli ambiti in cui il sistema viene regolato?
Per coloro che pensano che comunicare non sia solo “parlare” (in tutte le tonalità, sussurando, esponendo, ammiccando, spiegando, gridando) ma anche avendo forme allusive o simboliche di rappresentare concetti, valori, auspici, proteste, ebbene la comunicazione appare anche come un mezzo importante per capire il proprio tempo.
Provate a entrare in una sala da concerti in cui non ci sia solo Mozart o Chopin. Ma anche la concertistica moderna. Fatta a volte di rumori. O che punta a rappresentare il frastuono del nostro tempo. Ugualmente in un museo di arte contemporanea non c’è più l’armonia di un Raffaello o di un Piero della Francesca. Potrebbe esserci una rigaccia di colore e quattro macchie. Che però hanno un significato che ci sfugge. Il problema di ogni generazione è molto semplice: sentire la necessità di interpretare i segni comunicativi del proprio tempo, pena l’avere un cointesto estetico del passato. Con tutto che quel passato può essere più confortevole, più estetico, più armonioso. Capire i segni richiede volontà e un pizzico di intuizione. Anche questo è un modo di vivere un aspetto appunto generazionale dei processi di comunicazione che la vostra generazione non può confinare solo nelle tecniche per gestire un telefonino.

Ecco, vi lascio risuonare queste domande e quest’ultima osservazione.
Ognuno potrebbe farsi un’idea più precisa sul tema “Che cos’è la comunicazione?” se lo affronta trovando in sé stesso una prima risposta alle domande che vi ho rivolto.
Il resto, cari ragazzi, viene con i tempo.
Dichiarazione ai TG che hanno seguito l’evento:
La videoregistrazione in diretta
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=944138189917345&id=100064278655457
Sono molto felice di vedere queste iniziative utili a diffondere il senso di una disciplina con enorme potenziale d’uso pubblico.
Sarebbe interessante formattare queste lezioni per una riproducibilità diffusa atta al cambiamento reputazionale della disciplina attraverso azioni di democratizzazione reale del dibattito sulla comunicazione.
Per far questo però potrebbe essere meglio non gettarsi contro l’epidemia (telefonomania) in atto ma almeno empatizzare coi sintomi ed immaginarne le cause.
La pervasività della comunicazione è legata alla scomparsa dei regolatori identitari, alla diaspora valoriale, all’annebbiamento del futuro.
Sono le discrepanze create dalla nostra evoluzione che hanno per ora impedito alla comunicazione di risolvere i propri mali. L’incapacità di trovare un linguaggio comune proviene dalla ricerca stessa di linguaggi in comune che portano però alla comodità accecante di sicurezze apparenti. Un fenomeno che colpisce molti. La modalità spiega bene il contesto: il medium è il messaggio, il meme grida consapevole dell’Assurdo, l’articolo di giornale grida ricercando un mondo passato.
Serve quindi problematizzare il tema e provare strumenti risolutivi. Individuare i problemi, fornire le armi, indicare il campo di battaglia, e guidare con l’esempio.
Bisogna ripetere questa iniziativa con più scuole e professori/cultori della comunicazione per normalizzare il dibattito e così formare una nuova significazione condivisa.
Infine mi è piaciuta molta la schematizzazione della comunicazione per la chiarificazione a potenziali studenti oltre che l’invito al riconoscimento della propria indole come matrice di un approccio conoscitivo personale. Da qui si apre la possibilità di co-creazione disciplinare se formalizzata in un quadro coordinato d’insieme.
Grazie. Un commento molto pertinente.