
Buongiorno a tutti, sono Stefano Rolando,
anche oggi l’argomento sottostante la riflessione è quello della rappresentazione, che riguarda fatti pubblici, fatti privati e fatti che sono al tempo stesso pubblici e privati. Come è il caso, per esempio, dei funerali.
Così da scatenare da tempo battute ispirate a critica, come questa di Voltaire: “Gli animali hanno sugli uomini questi vantaggi: non hanno teologi che li istruiscano, i funerali costano loro nulla, e nessuno promuove cause legali per i loro testamenti”.
O battute ispirate a umorismo, come questa di Woody Allen:
“Mio nonno era un uomo molto insignificante. Al suo funerale il carro funebre seguiva le altre auto”.
Sembra così evidente che non tutti i lutti, non tutti i funerali, non tutti gli addii ai nostri cari, sono uguali.
In generale sono specchio delle vite vissute, della personalità dell’estinto, del suo contesto sociale e territoriale, del rapporto suo e della sua famiglia con la socialità, la riconoscibilità, la notorietà. Ed è per questo che ha avuto il suo posto nella comunicazione di costume la ragione filosofica del testo poetico di Totò intitolato A livella. Che così comincia (scusandomi per il mio napoletano allusivo):
Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza
per i defunti di andare al Cimitero.
Ognuno ll’adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
E poi, tra nobili e poverelli che compaiono nelle descrizioni per rimarcare fino alla tomba le disuguaglianze, la “livella” del poeta porta giustizia a questo rito che la morte stessa non riconosce.
Totò e la sua sacrosanta verità non appaiono sufficienti tuttavia a modificare abitualmente l’ultimo atto.
L’estremo sforzo – talvolta sceneggiato dall’estinto ancora in vita, il più delle volte atto di omaggio della famiglia, della società o per alcuni dello Stato – è di mantenere le distinzioni.
Nessuna remora poi quando l’estinto appartiene al tempo stesso alla famiglia e al patrimonio simbolico sociale.
Il che vale pochissimo purtroppo ormai per i politici (anche quando molto meritevoli), poco per gli intellettuali e gli scienziati, molto per i protagonisti della comunicazione di massa, moltissimo per i detentori dei più alti indici di popolarità che riguardano principalmente il calcio e la televisione.

La scomparsa recente di Maurizio Costanzo (sulle scene televisive da una vita e che ho ben conosciuto fin da quando lavoravo in Rai tra gli anni ’70 e ‘80) sposato a Maria De Filippi (amatissima dal suo pubblico) ha rappresentato platealmente la trasformazione del lutto privato in lutto pubblico, con tutto ciò su cui giornali e telegiornali hanno scritto in questo periodo. Stiamo parlando della diretta dei funerali da Roma sulle due maggiori reti della Rai e di Mediaset, che ha totalizzato 7 milioni di telespettatori (per avere un parametro – ricordando che si tratta di un funerale – la diretta in eslcusiva della prima della Scala ha fatto 1,5 milioni; il capodanno in Rai con Amadeus ha fatto 5 milioni; la finale di Sanremo ha fatto 12 milioni; la finale dei mondiali di calcio in Qatar 16 milioni).
Ebbene, cosa hanno scritto i giornalisti?
Ha scritto Aldo Grasso sul Corriere: “un funerale a reti unificate che diventa un prolungamento della trasmissione tv”.
Ha scritto Aldo Cazzullo sempre sul Corriere – “la richiesta fuori luogo di un selfie in camera ardente” o, come più ampiamente ha scritto sulla Stampa Assia Neumann Dayan: “quello che succede nelle redazioni quando muore qualcuno di molto famoso che diventa anche molto cinico: si stravolgono palinsesti, si cambiano gli ospiti, qualcuno sceglie di non andare in onda, altri scelgono di esserci sempre, anche per le settimane a seguire, perché magari conviene in termini di ascolti”.
Il Foglio ha raccontato la sequenza dei funerali celebri (tutti a Roma) dei protagonisti del mondo dello spettacolo: Sordi, Gassman, Proietti, Raffaella Carrà, eccetera.
Ora diciamoci la verità, saremmo in un paese senza libertà, naturalmente, o peggio in uno Stato sedicente etico, se i funerali fossero portati a unico standard estetico, se le omelie fossero identiche per rappresentare anche in quell’atto di congedo la forza schiacciante della “Livella”.
E tuttavia questo appunto su un polsino vuole solo fare emergere uno spunto sul tema della “misura”. Che, come in vita distingue l’educazione, così nell’atto di morte dovrebbe far riconoscere la profondità della percezione per tutti dell’esito ineludibile.
E in questa “misura” è inevitabile che il congedo nel raccoglimento dello spirito e della parola dei fedeli di una vita, abbia un nome, una definizione. Quello di alcuni milioni di vedovi televisivi invidiosi di chi è riuscito a fare il selfie con Maria De Filippi è ugualmente inevitabile che abbia un altro nome, un’altra definizione. I funerali non sono uguali, va bene. Ma anche i famigliari dei big dello spettacolo quel giorno hanno il diritto di scegliere.