“I cittadini contano” di Luca Montani presentato a Milano – Il contributo di Stefano Rolando

Guida alle pratiche partecipative per city user e city maker (edizioni Altraeconomia, 2023:

Presentazione alla Libreria Claudiana, Milano –  15.3.2023Intervento di Stefano Rolando

Ha ragione Luca Montani: tutti ne scrivono, tutti la invocano, ma pochi vanno oltre il verso irrisolto di Gaber: “La libertà non è star sopra agli alberi, libertà è partecipazione”.

E cioè? Gaber non lo spiega fino in fondo e noi per questo facciamo libri, convegni, manifestazioni, cassette per gli attrezzi, eccetera.

Poi dirò – alla fine – che cosa evoca nella mia testa oggi la parola “partecipazione”.

Ma adesso inizio con quello che ha in testa l’autore di questo libro.

Il suo principio chiave è “non più contro ma per”.

Io credo di comprendere bene il senso “politico” di questa affermazione.

Se partecipare è un bene comune e, in più, se la strada delle reali possibilità partecipative si presenta in concreto meno larga delle potenzialità costituzionali di questa pratica, è quasi normale coniugare l’espressione con i tanti bisogni costruttivi e rigenerativi che sono spesso invocati, comunque riferiti alle dinamiche partecipative.

Ma, per la verità, la storia ha dato radici al “fare rete umana” per difendere valori e diritti, contro soprusi, malefatte, tragedie e anche semplici ingiustizie o disuguaglianze o disservizi.

Per questo penso che sia necessario che un po’ “contro” la dinamica partecipativa debba ancora oggi essere ed esprimersi. Per fare collante. Per motivare lo scatto civico. E sono certo che questo Luca lo condivida. Il “per” deve essere tuttavia chiaro e presente nelle intenzioni, deve intervenire progettualmente prima e poi, per non professionalizzare l’uso della piazza e per costruire spazi appunto progettuali, sperimentazioni, prove di nuovi assetti regolamentativi e normativi.

In più declinando i problemi al presente è chiaro che dobbiamo fare i conti con la qualità democratica e cioè con il valore della rappresentanza degli aspetti che contano: chi decide; come si decide; come si amministra l’equilibrio di libertà e di diritto di parola tra chi vince e chi perde nel quotidiano conflitto sociale.

Ecco, allora, che, nella testa dell’autore – con molte esperienze culturali civili, professionali –  quel “partecipare per” non può essere una semplice scampagnata.

A quasi tutti noi qui presenti oggi, ai relatori che mi hanno preceduto e certamente a Luca, è chiaro che lo spazio partecipativo è stretto dalle due sponde del fiume che si vanno restringendo.

  • Una – quella della politica – che ha domanda formale ma poca domanda sostanziale, che per lo più parla di partecipazione ma pensa al “voto”. La malattia della politica si chiama da tempo “autoreferenzialità”. E per questo la fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti non arriva al mignolo della mano. Un sistema retto più dal marketing che da importanti valori identitari.
  • Ma anche dall’altra parte la sponda del fiume si allarga verso il residuo spazio di flussi liberi: una schiacciante macchina dei consumi generati dal marketing dell’economia per giunta selettivo, derubricante, che ha interessi mirati chiusi ogni volta con la partita della “vendita”.

E tuttavia lo schema teorico della nostra democrazia sembra voler concederci molto di più.

I giuristi europeisti dicono che nei paesi membri della UE la “democrazia rappresentativa” (di cui già stiamo parlando come territorio eroso e sfiduciato) deve contare come la “democrazia partecipativa”. Ma questo assioma – questa “bella bandiera” – è oggi un’equazione di cui si sono perse le incognite. Se non con l’annuncio di un tentativo di rilanciare l’appello – indispensabile per il nutrimento democratico dei più giovani – che da qualche parte (ecco il senso dei nuclei di civismo organizzato che intendono riaprire la partita) per svolgere adeguate analisi delle insufficienze del presente e per tornare a descrivere pratiche possibili nel determinare esiti o a influenzare i decisori (che è il terreno su cui è stato concepito e scritto il libro che presentiamo questa sera in questa pregevole libreria di cultura valdese che ha a Milano la sua storia).

Tra le insufficienze (rispetto al tema partecipazione) vi è la violenta riduzione dello spazio sociale partecipativo causata dalla crescita impetuosa della curva dell’astensione.

E’ vero che la partecipazione non è inibita dall’espressione del non voto.

Ma le cause dell’astensione (tecniche, economiche, di disagio sociale, soprattutto di disaffezione e non conformità all’offerta) comportano  coerenze nell’impossibilità o nella indisponibilità rispetto al prendere comunque parte.

Negli ultimi tempi il passaggio è stato clamoroso: dal 20 al 40 al 60 per cento.

E nella politica la provocazione non sta producendo ancora nessun vero tentativo di contrasto.  Passa piuttosto la tesi secondo cui “la democrazia è chi c’è”.

Tuttavia le analisi sulla fiducia hanno sgranato meglio i dati mostrando che in parallelo la partecipazione attraverso forme associative, con caratteri di concretezza (ambientale, territoriale, culturale, professionale) ha oggi numeri importanti: dal 17 al 45 per cento.

Stiamo parlando di ambiti in cui si mescolano anche legittimi interessi (cognitivi, relazionali, occupazionali, eccetera). Non parliamo solo di battaglie di principio e non parliamo di partecipazione per cause drammatiche epocali.  Parliamo tuttavia di cantieri in espansione in cui la parola si può spendere con limiti ma non con manipolazione. E si fa ricorso a molti degli attrezzi di cui parla la seconda parte del libro di Luca Montani. Dunque un territorio di esperienza da tenere a mente.

Poi è evidente che le storie dei pionieri ci sono con nomi importanti della nostra stessa educazione civico-ideale del ‘900. Solo nei primi minuti della nostra tavola ritonda sono stati fatti i nomi di Capitini, di Dolci, di don Milani, di Olivetti, di Gozzini (che non conoscevo) e di altri. Nomi che certamente esistono e resistono nella memoria e motivano perimetri valoriali che continuano ad avere senso.

Così come esiste una memoria storica della contemporaneità – per esempio del nostro Paese – che se deve fare riferimento a fenomeni di partecipazione di massa importante dell’ultimo nostro secolo deve far ricorso a vicende di massa che hanno spostato, dalle controindicazioni di cui parla l’autore del libro (“inedia, apatia, disimpegno, de-empowerment”, eccetera), un grande numero di persone.

Il mio ranking (era questo lo spunto che ho detto avrei richiamato alla fine, mentre lo faccio ora) prevede al quinto posto la reattività antimafia soprattutto giovanile (che ha rotto molte situazioni familiari di omertà) in particolare in Sicilia dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino; al quarto posto gli eventi corali per l’emancipazione femminile dal ’68 a “Se non ora quando”; al terzo posto la reattività operosa rispetto alle catastrofi naturali soprattutto in Friuli e a Firenze; al secondo posto l’onda immigratoria che in particolare nell’ultimo decennio ha determinato processi di ibridazione e di trasformazione del lavoro soprattutto sociale; al primo posto la storia maiuscola e corale della ricostruzione in particolare a Milano dal 1945 al 1959.  

La seconda parte del libro di Luca Montani affronta il tema del perché riorganizzare il processo partecipativo.

Oltre al citato fatto che alle spalle non c’è il deserto (sia come civismo valoriale, di diritti, per la legalità, orientato all’advocacy; sia civismo connesso a moderna cultura di impresa e di riorganizzazione del territorio e a difesa dell’ambiente; sia a forme di cittadinanza attiva che si accompagnano all’elaborazione del principio costituzionale della sussidiarietà; e, pur con le sue frustrazioni, dovendosi anche tener conto della linea di sviluppo della responsabilità sociale dell’impresa) le ragioni  evidenti appartengono al principio moderno della qualità della democrazia in ordine a cui un parametro oggi in auge – addirittura per l’ammissione di nuovi membri nell’Unione europea – è costituito dall’intelaiatura comprovata di un sistema di rappresentatività funzionale, indipendente e dialettica della società.

Dunque – come si è detto all’inizio – una realtà distribuita e radicata nei territori con gli apprendimenti e l’energia per stimolare e criticare la politica se autoreferenziale e per mitigare e contenere gli effetti di un capitalismo socialmente sterile.

Il trattamento nel libro riconosce che il nostro contesto esprime una dialettica viva tra atteggiamenti respingenti (apatia, sfiducia, disimpegno, populismo) e fattori incoraggianti (sollecitazione delle comunità, professionisti, opportunità della trasparenza, accesso ai dati aperti).

Da qui la parte “pedagogica” del testo che dà conto di cosa si debba intender per “ingaggio” partecipativo, quali sono i “cantieri” che possono essere riconosciuti come funzionali alla mission sociale democratica e infine quali sono gli strumenti e le tecniche che vanno padroneggiate con adeguata formazione.

Alcune chiose finali in ordine a ciò che, a mio avviso, lega di più le due parti del trattamento.

La prima riguarda l’assioma che la partecipazione è una pratica di libertà ovvero che non è la traduzione pratica di una cultura se la cultura è quella di aspettarsi – come si dice –  “tutto dall’alto”.

Al tempo stesso il convincimento che non c’è partecipazione se non con adeguato presidio comunicativo, fa intendere che l’informazione sia per definizione “una forza”, ma questo ragionamento deve comprendere nell’approccio formativo che oggi il terreno dell’informazione è costituito ampiamente anche da rischio.

Infine – anche questa è un evidenza del testo –  la cittadinanza è trattata come bene comune, che comporta sempre e comunque ancora la necessità di capire e lavorare sui diritti di cittadinanza negati.

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