Pubblicato in versione audio Domenica, 19 marzo 2023
Versione audio: https://www.ilmondonuovo.club/patria-e-nazione-parte-2/
Nella versione scritta accolto dalla rivista Democrazia futura e anticipato dal magazine online Key4biz https://www.key4biz.it/democrazia-futura-ancora-su-patria-e-nazione/439550/

Stefano Rolando.
Mi è già capitato un paio di volte di tornare su un argomento trattato, cioè per fare – diciamo – una puntata numero due sul tema.
Questa volta mi riferisco all’ultimo podcast, intitolato Patria e Nazione. Domenica scorsa.
Fatto per segnalare che queste due parole – nel confronto politico che in un certo senso appare nuovo in Italia, con Meloni e Schlein polarizzate, che è stato chiamato “quello del ritorno al concetto di destra e sinistra” – appartengono ora a un lessico asimmetrico.
Le due parole, che sono appartenute alla cultura di chi ha fatto e poi ha sostenuto i valori del Risorgimento e della Resistenza, sono sostanzialmente sparite dal vocabolario della sinistra.
E fatte proprie invece (con una sua logica, si intende) dall’erede di una cultura “nazionalista” che non le ha mai rinnegate ma non le ha tanto riferite nel tempo alle epopee delle libertà e dell’indipendenza quanto al “nazionalismo”, cioè a caratteri tipicamente conservatori (Dio, Patria e Famiglia), al militarismo, al primatismo. Termini che hanno dato nel ‘900 più dolori che conforti al popolo italiano.
Giorgia Meloni riporta in scena in modo martellante questo vocabolario – massimamente attorno al tentativo di soppiantare ufficialmente la parola gramsciana “Paese” per radicare quella che appare più desueta (cioè che sembrava più antieuropea) di “Nazione” – ma lo fa senza remore nell’invocare, per esempio, l’eredità di Mazzini e Garibaldi. Non solo.
Lo ha fatto senza sottrarsi – è da 27 anni che un presidente del Consiglio non lo faceva – al confronto in diretta ad un congresso della CGIL in cui ha perorato l’unità della Nazione che “dà senso” al confronto, persino al conflitto, degli argomenti oggi diversi tra governo e sindacato. Respingendo le tesi della CGIL, ma affermando la necessità di misurarsi.
Ecco il passo del suo discorso di pochi giorni fa, in cui l’approccio al tema dell’unità nazionale dimostra una certa evoluzione politica.

https://www.youtube.com/watch?v=ZkqlMcvFE5s (dal minuto 3’11” al minuto 4’40”).
La sinistra, che pur sta ritrovando il suo vocabolario riguardante il lavoro, la riduzione delle disuguaglianze e altro, è dunque un po’ spiazzata su questo fronte. E per ora sull’argomento – credo pericolosamente – non replica su questa lunghezza d’onda.
Il mio podcast era un incoraggiamento a rielaborare presto un’idea, un posizionamento, un linguaggio. Era il podcast di una settimana fa. E anche quello di oggi ha le stesse intenzioni.
Ebbene il tempo due – cioè il podcast di oggi – è motivato da due argomenti.
Il primo è il tentativo di parafrasare qui l’articolo di mercoledì 15 marzo (tre giorni dopo il primo podcast) a pagina piena su Repubblica scritto da Carlo Galli dal titolo “La nazione è di tutti. I progressisti devono imparare ad amarla”. Come si vede il tema era nell’aria. E’ un contributo scritto con varie qualità, che vorrei raccontare anche a chi non legge più i giornali o a chi sceglie ormai le comunicazioni brevi e brevissime più che le cose argomentate.
Il secondo riguarda un fatto, qui personale, di due giorni fa. Cercavo cioè nella biblioteca di casa materiali sull’identità del nostro Mezzogiorno (in particolare su Napoli, su cui mi accingo a lavorare). E ho anche ritrovato un libro a cui tenevo e tengo molto, in realtà pubblicato la prima volta nel 1961 (anno fatidico del centenario dell’unità d’Italia) che ho acquistato nel 1998, quando tornato a Milano cercavo di capire meglio che cosa l’ondata allora un po’ secessionista della Lega avrebbe scalfito. Il libro è di Federico Chabod, grande storico dell’età moderna e contemporanea, di alta tradizione liberale, che raccoglie lezioni universitarie tenute a Milano in due anni drammatici (il 1943 e 1944) e che si intitola L’idea di Nazione, Laterza.

Parto da questo secondo argomento, che tratto naturalmente per sommi capi.
Chabod è stato un grande storico che ha guardato in modo sempre connesso Italia ed Europa.
Aostano, nato nel 1901 e scomparso nel 1960. Connette l’idea di Nazione al Romanticismo europeo, dunque in conflitto con l’età della ragione, con l’illuminismo settecentesco. Argomento in cui oggi vediamo il successivo rischio involutivo anche del nazionalismo. Ma Chabod fa scorrere il suo pensiero su storie alte, verrebbe da dire “spirituali”, così da non cadere mai nel rischio del dibattito basso (cose di destra, cose di sinistra; elezioni, propaganda, populismo, eccetera).
Il suo paradigma è “la poetica del sentimento e dell’immaginazione”. Che ritrova nel Medioevo, persino in Machiavelli. Non teme il rischio delle vicende avvenute dopo per dire che Italia e Germania incarnarono questo paradigma “facendo della nazione la misura del valore della vita politica”.
E ciò che fa da spartiacque rispetto al rischio delle involuzioni posteriori della parola “patria” è l’idea di “una e indipendente”. Un’idea dantesca, per l’Italia. L’urlo – nel VI canto del Purgatorio – contro il modo con cui l’Italia è trattata: “non donna di provincie ma bordello”.
Questo sentimento ha i suoi grandi interpreti. Il Vincenzo Cuoco della rivoluzione napoletana del 1799. Foscolo che canta le itale glorie in Santa Croce, Mazzini che ricongiunge Italia ed Europa.
Insomma, è il percorso della nostra formazione giovanile, grazie però alla ri-profilazione della Liberazione, della Costituzione, delle libertà democratiche riconquistate.
Rimettere mano su questi spartiti sarebbe forse oggi difficile anche per la cultura liberale. Dunque, va riconosciuto che lo sforzo che ci aspettiamo dalla sinistra, ma anche dal terzo polo che a sprazzi annuncia il tema e poi non lo tratta a fondo, sforzo che soprattutto non può essere né ripetitivo né puramente competitivo con il tema meloniano, merita una tessitura intellettuale che tuttavia si è interrotta. Chi e come potrà riprenderla?
Per questo assume rilievo, per il segnale che dà in questo momento, lo scritto di Carlo Galli – filosofo e politologo italiano, editorialista di Repubblica e per le due precedenti legislature deputato eletto prima nel PD poi passato a SEL e Articolo 1 – che cerca con una certa pacatezza proprio questo terreno di nuovo e antico, al tempo stesso, radicamento intellettuale del tema “Patria e Nazione”.
Galli parte dalla Costituzione. Fondata sul lavoro – bellissimo tema novecentesco, osserva – ma, dice, “quando si tratta di rischiare la vita per la collettività, questa è indicata con un nome diverso: è la Patria (che l’art. 52 scrive con la maiuscola)”. La “fonte unitaria della rappresentanza politica” per quell’assemblea costituente (che comprendeva i partigiani).
E al tempo stesso scrive: “La Nazione è il nome del popolo quando è visto come soggetto collettivo, come una potenza organica che dà vita legittima alle istituzioni”.
Effettivamente non è lo stesso terreno concettuale sviluppato dalla destra. Dunque – cito ancora – si tratta della “nazione dei cittadini, che sono essi, nel loro insieme, il fondamento dell’ordine politico”.
In Italia un secolo fa avevano provato a stringere il concetto nella Nazione del re, interpretata dal fascismo. Mentre qui siamo piuttosto nella scia della discontinuità esercitata nella storia dalla Rivoluzione francese.
Vero che Nazione è altresì retaggio storico-linguistico e culturale. Da questo punto di vista è tradizione. Ma la lettura mazziniana della tradizione non guarda tanto indietro, quanto ai fondamenti del progresso futuro e al sistema intrecciato di rigenerazione di diritti e soprattutto di doveri.
Galli mette in chiara evidenza l’involuzione della parola “Nazione” dopo il 1870, flettendo verso il nazionalismo, cioè il bellicismo e in particolare l’ordine sovra-individuale e sovra-sociale. E da qui dunque catturata dai totalitarismi. Potente involuzione del termine nella prima metà del ‘900.
Qui Galli riprende l’approccio di Gramsci per tornare a incrociare Nazione e popolo.
Ma la complessità dell’epoca in cui questo tema viene messo in capo a un soggetto politico segnato pesantemente da massimalismo ideologico ha mostrato di non aver recuperato il valore “romantico” dell’espressione (per riprendere l’idea di Chabod). Cosa che induce piuttosto a guardare con più efficacia alla parte finale della nuova valorizzazione della parola, quella che più di recente si confronta con la potenza e i limiti della globalizzazione. Ristabilendo il nuovo confronto tra xenofobia e progressismo, tra inadeguati primatismi e quello che Galli riconosce essere un passaggio maturativo della storia: “la nazione non implica alcun rifiuto identitario del conflitto: nasce da questo e lo sopporta benissimo”.
In qualche modo Giorgia Meloni pare arrivata (con i suoi inevitabili andirivieni e con alcune ambiguità) su questo terreno concettuale.
Questo è, in sostanza, l’appello ai progressisti: attraverso un ripensamento sull’idea di nazione (oggi per un paese come l’Italia con forte implicazione europeista) promuovere quella – così la chiama – “autocoscienza storica e civica”, diciamo noi piuttosto smarrita nell’identità popolare.
Per il rilievo del tema nel nuovo schema piuttosto polarizzato della politica italiana (augurandoci intanto che ciò non seppellisca per l’ennesima volta le culture liberalsocialiste e liberaldemocratiche) non basta ovviamente la memoria delle profondità di pensiero dei nostri maestri storici e nemmeno la perorazione di un articolo di un serio politologo.
Chissà che l’insistenza – anche un po’ provocatoria – di Giorgia Meloni nel risagomare il vocabolario politico-istituzionale non metta in movimento ciò che la vitalità delle proprie stesse radici fatica a far maturare nella politica italiana, quella che si considera antagonista per definizione di questo governo. Penso poi che prima o poi ci saranno scintille anche nel quadro di governo, se l’idea del primato della nazione della premier (cioè l’entità una e indivisibile) non sarà a geometria variabile e, per esempio, in materia di provvedimenti sull’autonomia sarà obbligata a dare retta a Salvini o ad ascoltare gli amministratori del Mezzogiorno in questi giorni in battaglia contro – ha detto il sindaco di Napoli Manfredi – “la miopia e l’esplosione delle disuguaglianze causata dal provvedimento”.
Noterella finale: forse ci sarà materia per una terza puntata di “Patria e Nazione”, se da qui al 25 aprile compreso troveremo delle novità in campo.