Sei mesi di “prove generali”. Polemiche, zuffe, ma poco vero confronto politico-culturale.
Stefano Rolando

Giorgia Meloni è tendenzialmente pressante e assertiva nella sostituzione della parola gramsciana “Paese” con la parola tardo-romantica “Nazione”.
Quanto alle citazioni connesse è però meno pressante, meno ridondante, non spropositata. Tende caso mai ad una narrativa a sorpresa.
Per esempio, quella del partigiano Enrico Mattei (antifascista cattolico marchigiano che dopo la guerra fu incaricato di sciogliere l’Agip che lui trasformò nella più potente azienda italiana in dialogo con l’Africa e il terzo mondo, l’ENI) arriva nel pieno del discorso di insediamento a Montecitorio il 25 ottobre:
“Il prossimo 27 ottobre ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il Mondo. Ecco, credo che l’Italia debba farsi promotrice di un “piano Mattei” per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana”.
Oppure quella di Giuseppe Garibaldi (nome che i comunisti scelsero per intitolare le brigate partigiane contro i nazifascisti) che sbuca durante la campagna elettorale in Lombardia a gennaio:
“Mi viene in mente una frase attribuita a Garibaldi, Qui o si fa l’Italia o si muore… politicamente, nonostante le risorse non siano paragonabili ai bisogni che abbiamo”.
O ancora il nome di un irriducibile padre della patria e del repubblicanesimo, da cui sorgerà una costola importante dell’antifascismo italiano, l’azionismo, che viene fatto nella missione in India, al memoriale di Gandhi («un patriota come Mazzini») il 2 marzo:
”Vi sono al mondo pochi esempi d’un uomo che, solo, abbia compiuto la resurrezione del proprio Paese con la forza del pensiero e la dedizione estrema durata tutta la vita”. Così il grande Mahatma Gandhi parlava di Giuseppe Mazzini, uno dei padri del Risorgimento italiano, fonte d’ispirazione anche per quello indiano. Due patrioti che con le loro azioni e le loro opere hanno indicato il cammino ai nostri popoli. Italia e India, civiltà millenarie che hanno combattuto per la loro indipendenza, oggi unite nella difesa di democrazia e libertà”.
Su questa trama si colloca anche il suo distillato a-fascismo.
Dice nel discorso di insediamento alle Camere:
“Libertà e democrazia sono gli elementi distintivi della civiltà europea contemporanea nei quali da sempre mi riconosco. E dunque, a dispetto di quello che strumentalmente si è sostenuto, non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso. Esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana, una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre. I totalitarismi del ‘900 hanno dilaniato l’intera Europa, non solo l’Italia, per più di mezzo secolo, in una successione di orrori che ha investito gran parte degli Stati europei. E l’orrore e i crimini, da chiunque vengano compiuti, non meritano giustificazioni di sorta, e non si compensano con altri orrori e altri crimini. Nell’abisso non si pareggiano mai i conti, si precipita e basta”.
Ritorna in argomento con la lettera al Corriere della Sera sul 25 aprile:
“Il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni antiebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale. Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”.
Come si sa, Meloni riesce a scantonare sulla parola anti-fascismo e la parola “Liberazione” è sostituita con la parola “Libertà”, come dire che lo scontro militare con il nazifascismo può essere sostituito con il carattere bello ma astratto di una parola dantescamente drammatica ma nell’uso comune più scontata.
I due binari della comunicazione della premier

Sono dunque due i binari della narrativa politico-istituzionale che ha soppiantato quella che per un anno e mezzo era ispirata, a Palazzo Chigi, dal draghiano “esprit républicain”.
Quello della costruzione narrativa di un partito di destra-destra e quello della costruzione di un progetto istituzionale europeo di orientamento conservatore.
Il primo è costituito da una cornice linguistica per riportare sull’idea di Nazione la sintesi dei soggetti istituzionali; ma al tempo stesso anche per ricondursi alla filosofia della svolta di Fiuggi [1] in un quadro in cui si recuperò la collocazione del nuovo partito di destra Alleanza Nazionale, sottraendolo dall’emarginazione dell’identità post-fascista del Movimento Sociale Italiano. Ciò anche nella cornice risorgimentale italiana (pur con accurata ridefinizione dei riferimenti) e soprattutto in una visione internazionale non più antiamericana e anti-europeista, abbandonando per giunta il corporativismo fascista e l’opposizione al capitalismo liberista.
Resta tuttavia la contraddizione del percorso politico di Giorgia Meloni che proprio alcuni anni dopo (il 28 dicembre del 2012), si staccò (con La Russa e Crosetto) dalla confluenza di AN nel Popolo della libertà berlusconiano, ricavando un profilo più euroscettico, con spunti che nella bibliografia dei commenti politologici del tempo vengono definiti di “partito nazional-conservatore, nazionalista, populista di destra, reazionario, conservatore in campo sociale, post-fascista; e in campo internazionale euroscettico e atlantista”- Tanto che conservò nel simbolo la fiamma tricolore del MSI come elemento di continuità simbolica.
L’ascesa elettorale che porta dal 4% del 2016 al 26% del 2022 con una connotazione che giustamente Giorgia Meloni considera in linea con le democrazie occidentali (l’opposizione, che vincendo le elezioni contro la coalizione al governo, assume la responsabilità proprio in forza di questa chiara dialettica) colloca – nello scenario governativo di un paese in forti trasformazioni – narrative, linguaggi, retoriche, simboli, insomma l’insieme del percorso identitario di Fratelli d’Italia. Un partito che aveva trovato una sistemazione valoriale nelle Tesi di Trieste, cinque anni dopo la fondazione del partito, ispirata a una ridefinizione della militanza (i nuovi patrioti) ispirata all’antiglobalismo, all’anti illuminismo e alla conferma del solco post-fascista[2]. Come sulla rivista Il Mulino ebbe a commentare Franco Ferrari al tempo dell’elaborazione di questo documento:
“Se occorre individuare le radici del male, queste – nelle Tesi – vanno rintracciate nell’illuminismo. Un’operazione di sostanziale banalizzazione del fascismo e un passo indietro anche rispetto alla posizione assunta da Fini. Attraverso questa contorsione ci si ricollega ad ostilità di fondo nei confronti dell’illuminismo, della ragione e del progresso (…) Sul fatto che Fratelli d’Italia si inserisca nel solco del neofascismo italiano sembrerebbe non esserci alcun dubbio. Ma è davvero così?”[3].
Così dunque l’approdo recente a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, forte di un fatturato elettorale superiore a quello, sommato, dei suoi tre alleati di governo, crea rapidamente il secondo binario di riorganizzazione identitaria e comunicativa che è ormai al settimo mese di cantiere in un continuo alternarsi di cambiamenti in senso moderato-conservatore-europeo, ma con una trama di riferimenti e allusioni, talvolta nel retroterra delle dichiarazioni della stessa premier, più spesso per voce di ministri, collaboratori e antichi sodali, ad un passato che ancora radicalizza i sentimenti di una quota di elettori. Insomma, il gruppo dirigente di FdI conserva, pur nella svolta, il suo percorso come la chiave ancora ineludibile di un rapporto con un elettorato che in una parte rilevante dichiara di non considerarsi antifascista[4]. Con una via comunicativa di partito che grazie alle sue coerenze (sempre rivendicate) ha formato una dirigenza e una leader che anche internazionalmente viene collocata, senza dubbi all’estero, nell’estrema destra europea.
Mentre i “governisti” (probabilmente in una dialettica che si farà più acuta) esprimono la necessità di mantenere aperta una via comunicativa di governo e di aspirazione ad un ruolo non marginale in Europa. Questo “doppio binario” è in atto. Ed evolve con la doppia esigenza di disporre di due diverse piattaforme. Verso l’attrazione interna di ambiti centristi ma anche verso le elezioni europee, in cui il progetto di Giorgia Meloni di strappare la maggioranza alla coalizione attuale di socialisti, liberali e popolari grazie all’ipotesi di passaggio dei popolari in alleanza dei conservatori è dichiarato. Proprio Giorgia Meloni guida quel gruppo costituito al PE, senza più gli inglesi come forza centrale ma con rappresentanza di svariati paesi membri. Una partita che si giocherà soprattutto sullo scontro interno dei Popolari europei, tra la linea Weber e la linea diciamo Merkel-von der Leyen e quindi in particolare in ordine ai risultati delle prossime elezioni in Polonia e in Spagna.
I commentatori dicono che per qualche tempo i segnali di questa doppiezza saranno frequenti, acuti, spesso anche di intralcio al ruolo governativo di Giorgia Meloni.
Ma – anche per come sono andate le cose nel frangente del 78° anniversario della Liberazione – questa ambiguità comunicativa appare anche irrinunciabile. In ogni caso esprimendo un carattere in linea con la prevalente polarizzazione della politica italiana, su cui Meloni a destra e Schlein a sinistra si giocano la partita dell’egemonia fidelizzando all’estremo il voto militante o comunque ancora fedele al richiamo dei partiti rispetto al crescente astensionismo proprio maturato per disaffezione rispetto ai partiti stessi.
Ed è all’interno di questo ritmo binario a volte di facile riconoscibilità, altre volte con ombre del passato che appaiono e producono continue smentite e minimizzazioni, che prendono forma i due dibattiti pubblici che hanno maggiormente costituito il corredo di iniziativa pubblica del governo rispetto al quale finora l’opposizione si profila più smarrita e impreparata che chiaramente all’altezza di esercitare un contrasto efficace. In un paese in cui, pare incredibile, non è sempre facilissimo prendere le distanze da chi parla della Nazione pensando in realtà “nazionalismo”, da chi parla di Patria pensando in realtà al “primatismo”, da chi parla di “identità nazionale” mescolando sciocchezze (Dante Alighieri padre storico della destra, per esempio) ad uno stucchevole e spesso vuoto spreco di lodi al “nostro meraviglioso Paese” in cui i ministri fanno a gara a far credere che essere al governo significa non esprimere criticità, difficoltà e problemi. Un propagandismo che non apparteneva alla tradizione dell’Italia repubblicana, conscia per lo più delle infatuazioni della falsificazione seduttiva del regime fascista, ma in cui quando serve anche la stessa Meloni suona la carica:
“Sappiamo che la nostra imbarcazione, l’Italia, con tutte le sue ammaccature, rimane ‘La nave più bella mondo’, per riprendere la celebre espressione usata dalla portaerei americana Independence quando incrociò la nave scuola italiana Amerigo Vespucci. Una imbarcazione solida, alla quale nessuna meta è preclusa, se solo decide di riprendere il viaggio”[5].
Ed eccoci, dunque, alla riconsiderazione di questo semestre rispetto a quello che per la rigenerazione della politica italiana potrebbe essere un tema cruciale, ma che è strattonato dal modo di discutere che domina: appunto con troppo propagandismo; con poca voglia di larga parte della politica di mettersi davvero a studiare la storia; con difficoltà strategiche che annebbiano la vista; con impreparazioni; con automatismi propagandistici di qualcosa che assomiglia a volte anche ad una calligrafia narrativa e simbolica del fascismo[6].
Mi riferisco al tema dei nessi tra Patria, Nazione e Identità nazionale, a cui sono dedicate le considerazioni che seguono selezionando gli argomenti particolarmente emersi.
Alcune fonti di questa analisi
All’inizio le fonti di analisi del “melonismo”, inteso come un fenomeno che non si compirà perché pienamente profetizzato e annunciato, ma come l’insinuazione di una “diversità” in un organismo che per un po’ la adatta, poi la distingue e infine viene domato e trainato, non sono – proprio per conseguenza a ciò – molte e articolate nel tempo.
Giorgia Meloni è parte di un giovanilismo audace, un po’ aggressivo, cameratesco e anti-borghese che svolgendosi nei quartieri popolari romani con diramazioni provinciali (Latina), assume il carattere dell’alternativa di destra (magari al nord, dalla Liguria a Padova passando per Milano e l’hinterland) questo “spirito contro” avrebbe assunto i caratteri del radicalismo di sinistra.
Così che i modelli, lanciati fin dal dopoguerra, dell’Italia tradita, del coraggio dei repubblichini, della Resistenza inquinata dai comunisti filosovietici, del nazionalismo barriera contro le invasioni materiali e immateriali, eccetera, passa almeno in tre generazioni: dai fascisti nati nel regime e parlamentarizzati dall’MSI alla prima rottura creata dal governativismo di AN e poi dall’antiberlusconismo e antieuropeismo della terza generazione che rigenererà una “destra senza trattini, senza aggettivi e senza compromessi”, che pareva appartenere a una condanna alla marginalità perpetua. Giorgia Meloni sfrutterà invece le debolezze della seconda Repubblica e le ragioni dello sdoganamento prodotto da AN per costruire una sua sintesi che proprio nella maggiore crisi dei partiti politici italiani -. quella coperta dal governo emergenziale di Mario Draghi – le fornirà l’intuizione di collocarsi nettamente all’opposizione per rivendicare un’alternativa, anzi la sola alternativa possibile, al momento della fine del ciclo emergenziale non per esaurimento di compito ma perché il prolungamento avrebbe significato o fatto rischiare l’emarginazione totale del sistema dei partiti e del parlamentarismo. Dunque Giorgia Meloni non vince solo una partita elettorale, ma anche la strategia di percorso in cui convive con le ambiguità della doppia traiettoria: quella della coerenza del suo posizionamento un po’ fascistoide e molto sovranista (allineandosi a movimenti similari che crescono nell’Europa delle paure e delle crisi) e quella della partecipazione a processi ed esperienze di governo (in cui sarà ministro e vicepresidente della Camera) intuendo l’insufficienza teorico-progettuale di una destra guidata da un partito padronale e non contendibile e da un partito populista fatto da partite IVA e piccoli evasori.
L’autobiografia di Giorgia Meloni[7] nasce dall’idea di comporre questo dualismo.
E nell’accreditamento personale nasce anche l’idea di utilizzare un frammento di un comizio diventato un tormentone mediatico (“io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono di destra, sono cristiana, sono italiana”[8]).
Da un lato il testo sostiene e argomenta il principio ispiratore di tutto il suo percorso: “la sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa, costi quel che costi”. Dall’altro lato mette le basi per scostarsi dall’entropia di una destra italiana chiusa al cambiamento e contrastare quello che nel libro viene chiamato “il declino da aggredire”. Ed è questa la parte che le fa scrivere:
“Certo, pure a destra c’è chi fa demagogia. E c’è persino chi si spinge fino a toni di disprezzo e venature razziste. Ma non è il caso mio e di Fratelli d’Italia. Noi abbiamo sempre detto che l’immigrazione è una questione complessa che va governata in modo serio e che per farlo servono regole chiare e buon senso”. Oppure: “Da una parte c’è il PD, partito “collaborazionista” delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli d’Italia, il movimento dei patrioti. Sono convinta che sarà sempre più questo il bipolarismo dei prossimi anni in Italia”.
L’altra fonte, di studio ampio dell’intero percorso di questa destra, è costituito dall’analisi condotta in seno all’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna, da Salvatore Vassallo (direttore del Cattaneo) e da Rinaldo Vignati (ricercatore) del “terzo partito della Fiamma, espressione di una destra a-fascista, nazional-conservatrice, che tenterà di cambiare gli equilibri della politica europea”[9]. Anche qui il paradigma di ricerca è quello di comprendere una cosa non scontata: “le fortune e le virtù che hanno portato gli eredi di una tradizione politica destinata ad estinguersi alla guida della Nazione”.
Il racconto autobiografico segnala le tracce di alcuni archetipi culturali (il “tradizionalismo” adattato ai quartieri periferici romani: dal Signore degli Anelli all’Ultimo Samurai con Tom Cruise. Fino a Le Porte di fuoco di Steven Pressfield, dedicato al coraggio, sui trecento soldati spartani guidati da Leonida che tennero testa al potente esercito di Serse); mentre lo studio sull’organizzazione politica di quella rigenerazione mostra anche alcuni soggetti (fondazioni, soggetti editoriali, un gruppo intellettuale) che diventeranno, grazie ad una valorizzazione che la dimensione governativa ora consente, l’architettura di un ripensamento delle radici europee funzionale al progetto neo-conservatore.
Quanto alla vitalità della radice post-fascista di FdI un altro contributo di analisi, a cura di Andrea Palladino, mette l’accento su un tema che è alla base della conflittualità polemica di questo periodo[10]. Come scrive Guido Caldiron, sul Manifesto, che lo recensisce[11] , “La tesi di Palladino è chiara: più che un problema con il fascismo storico, Fratelli d’Italia, e la sua leadership, mostrano di non aver fatto i conti con l’eredità del neofascismo nel quale sono cresciuti, si trattasse di autentici protagonisti delle organizzazioni rautiane o di giovani adepti della fase nazional-alleata”.
Nello stesso articolo un breve cenno riconduce il tema del recupero del Risorgimento in una chiave di linea storica che arriva fino a Benito Mussolini, come progetto considerato parte della svolta di Fiuggi : “L’arena in cui gli attuali protagonisti, almeno i più giovani tra loro, si sarebbero formati è perciò piuttosto il partito a vocazione di massa nato dall’evoluzione dell’Msi in An e che dalla metà degli anni ’90 non mise in soffitta i capitoli più scomodi del Novecento, optando piuttosto per la volontà di occupare simbolicamente ogni terreno, quando invece i rimandi al passato di un tempo risultavano ingombranti per delineare politiche adatte al presente. Questo potrebbe essere in realtà la vera e decisiva eredità di Fiuggi dove, non a caso, si cercò di infilare Mussolini in un museo della storia nazionale accanto a Mazzini, Garibaldi e Cavour”.
Dalle Tesi di Trieste alla conferenza sull’Immaginario italiano
Il percorso dei cinque anni che separano l’elaborazione delle Tesi di Trieste (2017, con uno sviluppo come si è detto in ombra per la caratterizzazione “patriottica” di riepilogo del passato, influenzata dalla spinta trumpiana e dalle frequentazioni di Steve Bannon) alla gestione governativa della tematica identitaria (2023, con l’affermazione di un’alternativa di sistema e di un’alternanza nell’egemonia della destra)[12] approda al rassemblement delle fondazioni e delle associazioni che gravitano attorno alla rielaborazione della cultura politica della destra italiana [13] sotto il coordinamento dello stesso Ministero della Cultura e quindi con una missione al tempo stesso politica e di annuncio di governizzazione delle proposte.
Vicenda che ha al timone il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e in campo, come soggetto propulsivo, la Fondazione Nazione Futura presieduta da Fabrizio Giubilei, che in una tre giorni che ha preceduto l’evento-parata a Roma il 7 aprile sull’immaginario italiano si riferisce “al mondo della destra istituzionale, non estremista, populista o complottista come piace alla sinistra descriverci, e al tempo stesso aperta al dialogo e al confronto” [14].
Malgrado la presa di distanza del Ministero della Cultura circa responsabilità organizzative degli organi del governo [15], l’enfasi e la liturgia governativa hanno costituito il fattore di rilievo e di mobilitazione (anche a scopo di mostrare il profilo di risorse indicate a responsabilità pubbliche nel settore) attorno alla declinazione del tema “identità nazionale” non come questione rivendicativa ma come filigrana di una linea di governo (dice Sangiuliano: “stiamo costruendo i mattoni dell’immaginario italiano”[16], pensando in forma inevitabilmente retrograda che esso sia più un prodotto della politica che della società, tra cultura, media, impresa e consumi).
In un podcast pubblicato il giorno successivo del convegno ho provato a fare sintesi della portata di questo convegno[17]. Questi alcuni spunti:
“La contraddizione dell’evento pare questa: cavalcare rapidamente in realtà il consolidamento dell’identità della destra, che è il problema numero uno ( tanto che il sottotitolo è lampante: “Stati generali della cultura di destra”); agire per l’ altrettanto rapido turnover di ogni spazio, nominabile dal governo, nelle infrastrutture del sistema cultura, comunicazione e spettacolo, che è il problema numero due (nel corso degli anni, sia chiaro, oggetto di stratificazioni, dipendenti dalla trasformazione politica, con una piuttosto evidente marginalizzazione di esponenti della destra-destra), ma fare ciò proponendo la linea della “cultura della Nazione”, cioè facendosi carico loro di temi, autori, percorsi e approcci che nel tempo della loro lunga opposizione erano il Pantheon dei nemici ( e che per giunta i “ nemici” ora non nominano quasi più). Ed è dunque lo stesso ministro della cultura a decidere chi va citato e chi non va citato in questa prospettiva. I giornalisti che ne hanno scritto sono restati colpiti (io e altri, credo, un po’ meno) dalla citazione di Antonio Gramsci, Benedetto Croce e Vincenzo Gioberti, in realtà un abile mix di sinistra e centro che avvalora un progetto nazionale governato da destra. Il tema in politica è ovviamente chi guida e chi sceglie. La seconda problematica – che troverà chiarimenti cammin facendo – riguarda la perplessità circa il fatto che l’identità nazionale promossa dalla destra ora al governo o si nutre di chiari e credibili contenuti che riguardano i conflitti del presente e le incertezze globali del futuro o finisce a ricorrere e cedere sui temi nostalgici. Il ministro Sangiuliano e il presidente della commissione cultura della Camera Mollicone si sono limitati all’annuncio: ‘non diteci che abbiamo gli occhi indietro, noi guardiamo al futuro’. Si capirà il senso di quanto detto: ‘noi non siamo qui per rifare la cultura di destra ma per fare sintesi della cultura nazionale’. Che sarebbe casomai un sentiero arduo da percorrere in Parlamento, con confronti reali ed esiti democratici. Vedremo se sarà questo lo sviluppo di un vero confronto politico, oppure se ora la partita centrale delle nomine cerca piuttosto una copertura che pensa di spiazzare chi crede che il nuovo gruppo dirigente si limiti a riabilitare solo la mitologia di destra (Gentile, Prezzolini, Ezra Pound, Marinetti). Ovviamente tutti questi citati all’ Hotel Quirinale”.
In questi mesi il sistema dei partiti, alleati di governo e partiti di opposizione, non segnala particolari sforzi di voler stare su questi terreni di aggiornamento della questione identitaria nazionale. Dunque, all’ondata di dichiarazioni e puntualizzazioni che il partito più rappresentativo della compagine di governo esprime non corrispondono segnali di diversa elaborazione, se non attraverso reattività polemiche occasionali delle forze parlamentari di minoranza. Nel tessuto di iniziativa che inquadra con una certa trasversalità sia voci politico-istituzionali che rappresentanze di impresa una sola voce si è espressa su alcuni aspetti di evoluzione dell’identità italiana, attraverso il centesimo fascicolo di Aspenia, rivista di Aspen Institute Italia (presidente Giulio Tremonti) , dedicato a “Noi italiani”[18]
La trama della “identità italiana” declinata per atti di governo

Che il banco di prova di questa torsione tra allusioni nostalgiche e adattamento culturale all’alternanza di sistema per l’Italia e l’Europa di oggi sia il quadro di governo è dimostrato dalla successione con cui tutti i ministri di Fratelli d’Italia prima o poi si esprimono sulla parte di declinazione di loro competenza circa la revisione di linea sulla “identità italiana”[19].
Il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ottiene la dicitura del Ministero anche a favore del coltivare e mangiare cibo italiano. Il ministro Adolfo Urso si appresta al rilancio del prodotto italiano, come sintesi di bello e utile, come “made in Italy”, pur riscontrando che la globalizzazione ha trasferito altrove parti di produzione significative di prodotti magnificati nel “fatto in Italia”. La stessa premier coglie il cambio di denominazione del Ministero (Ministero dell’Impresa e del made in Italy) per proporre (di intesa con il ministero dell’Istruzione Giuseppe Valditara) la sostituzione degli ITIS con un nuovo liceo per il made in Italy. La ministra Daniela Santanchè annuncia il piano quadriennale 2023-2027 del turismo senza dare neanche un dato ma dichiarando che – essendo la competenza sul turismo in capo alle Regioni e restando allo Stato la promozione dell’incoming dall’estero – ebbene su questo segmento di competenza si avvia il ridisegno niente meno del “Brand Italia” per governare l’immagine della Nazione da offrire al mondo, mentre città e territori racconteranno agli italiani perché è bene anche fare turismo interno[20]. Intanto 9 milioni sono stanziati per una campagna internazionale di promozione dell’incoming turistico da parte dell’Enit, il cui preannuncio scuote i media nel mese di aprile, per la trasformazione della Venere di Botticelli in una influencer dei tempi nostri che in modo – è stato scritto da più parti – maldestro propone di visitare l’Italia mostrando (nelle simulazioni) paesaggi sloveni.
Intendiamoci, tutte cose che hanno il loro perché e ciascuna ricalcando propositi che hanno avuto anche altri governi nel passato. Il punto è la cornice interpretativa complessiva che questi argomenti sveleranno solo ad un certo punto del tragitto.
L’ultimo ministro che è approdato sulla piattaforma sulla rampa di lancio è Guido Crosetto, che sta lavorando “alla rielaborazione di un pensiero culturale che riguardi la Difesa e la sicurezza militare”. Qui si può già cogliere qualche spunto più sostanziale. Il contrasto al pensiero pacifista è annunciato, ma non con il trombonismo fascista di un secolo fa, ma con la prudenza a scalare di un ex democristiano che coglie il suo “lotto” di battaglia culturale diciamo così militarista e aumenta (non poco) la massa critica del nuovo posizionamento della “italianità”.
Questo preliminare inventario rende più chiaro di quale rappresentazione politico-culturale si stia parlando. Per ora il progetto è annunciato; il terreno è da altri abbandonato; la mission è distribuita tra competenze in campo e quando si tireranno le reti a terra sarà forse tardi per piangere, perché dopo gli annunci saranno state già preparate le regole.
Salvo le repliche polemiche d’occasione i partiti dell’antifascismo italiano non maturano una posizione sul tema generale.
Il 78° anniversario della Liberazione si è collocato come una sorta di momento apice del pressing dei meloniani al governo per “mettere a terra” una pregressa elaborazione di riorientamento dei concetti di patria e nazione e di aggiornamento di un pensiero corredato da azioni di governo in materia di identità italiana. Ma anche come una fase di rimescolamento delle carte in seno al PD, il maggior partito dell’opposizione; di una crisi giunta fino al divorzio del Terzopolo; di una rincorsa tra PD e Cinquestelle tra spinte sinergiche e conflitto elettorale verso le europee che ha come terreno di misurazione più la questione sociale che l’aggiornamento dell’idea di Patria.
Insomma, crescono le risse occasionali, pur spesso comprensibili. Il format delle dichiarazioni brevi e assertive ormai traduce questi confronti in tre righe per parte sui social, più che nello schieramento di argomenti che impegnino non solo il ceto politico declamante ma anche soggetti culturali e intellettuali con competenze per risagomare convergenze e divergenze.
Prima di giungere a ridosso della polemica più significativa caricata sul 25 aprile – quella sul tema fascismo/antifascismo – è intervenuto con argomentazioni Carlo Galli – filosofo e politologo italiano, editorialista di Repubblica e per le due precedenti legislature deputato eletto prima nel PD poi passato a SEL e Articolo 1 – che ha cercato di catturare l’attenzione della sinistra su questo terreno di nuovo e antico, al tempo stesso, di radicamento intellettuale del tema Patria e Nazione[21]. Galli parte dalla Costituzione. Fondata sul lavoro – bellissimo tema novecentesco, osserva – ma, dice, “quando si tratta di rischiare la vita per la collettività, questa è indicata con un nome diverso: è la Patria (che l’art. 52 scrive con la maiuscola)”. La “fonte unitaria della rappresentanza politica” per quell’assemblea costituente (che comprendeva i partigiani). E al tempo stesso scrive: “La Nazione è il nome del popolo quando è visto come soggetto collettivo, come una potenza organica che dà vita legittima alle istituzioni”. Effettivamente non è lo stesso terreno concettuale sviluppato dalla destra. Dunque – cito ancora – si tratta della “nazione dei cittadini, che sono essi, nel loro insieme, il fondamento dell’ordine politico”.
In Italia un secolo fa avevano provato a stringere il concetto nella Nazione del re, interpretata dal fascismo. Mentre qui siamo piuttosto nella scia della discontinuità esercitata nella storia dalla Rivoluzione francese. Vero che Nazione è altresì retaggio storico-linguistico e culturale. Da questo punto di vista è tradizione. Ma la lettura mazziniana della tradizione non guarda tanto indietro, quanto ai fondamenti del progresso futuro e al sistema intrecciato di rigenerazione di diritti e soprattutto di doveri. Galli mette in chiara evidenza l’involuzione della parola “Nazione” dopo il 1870, flettendo verso il nazionalismo, cioè il bellicismo e in particolare l’ordine sovra-individuale e sovra-sociale. E da qui dunque catturata dai totalitarismi. Potente involuzione del termine nella prima metà del ‘900. Qui Galli riprende l’approccio di Gramsci per tornare a incrociare Nazione e popolo. Ma la complessità dell’epoca in cui questo tema viene messo in capo a un soggetto politico segnato pesantemente da massimalismo ideologico ha mostrato di non aver recuperato il valore “romantico” dell’espressione (per riprendere l’idea di Chabod). Cosa che induce piuttosto a guardare con più efficacia alla parte finale della nuova valorizzazione della parola, quella che più di recente si confronta con la potenza e i limiti della globalizzazione. Ristabilendo il nuovo confronto tra xenofobia e progressismo, tra inadeguati primatismi e quello che Galli riconosce essere un passaggio maturativo della storia: “la nazione non implica alcun rifiuto identitario del conflitto: nasce da questo e lo sopporta benissimo”.
In qualche modo Giorgia Meloni pare arrivata (con i suoi inevitabili andirivieni e con alcune ambiguità) su questo terreno concettuale. Questo è, in sostanza, l’appello ai progressisti: attraverso un ripensamento sull’idea di nazione (oggi per un paese come l’Italia con forte implicazione europeista) promuovere quella – così la chiama – “autocoscienza storica e civica”, diciamo noi piuttosto smarrita nell’identità popolare. Questo appello non trova grandi riscontri ma confluisce in qualche modo nel rialzo di temperatura provocato da un 25 aprile in cui per un po’ tutto pare concentrarsi nel cosa farà e cosa dirà Giorgia Meloni nell’occasione. Che nei preliminari di questa discussione – con al centro il concetto di Nazione – aveva avanzato una delle sue ridefinizioni con doppio sguardo, citando Ernest Renan: “La Nazione è una grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere insieme” [22].
Un altro incidente – provocato da un imbarazzante considerazione sulle Fosse Ardeatine fatta da Ignazio La Russa – riguarda, a marzo avanzato, un’altra storia sotto la brace che percorre lo scontro politico, militare e poi narrativo tra fascisti e antifascisti, lo scontro sulla guerra partigiana. Interessante l’opinione di Giorgio La Malfa (che si richiama nell’ottica del giudizio all’azionismo del padre) che non ha remore a considerare la colpa dei morti della rappresaglia nazista “da attribuire al regime fascista”) e che fa pesare – nelle ambiguità di Giorgia Meloni – il piatto della bilancia sul profilo post-fascista: “La premier usa gli stessi trucchi retorici di Almirante ed è ancora un passo indietro rispetto a Fini”[23].
Ed un altro inventario utile nel far sintesi di questo scontro continuo è quello del vittimismo.
Lo fa Stefano Cappellini su Repubblica: “Agli eredi di Giorgio Almirante piace tuttora immaginarsi come una minoranza anticonformista e assediata. ogni giorno una dose di vittimismo”[24].
Mentre è Luciano Violante. ex-presidente della Camera, di formazione anche familiare comunista, che aveva provato, con l’autorità parlamentare, a riproporre il tema della “pacificazione”, a mettere nello scontro verbale la distinzione tra i “pochi nostalgici” e le potenzialità della trasformazione che prende forma: “Meloni estranea al fascismo. Saprà unire i suoi elettori e allontanare gli estremisti”[25].
Giorgia Meloni è naturalmente all’Altare della Patria con il Presidente Mattarella e trova una modalità informale di pronunciarsi su un terreno ormai infuocato dalle improvvide dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa che respinge l’adesione al principio “siamo tutti antifascisti” non ritrovandolo nella lettera della Costituzione e peggiora il clima combinando il dovere istituzionale di partecipare ad una festa nazionale ma bilanciando il gesto con il tributo a Praga di Jan Palach suicida nel ’68 per l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
La modalità informale di Giorgia Meloni è una lunga lettera che occupa una pagina del Corriere della Sera in cui, pur nella conferma della condanna del fascismo-dittatura, trova il modo di non pronunciare l’espressione antifascismo (i partigiani diventano patrioti) e preferisce l’espressione di Festa della Libertà (sentimento popolare che si è affermato) rispetto a Festa della Liberazione (che ha riferimenti alla guerra contro l’occupazione nazifascista). Fiumi di inchiostro, qui, sul perdurare di una narrativa binaria attorno ai nodi della storia del ‘900 e ondata di dichiarazioni di parte governativa sulla chiarezza della coerenza costituzionale della premier[26].
La posizione netta che assume nell’occasione il Capo dello Stato Sergio Mattarella soprattutto intervenendo nel cuore dell’antifascismo partigiano italiano, il Piemonte, salva la chiarezza istituzionale sulla materia ma mostra quanto stenti il confronto maturo del sistema politico nel suo complesso sulla riapertura, culturale e civile, di questioni di radici dell’Italia repubblicana entro cui tentare una piattaforma più moderna e avanzata di aggiornamento interpretativo dell’identità nazionale[27].
Si ha l’impressione che l’arrivo a breve dell’80° anniversario dell’8 settembre, data ancora più cruciale per la crisi del principio stesso dell’identità nazionale, non darà il tempo per riqualificare sino in fondo quel confronto finora trasfigurato in zuffe occasionali. E tuttavia il repertorio delle argomentazioni – che con questo scritto, con ovvi limiti, si è cercato di proposito di aggregare in una visione di insieme della nervosa e non adeguata ancora maturazione evolutiva – resta un problema centrale della rigenerazione rallentata di tutto il quadro della politica italiana. E anche della poca influenza che su di essa ha avuto la filosofia dell’esprit républicain lanciato da Mario Draghi nel corso del governo di emergenza (pur con il grosso dei partiti in coalizione e con il perdurare ancora di una scia di consenso dell’opinione pubblica che gli attribuisce, pur essendo fuori scena, il più alto gradimento tra tutte le figure considerate in campo).
Lo scenario che avanza è naturalmente quello delle elezioni europee, per loro natura una serrata lotta tra le forze in campo e con il rischio peggiorativo per la democrazia italiana di un ulteriore avanzamento dell’astensionismo. Eppure, anche un cantiere straordinario – per chi volesse dedicarcisi – proprio per la ridefinizione dei confini concettuali della parola patria e del chiarimento vitale per il nostro futuro attorno all’idea che nazione non può trascinare l’incubo dei nazionalismo. Ma l’angustia dell’andamento del dibattito che ci precede (anche perché – come dice Sabino Cassese – “L’Italia riesce sempre a confondere fenomeni con epifenomeni, ragionamenti con sentimenti”[28]) non genera di per sé un grande ottimismo.
Qualche ottimismo pare esserci in chi pensa che tra Giorgia Meloni e il suo partito aumenti una certa insofferenza di comportamenti[29] e dunque, con il successo dei governisti nel confronto interno a destra, si mescolino le carte attraverso le più ampie frizioni tra moderati e soprattutto il fronteggiamento delle elezioni europei convinca FdI a non schiacciarsi su quel fronte che si è chiamato a lungo “Visegrad”. Ma alla fine delle analisi anche i quasi ottimisti ammettono che per il percorso di Giorgia Meloni il “richiamo della famiglia” resta ancora non opportunità ma identità.
Al tempo stesso l’evoluzione del centro-sinistra (in cui l’apparato della nuova segreteria assomiglia alle diaspore create da gruppi politici come SEL) non è sintonizzata per riprendere le fila di un discorso caro alla componente gobettiana del vecchio PCI e alla componente sturziana della vecchia DC, ma poco alle componenti che decisero la fusione a freddo dei dem.

Un appello
Se è concesso conclusivamente un appello – proprio su queste pagine – di completamento rispetto a questo “inventarione” di fatti e opinioni che da un lato caratterizzano positivamente la non indifferenza in Italia del passaggio di consegne ad un governo che porta nei simboli del partito egemone le tracce di fedeltà alla memoria del fascismo; ma anche dall’altro lato negativamente la difficoltà di mettere mano alla relazione politica-cultura-storia per una reinvenzione seria e moderna, soprattutto adeguata a conflitti e crisi del nostro tempo circa il lessico identitario che riguarda l’idea di patria e l’idea di nazione, ebbene uno sforzo di elaborazione non può non venire da chi si richiama e lavora ancora sulle culture politiche che hanno più ragionato sui nessi tra Risorgimento, Resistenza e Patria europea, ovvero con sguardo alla liberazione dai nazionalismi suprematisti ma anche al senso della specificità di radici culturali e identitarie conviventi.
Questo è l’anno, per l’Italia, come si è accennato, anche di una ridefinizione di quell’8 settembre che, considerato come “la morte della patria”, metafora che sollevò le critiche di Carlo Azeglio Ciampi e che si intreccia con il 2024 in cui (con al centro il delitto Matteotti) cento anni fa si instaurò la fine della democrazia parlamentare e dilagarono tutte le retoriche di regime fino al fallimento di una guerra medioevale per riorganizzare le supremazie territoriali. Si discuta a fondo, insomma, se c’è ancora margine per una lettura condivisa di questa storia e dunque per una liturgia repubblicana moderna, oppure se nel destino delle disuguaglianze che caratterizzano l’incompiutezza nazionale dell’Italia ci sia da aggiungere in via definitiva anche quella dell’interpretazione identitaria.
Note
[1] L’operazione fu ispirata dalla tesi di Domenico Fisichella, che, nel 1992, in un articolo apparso su Il Tempo, suggerì al MSI-DN di farsi promotore di una “alleanza nazionale” per uscire dallo stato di ghettizzazione politica in cui versava. Il nome “Alleanza Nazionale” non è casuale: fu scelto per definire il partito o coalizione che avrebbe dovuto contrapporsi all’analoga “Alleanza Democratica”, partito o coalizione che si sarebbe formato a sinistra (in previsione di un sistema politico bipolare di cui tanto si parlava allora) e che appariva incontrastabile senza un’intesa fra i gruppi politici di destra. Il 26 novembre 1993 venne presentato ufficialmente il progetto di AN e nacquero i primi circoli sul territorio, ma solo l’11 dicembre successivo il Comitato Centrale missino approvò definitivamente il nuovo Movimento Sociale Italiano – Alleanza Nazionale, con l’astensione di dieci dirigenti rautiani. Nome e simbolo di AN furono in tal modo utilizzati dal MSI come contrassegno elettorale per la prima volta nelle elezioni politiche del 1994. Fiuggi fu scelta come la città dove svolgere prima l’ultimo congresso nazionale del MSI-DN e quindi il congresso costituente della nuova AN, nel quale, il 27 gennaio 1995, venne operata la “svolta” che indirizzò il partito guidato da Gianfranco Fini verso la destra conservatrice ed europeista. Solo una minoranza con Pino Rauti, da sempre animatore dell’ala sociale, unitamente ad esponenti quali Giorgio Pisanò e Tommaso Staiti di Cuddia, non accettò questo cambiamento, interpretato come un disconoscimento del proprio passato, e non entrarono nel nuovo partito dando vita al Movimento Sociale Fiamma Tricolore (Wikipedia).
[2] L’analisi di quel documento – finito in ombra con l’ascesa al governo di Giorgia Meloni e il suo partito – in un periodo in cui il carattere di quel passaggio fondativo veniva sostanzialmente dissimulato per mettere a fuoco una narrativa più adatta al fronteggiamento di una domanda internazionale di posizionamento della nuova leadership italiana.
In Stefano Rolando Dalle “Tesi di Trieste” al Partito Conservatore. Un argomento della “democrazia futura”.
Per la rivista Democrazia Futura con pubblicazione anticipata dal magazine online Key4biz il 16.1.2023.
[3] Franco Ferrari, Giorgia Meloni e la parola impronunciabile – Il Mulino 17.6.2021 – HTTPS://WWW.RIVISTAILMULINO.IT/A/GIORGIA-MELONI-E-LA-PAROLA-IMPRONUNCIABILE
[4] La rilevazione SWG del 10-16 aprile 2023, in prossimità del 25 aprile, attribuisce questa posizione al 34% degli italiani, cosa che rende l’elettorato di Fratelli d’Italia (riferibile al 15% degli elettori aventi diritto, anche se espresso con il 26% dei voti depositati nelle urne, in un quadro astensioni che ha raggiunto il 25 settembre il 40%) con evidenza sintonico con un sentimento di disagio nell’assumere l’antifascismo come valore condiviso e come precondizione costituzionale.
[5] Dal discorso di insediamento di Giorgia Meloni alle Camere (25.10.2022).
[6] Oltre all’approccio storico-romanzato della (finora) trilogia di Antonio Scurati sulle tracce di fascismo che restano nella pancia degli italiani, motivando il racconto “umano” che si confronta criticamente con la mitologia del “Duce”, è interessante vedere nei linguaggi, negli aspetti simbolici, nelle tracce allusive la scia lunga dell’estetica – se co sì si può dire – del fascismo. Utile in proposito lo studio di due membri dell’Accademia della Crusca – Valeria Della Valle e Riccardo Gualdo – con la prefazione di Claudio Marazzini su Le parole del fascismo. Come la dittatura ha cambiato l’italiano – edito dalla Accademia della Crusca e diffuso dal quotidiano La Repubblica (2023). In questa cornice è tornata in campo la “lotta all’idioma globalista” con l’autarchica proposta di derubricazione dei termini in uso nel linguaggio corrente soprattutto ricavati dalla lingua inglese (cfr. Vitalba Azzolina, Rampelli, la lingua italiana e la coerenza che manca, Domani, 9.4.2023)
[7] Io sono Giorgia, Rizzoli, 2021. Chi scrive ha lavorato analiticamente su questo testo, con ampia selezione di citazioni, scrivendo “Cercando nell’autobiografia di Giorgia Meloni” (Democrazia futura, con anticipazione in Key4biz, il 18.10.2022 – https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cosa-ci-si-puo-aspettare-da-giorgia-meloni-leggendo-la-sua-autobiografia/420446/
[8] È l’11 ottobre 2021, la leader di Fratelli d’Italia è ospite al raduno del partito di destra Vox e pronuncia queste parole in lingua spagnola, aggiungendo: “La nostra identità è sotto attacco, ma non lo permetteremo”.
[9] Salvatore Vassallo, Rinaldo Vignati – Fratelli di Giorgia-Il partito della destra nazional-conservatrice, Il Mulino, 2022.
[10] Andrea Palladino, Meloni segreta (Ponte alle Grazie, 2023).
[11] Guido Caldiron, L’identità della destra italiana tra incerto approdo nazional-conservatore e nostalgie missine, Il Manifesto, 25.4.2023.
[12] Tema sollevato dopo l’affermazione elettorale di Giorgia Meloni, da Paolo Pombeni: “Se Meloni riuscirà davvero a gestire un nuovo contesto, avrà aperto, grazie, non lo si dimentichi, al lavoro fatto da quel servitore delle istituzioni che è stato Mario Draghi, finalmente una stagione di alternanza politica fra la destra e la sinistra, che si scambiano i ruoli nel considerare con approcci diversi problemi che riconoscono come comuni (ovviamente passando per confronti elettorali organizzati da leggi che non siano pastrocchi come quella attuale). Altrimenti avremo avuto, non sappiamo per quanto tempo, un altro episodio del succedersi di alternative che cancellandosi a vicenda non fanno mai fare al paese alcun vero passo avanti”.
[13] Il convegno “Pensare l’immaginario italiano, Stati generali della cultura” si è svolto il 7.4.2023 all’Hotel Quirinale a Roma. Una giornata di incontri e conferenze con amministratori locali, associazioni, fondazioni, operatori culturali, intellettuali, giornalisti. L’iniziativa è stata pensata e organizzata da Francesco Giubilei, intellettuale di area dell’associazione Nazione Futura, da Emanuele Merlino, capo-segreteria del ministero della Cultura e da Alessandro Amorese, deputato FdI e capo-gruppo alla Commissione cultura della Camera. Interventi (quelli della rete dei soggetti politico culturali di riferimento) programmati: la Fondazione An, rappresentata da Giuseppe Valentino, il centro Studi Pino Rauti, Fare Futuro (Luigi Di Gregorio), Nazione Futura (Davide Gabriele), New Direction (Antonio Giordano), Arsenale delle idee (Manuela Lamberti), Rete Liberale (Riccardo Lucarelli), Lodi Liberale (Lorenzo Maggi), Fondazione Tricoli (Tommaso Romano), Centro Studi Machiavelli (Daniele Scalea), Officine di Hermes (Fulvia Toscano).
[14] Citazione tratta dal quotidiano Il Manifesto (Eleonora Martini, 2.10,.2022), L’onda dei conservatori europei, “più istinto che idee” – https://ilmanifesto.it/londa-dei-conservatori-europei-piu-istinto-che-idee
[15] Comunicato dell’Ufficio stampa del MiC (4.4.2023): “Con riferimento all’articolo apparso oggi su Repubblica.it dal titolo ‘Pensare l’immaginario italiano’, il convegno organizzato da Sangiuliano per una nuova egemonia culturale della destra”, si precisa che né il Ministro Gennaro Sangiuliano né tantomeno il Ministero della Cultura hanno avuto alcun ruolo nella pianificazione dell’iniziativa, che è curata da organizzazioni private. Il Ministro Sangiuliano interverrà ai lavori e svolgerà una sua relazione”.
[16] Sintesi dei propositi in Paolo Conti, Identità, lingua madre (e Gramsci). La destra alla battaglia della cultura – Corriere della Sera,7.4.2023.
[17] Podcast n. 39, Il Mondo Nuovo (8.4.2023) – Identità nazionale. Cioè? – https://stefanorolando.it/?p=7516
[18] Risponde comunque più a logiche geopolitiche e geoeconomiche lo sforzo compiuto in questo periodo dal team di Aspenia, la rivista fondata da Giuliano Amato in seno a Aspen Institute Italia nel 1995 guidata da Marta Dassù’, giunta al centesimo fascicolò intitolato “Noi italiani” con l’intento non tanto di valutare l’immaginario ma il “peso” e l’ affidabilità internazionale di un sistema-paese in cui le dimensioni competitive secolarmente fanno discutere se l’Italia sia l’ultimo dei grandi o il primo dei piccoli. Una via di mezzo che lo stesso Giuliano Amato conferma nell’evento di presentazione a Roma il 3 maggio in cui emerge che, dal momento in cui i “grandi” paesi europei non se la passano molto bene e l’ economia italiana dà segni di ripresa, resta l’ handicap di non avere adeguate dimensioni competitive nel sistema di impresa e non coltivare le continuità di governo necessarie, ma di dare segni di vitalità anche identitaria ( tra cui Amato annovera il contributo di affidabilità portato dall’esperienza Draghi) per giocare una partita in cui le elezioni europee del 2024 disegneranno, in tutta la loro complessità, alleanze e influenze. Gli italiani, tuttavia, tra il crescente astensionismo e dati preoccupanti sulla fiducia nelle istituzioni (con dentro anche banche e partiti), non paiono altrettanto ottimisti.
[19] Gli spunti qui raccolti sono stati oggetti di un podcast sul magazine online Il Mondo Nuovo, il 1.3.2023, la cui versione scritta è stata ripresa da Key4biz il 13.3.2023 – https://www.key4biz.it/democrazia-futura-patria-e-nazione/438292/
[20] Il piano per il turismo per l’Italia farà leva su mare, fiere e digitale – Intervista di Maria Latella al ministro del turismo Daniela Santanchè – Sole 24 Ore 5. 3. 2023
[21] Le mie considerazioni su questo passaggio in Il Mondo Nuovo (19.3.2023) su “Patria e Nazione. Seconda puntata”. audio: https://www.ilmondonuovo.club/patria-e-nazione-parte-2/ ; scritto: http://stefanorolando.it/?p=7444
[22] Parte dell’ampio inventario dell’intervista di Claudia Morgoglione a Carlo Galli, “Non rischiamo il nazionalismo ma l’apatia”, Repubblica, 21.3.2023. Nel dialogo Galli – a proposito di Renan – polemizza con la superficialità di critiche da sinistra (nel caso Fratoianni) alla Meloni: “Contro la premier si utilizzano spesso argomenti sbagliati”.
[23] Intervista di Simonetta Fiori a Giorgio La Malfa, “Meloni come Almirante. Dietro l’italianità nasconde la storia”, Repubblica ,27.3.2023.
[24] Stefano Cappellini, Nazione e tradizione, la destra meloniana ostaggio dei suoi feticci”, Repubblica, 5.4.2023.
[25] Intervista di Roberto Grassi a Luciano Violante, Corriere della Sera , 24.4.2023.
[26] Un’efficace sintesi della cronaca degli eventi in Gianluca Mercuri, Il 25 Aprile di Meloni e l’antifascismo di tutti, Il Punto del Corriere della Sera – 25.4.2023.
[27] Lina Palmerini, La Costituzione è figlia della lotta antifascista – Il 25 aprile di Mattarella – Il Sole 24 ore, 26.4.2023.
[28] Sabino Cassese, La Repubblica e i suoi 75 anni, Il Foglio (14.3.2023).
[29] Scava sull’argomento il politologo Gianluca Passarelli, forse premendo un po’ troppo l’acceleratore (La premier si vergogna del suo partito. Ma non c’è ancora la volontà di affrancarsi, Domani 1.5.2023).