Stefano Rolando
Versione audio: https://www.ilmondonuovo.club/milano-nelle-sue-incertezze-niente-e-scontato/

Provo, dopo un bel po’ (credo che l’ultima volta sia stata quella di raccontare con un certo favore la Book City del 2022), a tornare in questi podcast dedicati alla rappresentazione, alla città italiana che disputa con Napoli non solo il campionato di calcio (che è una parte non banale dello spirito della rappresentazione), ma anche il campionato più fluido, meno catalogabile, che non dipende da biglietti venduti ma dal viaggio delle nuvole (voglio dire le nuvole della percezione) costituito dal valore del patrimonio simbolico. Parlo, come si è capito, di Milano. La mia città, alla quale ho inflitto mezzo secolo di navetta con Roma, ma proprio perché uso la parola navetta spiego anche che alla fine ci torno sempre, quasi settimanalmente.
Ora – nel mondo – è il turno di Napoli. Lo scudetto, 3 milioni e mezzo di turisti in città nel 2022 (forse di più) destinati a insidiare Firenze e Venezia nel 2023, le paginate della grande stampa anglosassone e americana, i 18 set cinematografici in piedi in città. E molto altro.
Ma Milano viene dall’onda lunga dell’Expo del 2015. Ha cambiato pelle, skyline, narrativa, mandando in soffitta l’autodefinizione di città industriale, pur senza ancora trovare un concetto così forte per sostituire il suo sottotitolo.
La politica faceva da protagonista finché il rito ambrosiano reputava di avere una partita da giocare a fondo rispetto al rito romano. Oggi quella competizione appare illanguidita e la politica ha una sceneggiatura minimale. La cultura del “fare” resta il collante. Vale per l’evoluzione urbanistica con la sua tendenzialità al lusso. Vale per il commercio gastronomico, che ha messo in soffitta risotto e cotoletta a vantaggio di infinite stravaganze attrattive. Vale per la declinazione del design (unire l’utile al bello) che ha superato i confini del mobile e abbraccia tutta la nuova vera economia del territorio: l’eventistica.
Difficile governare una città così. Produce stelle ma anche antinomie.
Trasforma tutto (a cominciare dai prezzi, dagli affitti, dal costo della vita, dalla girandola commerciale), ma introduce gentrificazione (espulsione socio-anagrafica) e de-identificabilità.
Il concetto di destra e sinistra che Meloni e Schlein interpretano per l’Italia – polarizzando la politica attorno all’idea di Nazione-Palazzo e all’idea di una Piazza-Paese-Movimento – a Milano è quasi inapplicabile. Tutto il suo cambiamento è un po’ di destra (il lusso) e un po’ di sinistra (l’innovazione), ma non è questa la sceneggiatura che si sta raccontando in Italia.
La “squadra al comando” in città parla di “battaglia globale” ed è vero che la città ha provato a staccarsi dal campionato delle città medie (Lione, Barcellona, eccetera), covando molti tratti degni di aspetti delle città globali, ma non avendo di esse né le dimensioni, né il pil, né l’internazionalizzazione piena dei suoi circuiti formativi, amministrativi e professionali (altrimenti non avrebbe perso pochi anni fa proprio su questo terreno la sua battaglia per avere l’Agenzia europea del farmaco, assegnata invece ad Amsterdam).
Insomma appare in evoluzione, ma ancora ampiamente transitoria. C’è la tendenzialità, ma restano aperte le incertezze di percorso e la chiarezza condivisa degli obiettivi per incrementare la massa critica che sostenga lo sviluppo ma anche le politiche di equità (1).
E se è una transizione strutturale, allora dovrebbe anche essere una transizione concettuale, narrativa, definitoria. Non mi dispiace immaginarla così. Perché la rende “potenziale”, sperimentale, più conflittuale di quello che si vuole ammettere.
E anche qui si aprono contraddizioni. La città dichiara la sua “sperimentazione”, persino la sua “transizione”, ma sembra anche che abbia impoverito il suo sforzo di ricerca di fondo su di sé, sui suoi destini, sulle sue destinazioni.
Per esempio: un giorno accetta, un altro giorno archivia il suo rapporto sia con la Regione sia con la sua stessa Città Metropolitana. Una volta perché la legge è fatta male, si dice, un’altra volta perché c’è conflitto politico, un’altra ancora perchè le risorse pubbliche vengono dichiarate insufficienti.
Ma la Milano dei suoi cambiamenti storici non ha mai guardato in faccia a questi limiti.
Ha pensato, ha scelto, è cambiata. E buonanotte.
Come funziona una “città globale” che non arriva a un milione e mezzo di abitanti e che tratta sette/ottocentomila pendolari quotidiani come altro da sé?
Si dice che nel 2024 si andrà al voto in Italia per le Province. Dunque anche per le città metropolitane. Dunque anche per una certa idea almeno delle grandi città capitali dei loro territori di ridisegnare un rapporto più moderno e funzionale con l’istituzione oggi più sciupata da varie e successive crisi, quella regionale.

Da Milano a Napoli, la discussione sui modelli di sviluppo urbani (intervista di Lucia Tozzi a Corriere.it).
E Milano da dove riparte su questo punto?
Certo, con la sua crescita, la sua trasformazione, la sua innovazione, il suo pragmatismo. Ma anche con in suoi partiti un po’ invisibili, con la sua politica che ha abbandonato i centri studi, con la sua impresa un po’ mangiata dalla finanza e quindi con lo sguardo più a Dubai che a Sesto San Giovanni.
Eppure resto convinto che queste contraddizioni nascondono varie potenzialità, obbligano a vedere dove stanno i cantieri testardi che seguono l’intelligenza, più che la moda.
E’ vero che c’è una movida intellettuale un po’ indolente, paga di aver fatto pace con le città “divertenti” italiane e mediterranee rispetto alla sua storia di città di fabbriche, ciminiere e lavoro (il milanese è l’unico dialetto in cui il lavoro si chiama con un verbo – laurà – non con un sostantivo). Ma è anche vero che c’è una “movida” che discute, cerca, provoca.
Ne è un esempio di questi ultimissimi mesi, un certo successo ottenuto nelle librerie e nel passaparola (“Dovresti leggere la Lucia Tozzi. Non la conosci? Dovresti proprio tu rispondere al suo titolo ambiguo “L’invenzione di Milano”. Nel senso che la città sta scrivendo il suo nuovo copione, ma magari proprio per questa “invenzione” stiamo scappando dalla realtà”, eccetera eccetera, come mi sento dire spesso di recente). E così ho letto Lucia Tozzi – che studia politiche urbane, ha una visione diciamo così di sinistra ma capisce la post-ideologia, ha una critica di fondo del capitalismo dei consumi ma soprattutto non transige sulla adozione della nuova ideologia urbana fondata sul marketing e la autorappresentazione comunicativa di un “miracolo”).
Debbo dire che questo tema lo capisco e ne scrivo da tempo. Ho opposto per anni al cosiddetto marketing territoriale un’idea credo più complessa di Public Branding fatto di analisi dell’evoluzione identitaria e narrativa gestita da uno spirito critico verso le sostenibilità e non verso l’autocompiacimento. Il libro ha molti spunti. E da alcuni anni, con interventi meno eclatanti, l’autrice ne parla segnalando il pericolo di nuove conflittualità (di cui quella giovanile contro carovita e carocase è solo un esempio) rispetto alla perdita di ruoli progettuali che mettano a confronto in modo non impari interessi privati e istituzioni. La leva critica è argomentata. Un po’meno i riferimenti ai modelli perseguibili per avere forza culturale e politica di riequilibrio.
Ho letto in un’intervista che Lucia Tozzi dice: “Milano ha bisogno di spostare risorse e persone dal comunicare al fare cose concrete, e quindi in primissimo luogo di riorientare il proprio futuro verso la produzione (industriale, culturale, di ricerca) e fare cadere i valori immobiliari”.
E’ uno spunto che andrebbe molto irrobustito, trovando centri di interesse e non solo di discussione intellettuale per valutare la radicabilità di questi orientamenti. Ma il dibattito seguito all’uscita del saggio, con varie interviste approfondite di cui c’è traccia in rete, sviluppa varie argomentazioni (che non riguardano solo Milano, ma anche Napoli e in generale il modello di sviluppo e le sue criticità dei nostri sistemi urbani).
La segnalazione che faccio qui – insieme a quella del voto per una ripresa delle dinamiche delle città metropolitane – non è certo il luogo per questo genere di radicamento. Ma almeno per segnalare che nella rappresentazione dei nostri sistemi urbani, Milano e Napoli appaiono ora come ambiti in cui conviene all’Italia che non si dia tutto per scontato. La pizza a Napoli, l’aperitivo a Milano, eccetera. No, non basta, non ci basta.
E l’immaginario collettivo aiuta a cercare di scorgere altro.
Ne ho parlato un po’. Ne riparleremo forse di più e forse meglio.
(1) Riferimenti a questa “tendenzialità” nelle tabelle del rapporto “Your Next Milano – Milano nel confronto internazionale: performance, attrattività e reputazione“, promosso da Assolombarda con la collaborazione di 24ore Cultura e Milano&Partners (2022).