Podcast n. 61 – Il Mondo nuovo – 23 settembre 2023 – Europa senza confini materiali interni. E quelli immateriali?

Pubblicato dal magazine online Il Mondo Nuovo

Stefano Rolando

Versione audio:https://www.ilmondonuovo.club/elezioni-europee-il-vero-quesito/

Atlante dell’Europa realizzato in Catalogna nel secolo XVI (fonte Aspenia online)

Parlando di Europa e di elezioni del Parlamento europeo nel 2024 tutto ciò che emerge sui media riguarda soldi e politica. Cioè, come l’Europa porterà a compimento il piano finanziario di sostegno ai paesi membri concepito durante la pandemia e con quali regole; e come si formerà una maggioranza politica in seno al Parlamento per dare continuità ovvero discontinuità al governo dell’Europa.

Niente da dire. I due argomenti sono da prima pagina. Ma la domanda che si ripropone da anni, resta a monte: ma quale Europa?

Non solo per riferirsi alle funzioni e alla governance.

Ma per fare una legittima revisione della tenuta in sé – come dire? sociale, culturale, antropologica – di quel sistema complesso di nazioni che – attenzione –  non si sono unite statualmente, non si sono federate, non si sono affraternate costituzionalmente, non hanno scelto di avere una capitale e un governo, non hanno scelto di avere una sola forza armata,  naturalmente non hanno scelto una sola lingua ufficiale, non hanno scelto di avere competenza forte su materie delicate e importanti (per esempio la sanità), non hanno scelto – qui dico soprattutto – di avere un testo di storia almeno trimillenaria per l’istruzione primaria e secondaria adottato ufficialmente come comune.

Tuttavia qualcosa di storico quelle nazioni l’hanno fatta.

  • Unirsi in un patto moralmente irreversibile (a cui il Regno Unito si è tuttavia sottratto), che fu creato attorno alla reciproca indispensabilità inventata dai padri dell’Europa nella CECA prima che nell’Unione;
  • avere alla fine un Parlamento eletto dai cittadini;
  • arrivare al recepimento automatico interno della grande maggioranza delle norme votate da quel Parlamento;
  • destinare ai programmi quote cospicue dei bilanci nazionali;
  • disporre di una politica di attuazione (la Commissione) che non è propriamente un governo ma ha risorse e abbastanza potere da tenere aperto dialogo e negoziato con tutto il mondo;
  • promuovere infinite misure di armonizzazione che magari la gente non vede ma che giorno per giorno hanno uniformato il modo di produrre, di consumare, di avere accesso comune a beni materiali e immateriali.

E sopra ad ogni cosa ha fatto una rivoluzione storica che ha determinato nel 1957 (i trattati istitutivi firmati a Roma) l’anno spartiacque di due ere, quella millenaria caratterizzata da guerre e invasioni reciproche; quella ancora nemmeno secolare della pace garantita tra i paesi membri.

E da questa data è reale l’immensa novità della cancellazione dei confini materiali (muri, fili spinati, dogane, passaporti, visti, eccetera) tra i paesi membri.  I paesi membri sono per definizione borderless.

Ecco, qui sta il tema che dovrebbe accompagnare il nostro modo di procedere verso le elezioni del 2024.

Siamo sicuri che questa Europa sia anche borderless dal punto di vista culturale, ovvero immaginario e più ampiamente immateriale?

C’è un’antologia dei buoni sentimenti dell’integrazione.

Che è nutrita da argomentazioni economiche e di mercato, ma passa anche attraverso il riconoscimento che i grandi del pensiero o dell’arte e della creatività (brevetti e invenzioni comprese) dei nostri paesi appartengano ormai al patrimonio comune. Qualche volta tifiamo di più per i nostri pittori, per i nostri romanzieri, per i nostri designer, abitualmente per i nostri calciatori e ciclisti. Ma alla fine chi disconosce che Shakespeare, Voltaire, Chopin, Bach, Mozart, Verdi, Picasso, Einstein, Dante Alighieri, eccetera, eccetera, ci appartengono, sono espressione di una “volta morale” che in tutta la sua complessità di spazio, tempo e valori copre interamente le nostre ragioni identitarie?

Questo argomento vale sulla carta, nei discorsi ufficiali, nella percezione dei letterati e degli scienziati.

A proposito ho letto ieri la meravigliosa battuta sugli scienziati che hanno letto mille libri e che dichiarano di non sapere nulla e di dovere ancora imparare tutto, mentre c’è gente che ha letto a malapena un solo libro nella vita e sostiene di sapere tutto e di dirlo anche con i megafoni.

Appunto. C’è il tema dello scadimento progressivo del rapporto tra cultura e politica e del rapporto tra cultura e mass media. Per cui la “rappresentazione” del pensiero collettivo si va rendendo più preda degli stereotipi che delle volontà conquistate tra lotte e sofferenze.

E lo stereotipo, che sta risorgendo dalla sua disfatta dopo la seconda guerra mondiale, è racchiuso soprattutto nei concetti di nazionalismo e di primatismo.

  • E’ stereotipo perché è ripetuto senza troppe argomentazioni.
  • E’ stereotipo perché è alimentato dall’idea di avere una cosa di cui compiacersi.
  • E’ stereotipo perché sollecita il bisogno figlio delle frustrazioni di avere una bandiera contro qualcosa.
  • E’ stereotipo perché fa credere che avere nemici corrisponda a darci la forza che spesso non abbiamo.

E questo stereotipo si è rafforzato nelle pieghe dell’onda mondiale rappresentata da una globalizzazione che ha portato immensi vantaggi (tecnologici e di acquisizioni scientifiche valide per tutti) e immensi problemi (crescita delle disuguaglianze, travisamenti delle tradizioni, distorsioni valoriali).

L’interesse nazionale è dimostrare di essere autorevoli, non comizianti.

Cercavo tempo fa citazioni sulle distorsioni propagandistiche a proposito del rapporto tra italiani ed europei e ho trovato questa fulminante considerazione di Francesco Saverio Nitti (che dice anche che “il nazionalismo sta alla nazione come il bigottismo sta alla religione”): Scriveva (prima della seconda guerra mondiale): “Ci voleva tutta la stupidità di Mussolini per dire che l’Inghilterra è il nostro eterno nemico. Nella sua storia l’Inghilterra non ha mai partecipato ad alcuna guerra contro l’Italia e sempre che ha potuto ha aiutato il nostro Paese”.

E sto parlando di un sentimento che, con la seconda guerra mondiale, ha avuto anche un certo giustificato posto tra i nostri soldati maltrattati nei tanti campi di internamento inglesi. Ma quando ciò si traduce in valutazione politica deve misurarsi con precisione con la storia.

In questa cornice la portata storica degli esiti di quasi settanta anni di Unione europea (con questa parola si dovrebbe intendere dal 1992, cioè dai Trattati di Maastricht, ma ci siamo capiti) a proposito del borderless materiale e immateriale qualcosa si va trasformando – nella rappresentazione politico-mediatica – in un travisamento che sta conquistando purtroppo anche una parte dei giovani.

I confini saltano per le cose che ci fanno comodo.

Ma non saltano per le cose su cui agiscono fattori involutivi: il richiamo della foresta (avere nemici fuori, per far finta di rafforzarci dentro), da intendersi anche come rigurgito dei linguaggi forti, come sono quelli in cui sono tutti specialisti, cioè contro il vicino di casa per poterci litigare senza pietà nel corso di un’assemblea condominiale. A leggere l’altra antologia a disposizione, quella delle invettive a volte con argomenti altre volte a vanvera e certamente senza ascoltare nemmeno per un secondo argomenti degli altri e comunque fuori da ogni propaganda, si ha chiaro come stia conformandosi il territorio subliminale delle prossime elezioni europee.

Quello che resta sancito nelle analisi demoscopiche di cui disponiamo in questi giorni, in cui – ancora una volta come è per tutte le cose importanti – metà degli italiani, anzi metà degli europei – è a favore del grande cammino di integrazione intrapreso e l’altra abbondante metà abbaia. Letteralmente abbaia.

In ogni caso ho davanti agli occhi i dati dell’ultimo rapporto Radar di SWG sugli italiani: solo metà dichiara che andrà a votare, tendenzialmente prevale l’opzione a far continuare la maggioranza di governo europeo attuale ma il dato di incertezza supera abbondantemente il terzo degli italiani.

Dunque, c’è una politica a disposizione degli uni e degli altri. Così come ci sono media a disposizione degli uni e degli altri. Dico sempre che nel considerare temi di questo rilievo non va giudicata solo l’offerta, che spesso dipende strettamente da una domanda al tempo stesso alimentata e servita.

Gli europeisti sostengono che nei Trattati di Lisbona (2009) c’era l’indicazione di una svolta proprio in materia di agenda culturale europea. È vero, come è vero però che quell’agenda si è fermata per la crisi finanziaria che tagliò poi le risorse per attuare molte misure.

Penso che questa volta bisogna andare al di là del pur importante “patrimonio culturale”.  Cioè bisogna entrare nel costume sociale, della lotta istituzionale contro l’analfabetismo funzionale in cui si annida il grosso di tutto l’insieme degli stereotipi che circolano in tutta Europa, non solo in Italia.

Due riferimenti.

C’è un cantiere che si aprirà a breve connettendo l’Italia e l’Europa su questa materia ed è quello determinato dall’assegnazione a Gorizia (Italia) , Nova Gorica (Slovenia) e Chemnitz (Germania) del ruolo, insieme, di “capitali europee della cultura per il 2025”. Il titolo è appunto “Borderless 2025”.

Spero che sia una forte opportunità per ragionare anche di confini immateriali, oltre ovviamente di quelli materiali di cui la storia del ‘900 ha riguardato queste città in modo impietoso.

E se posso aggiungere un auspicio c’è anche quello dettato dalla soddisfazione che a Mario Draghi sia stato affidato dall’Unione europea il compito di tornare alla cultura dei rapporti di visione;  e di immaginare come può consolidarsi la dimensione competitiva dell’Europa (appunto nei processi globali).

L’auspicio è che Draghi ripeschi dalle sue stesse dichiarazioni l’attenzione per la nobiltà di alcuni profili delle identità nazionali che costituiscono l’Europa entro cui rispondere, attraverso quel rapporto, a due domande:

  • come immaginare la sinergia europea nell’identità culturale immateriale, come precondizione di quella economico-finanziaria;
  • come corredare azioni industriali, tecnologiche, produttive e commerciali, con un progetto importante di spiegazione pubblica di questo processo; così da portare più comprensione a quella parte degli europei che sono riluttanti sull’Europa integrale perché favorevoli al fatto che il confine dell’Europa sia da limitarsi strettamente ai prodotti e al mercato.

I due esempi che ho citato sono limitrofi. Come insegnano, come argomento di base, le buone business school, ma ce lo ha anche insegnato il liceo classico (a proposito ad esempio dell’integrale accoglienza fatta dalla civiltà romana della civiltà greca pregressa, come fattore costitutivo della forza millenaria di quel potere euromediterraneo) – “identità competitiva” non è avere un nemico. È avere un duro ma leale confronto, studiare il competitor e le sue qualità, se possibile superarlo. E questo ribaltamento di paradigma vale per tutto. Dagli affari alla politica, dall’informazione all’organizzazione cognitiva.

Ma su questo aspetto magari torneremo.

C’è scrittura, c’è proposta, c’è visione su questo aspetto, che si è andato però oscurando. Quello della necessità di abbattere i confini immateriali dell’Europa come pre-condizione di una vocazione e di una politica tesa al federalismo unitario. Stanno mancano i soggetti politici che la vogliano davvero interpretare questa necessità. E sta prevalendo la tesi che la diffusione degli stereotipi antieuropei, anche a livello popolare, sconsigli di trattare il tema. Esattamente come avviene in materia di migrazioni.

Meglio rappresentare inimicizie, diffidenze, riluttanze, contrasti. Non so chi abbia avuto l’idea del pagamento della cauzione di 5 mila euro per i migranti chiusi in campi di contenimento temporaneo. E’ uno – o una – che andrebbe guardato o guardata negli occhi, magari con paradigmi lombrosiani.

E vorrei in conclusione esprimere il mio consiglio a chi – facendo leva sui territori e sulle tradizioni culturali territoriali – abbia la forza in Italia di ribaltare questa pericolosa rilassatezza che sta riaprendo le schermaglie tra le nazioni. Non nei campionati di calcio, ormai divenuti la rappresentazione della maggiore ibridazione etnica mondiale e quindi il luogo sbagliato per fare nazionalismo. Ma agendo per contrastare la sobillazione un giorno antifrancese e un altro giorno anti-tedesca (a cui corrispondono pari sobillazioni anti-italiane), con battute e polemiche che nascono spesso dagli staff di comunicazione delle cancellerie.

Né più né meno di quanto succedeva un secolo fa.

Ma sapete com’è: chi è impegnato a riscrivere la storia, opta spesso per la fantasia. E quindi non fa neanche lo sforzo di leggerla, la storia.

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