Con molto dolore ho appreso oggi la notizia della scomparsa – per me del tutto inattesa – di Giannantonio Mezzetti, toscano che dopo più di mezzo secolo a Milano non ha mai perso nulla delle inflessioni di chi parla l’italiano risciacquato in Arno, generoso, trascinatore, organizzatore, idealista e radicato nei sentimenti di amicizia. Un abbraccio affettuoso a sua moglie Claudia e a sua figlia Petra. E alla comunità di amici, nuovi e di un tempo, da cui era circondato.
Risale a quasi cinquanta anni fa la nostra conoscenza che portò alla costituzione di un centro di iniziativa a Milano in materia soprattutto di diritti umani e contro regimi liberticidi in America latina, un episodio non marginale dei miei anni giovanili che – rispondendo ai quesiti di Stefano Sepe nel recentissimo libro-intervista Il dilemma del re dell’Epiro (Editoriale Scientifica, Napoli, giugno 2018) – evoco nel primo capitolo proprio dedicato al passaggio tra gli anni ’60 e ’70 con queste parole:
“Ancora oggi non mi capacito di avere organizzato in quegli anni il mio tempo su piani paralleli tra tali e tante cose. Intanto un forte impegno in materia di diritti umani – un tema, come ho detto, importante generato dal ’68 – centrato in un comitato (il CADAL) che fondai con una ventina di volontari della buona borghesia milanese, animati soprattutto da Maria Adele Chiavolini e Giannantonio Mezzetti, presso la Chiesa di San Carlo a Milano, sotto la benevolenza di padre Camillo De Piaz, attorno alla lotta contro la tortura in Brasile. Quell’impegno era stato il risultato di un mio primo libro di saggistica dedicato alla storia del Brasile pubblicato, a ventidue anni, nel 1970 dalla Nuova Italia (per l’attenzione che ebbero a quello scritto i Codignola, padre e figlio) che a sua volta era il risultato di un anno di formazione in giro per l’Italia in materia di politica ed economia internazionale attraverso le borse di studio del CESES diretto da Renato Mieli (il padre di Paolo Mieli), che nella sua severità aveva una paterna simpatia nei miei confronti. Ma quella vicenda mi portò poi a collaborare strettamente con il Tribunale Russell per l’America latina guidato a Milano dal senatore Lelio Basso e a Roma da Marcella Glisenti. Facevo la spola tra le due città, viaggiando in 500 e organizzavo infinite cose a sostegno di una causa mondiale di delegittimazione di governi torturatori o liberticidi. Lavoravo con una tale lena – e anche con pochissimi guadagni – che un giorno Marcella Glisenti mi chiese – paradossalmente, ma diretta – se per caso non fossi stato un agente della CIA! Campavo con gli articoli che mi pubblicava soprattutto la stampa cattolica (Sette Giorni e Avvenire), che mi facevano passare per un diplomatico in pensione esperto di vicende internazionali, mentre non avevo ancora 22 anni e non avevo visto nemmeno con il cannocchiale quei paesi. Approdai all’Ordine dei giornalisti, sempre a 22 anni, nel 1970, presentando cinquanta pezzi retribuiti in due anni. Non ricordo più quante “cause” seguissi in quel periodo, tra le quali è vivo il ricordo, dell’aprile del 1972, di essere stato relatore a Milano al convegno internazionale per la liberazione delle colonie portoghesi con il patrocinio del Comune di Milano, occasione del primo legame di una lunga amicizia con l’allora sindaco Aldo Aniasi”.
In quegli anni l’amicizia che parte di quel gruppo (il CADAL) aveva con Luchino Dal Verme – il conte-soldato che, dopo lo sbandamento dell’esercito regio che lo aveva nelle sue file come ufficiale di cavalleria, guidò la formazione delle Brigate Garibaldi nell’Oltrepo’ pavese, fino a portarle all’ingresso in Milano nel fatidico giorno del 25 aprile del ’45 – fu importante per le attività di monitoraggio contro la tortura in Brasile.
Luchino aveva stretti legami di parentela con Giulia Maria Crespi. E grazie a Giannantonio non fu difficile animare Luchino per sostenere la nostra causa al Corriere contro le corrispondenze inspiegabilmente favorevoli al regime militare al potere in Brasile che aveva firmato Virgilio Lilli, sottoponendo il nostro documentato dossier che – grazie a quella mediazione – scaturì due colonne in terza pagina, di netta sterzata, firmate da Carlo Bo.
Con il mio trasferimento a Roma si allentarono i rapporti personali con quel gruppo, ma Giannantonio fu tra quelli con cui quei legami rimasero. E proprio riguardo a Luchino – nel 2013 – fu grazie a lui che tornammo a rivederci a Torre degli Alberi, dove lui era di casa, per riabbracciare Luchino Dal Verme che, in tre serrate ore, mi diede la sua ultima intervista in vita, quasi centenario, lucidissimo, civilmente appassionato come sempre, destinata al racconto plurale che organizzai nella rivista Mondoperaio in occasione dei 70 anni dall’8 settembre del 1943 (L’8 settembre di Luchino dal Verme, Mondoperaio n. 9-10, 2013).
La riuscita di quella non semplice “impresa” ci rese felici e paghi di avere in tempo restituito un debito a Luchino per la generosità di varie occasioni della sua vita. E fu anche la scintilla per riaprirci a discorsi sul presente e a condivisioni di progetti con cui Giannantonio era in sintonia particolare con sua figlia.
Poi il nostro giovanilismo, la nostra idea di avere un tempo infinito a disposizione nella vita, anzi di non avere ancora bene capito l’esatta declinazione della nozione “TEMPO”, ha lasciato che la mano del destino decidesse prima di noi attorno alle condivisioni immaginate. Anche attorno a ciò, le scomparse recenti di alcuni tra i miei migliori amici mi vanno insegnando cose che avrei dovuto imparare e capire meglio e prima. Restano le pagine gioiose. E restano gli stimoli, anche simbolici, delle cose incompiute.