Mondoperaio – n. 7-8, luglio agosto 2018
Stefano Rolando
Caldo luglio anche nella raccolta piazza della Loggia a Brescia, con radi ingressi al Comune mentre operai, bianchi e neri, montano ponteggi per un imminente concerto.
L’ appuntamento con Emilio Del Bono è fissato per il giorno dopo la costituzione della giunta di centrosinistra, secondo mandato, in una tornata elettorale in generale negativa per il PD in cui la “Leonessa” ha tenuto, al 53,86% al primo turno, staccando di quindici punti il centrodestra e lasciando Cinquestelle al 5,54%. Per una città che ha il record italiano di presenza migratoria (18,5%) il “caso” è ben evidente. Come è stata ben evidente la nostra richiesta di approfondimento.
“Sono stati giorni intensi – attacca il sindaco – e non ho ancora potuto dare soddisfazione a una grande richiesta di interviste tutte mirate a capire il “caso Brescia”. La scelta di cominciare a parlare con una rivista di cultura politica come “Mondoperaio” non è una civetteria. E’ anche il debito culturale di un ex-laureato in filosofia del diritto che aveva letto tutti gli articoli di Norberto Bobbio pubblicati da questa rivista“.
Cominciamo allora dal successo nelle urne. Poi capiremo su quale città, quale società, quale economia, quale geopolitica di questo territorio il successo si appoggia. E infine proveremo a valutare se questa Brescia – di forti tradizioni cattolico-liberali, di imperituro antifascismo, di grande intreccio tra tradizione e innovazione, 4° sistema manifatturiero in Europa e 12° città europea per valore aggiunto (nonché, come dice Carlo Cottarelli, al 90° posto al mondo, nei territori provinciali, per PIL) – ha qualcosa da dire alla politica italiana.
Presentimenti e bilanci. L’ esito era scontato?
Scontato, un risultato elettorale non lo è quasi mai. Nel nostro caso era possibile. Con molti fattori di contesto difficili che richiedevano vorrei dire una certa precisione di comportamenti e di comunicazione.
Si sente parlare di Emilio Del Bono – con quegli appellativi che si davano ai consoli romani – come del “federatore”. E’ un modello che guarda al passato prossimo, diciamo un modello “prodiano”, o ci sono spunti di futuro?
Mi sento di dire che ci sono spunti di futuro, non per insistere sul rapporto tradizionale tra “sigle” ma per parlare piuttosto di popoli e culture. Credo di avere svolto una funzione sia di sintesi che di rappresentanza. C’è una tradizione di sinistra che sente senza tentennamenti la responsabilità di governo per incidere sul cambiamento. C’è una storia cattolico-sociale che ha un forte impegno civile e nel volontariato. C’è una tradizione cattolico-liberale di orientamento moderato che è refrattaria alle parole roboanti e che si misura sulle scelte di buon senso. E’ un momento largo, che attraversa ceti sociali e che ha i suoi nessi. Vanno colti ed espressi in una idea di città capace di restituire questi approcci.
Ci sono nessi, d’accordo, ma forse anche qualche limite, qualche paletto, per poter rendere chiaro un perimetro. Oppure la post-ideologia ha messo in soffitta questi paletti?
No, no. Paletti restano. Diciamo come espressione di processi naturali. Provo a dirli velocemente. Da una parte direi la cultura democratica, dall’altra parte l’idea di città aperta che non si chiude autoreferenzialmente. Aggiungerei lo sfondo di una città europea.
Fuori dalla campagna elettorale, un giudizio sugli avversari.
Credo che il maggiore errore fatto dai miei avversari sia stato quello di avere scommesso sulle negatività. Voglio dire di avere immaginato di guadagnare voti raccontando il peggio della città. Noi siamo stati molto attenti a non fare passi falsi verso la propaganda, ma l’esigenza di fondo è stata quella di mettere in rilievo le potenzialità più che le criticità. Inutile girarci attorno, l’orgoglio di una comunità se c’è lo devi riconoscere e non subordinare a chi te lo restituirebbe solo una volta domati i guai. Riconosco tuttavia alle forze del centrodestra di essere riuscite a tenere insieme la loro coalizione.
I risultati dicono che il sindaco è andato meglio del suo partito, che comunque è andato meglio del quadro nazionale. Perché?
E’ stato riconosciuto il “buon governo” e si è consolidata la credibilità. Anche con la “tua città” il dialogo attorno alla fiducia richiede tempo. Forse alla fine l’elettorato ha misurato anche le coerenze.
Il secondo mandato presenta – nel clima di nuovismo un po’ frenetico della politica oggi – più vantaggi o più svantaggi?
Entrambi. E’ un vantaggio conoscere bene la “macchina” comunale dimostrando che entri nel merito delle operatività senza perdere tempo. Lo svantaggio sta nell’energia necessaria per reiterare l’entusiasmo.
Dunque quale è stato il messaggio più discontinuo che si è reso necessario?
Questa volta la mia proposta più marcatamente nuova è stata quella di uscire dai confini. Il tema dello sviluppo urbano, sociale ed economico era tutto centrato sull’attuazione delle potenzialità interne, questa volta abbiamo cercato di declinarlo anche con uno sguardo internazionale. Ho sentito l’esigenza di far crescere la percezione, da parte dei cittadini, della possibilità che Brescia diventi parte della costituzione degli Stati Uniti d’Europa.
La Lega, già robusta a Brescia, è volata in Lombardia e ha avuto esiti brillanti in tutta Italia. Come si spiega la controtendenza a Brescia?
Questa partita è stata decisiva per la città e per la politica che rappresentiamo. E’ dal tempo del referendum che vi è chi disegna da un lato una città rimpicciolita, ridotta al suo provincialismo. Con il rischio di incattivirsi nelle paure. E dall’altro lato una città ha in eredità storie di grande respiro , dalla cultura della sinistra liberale alla Zanardelli al cattolicesimo non bigotto anzi laico con visione universale. Esattamente l’opposto. Sono certo che una parte decisiva dell’elettorato abbia valutato questo bivio e abbia scelto.
Il tema dello stare nelle radici e nelle tradizioni come influenza il risultato, come tiene insieme sindaco, partiti e coalizione? Quanto pesa nella cultura politica locale la parola “tradizione”?
Pesa molto. Il nostro compito credo sia stato quello di non farla confondere con la parola “nostalgia”. Essa pesa dunque in termini di identità. Non siamo i soli ad avere questo delicato problema. Che richiede (e richiederebbe ancora) strumenti non solo prodotti dalla politica. Radici che possono tenerti nella rete nostalgica di cui parla Baumann oppure che riescono a diventare proiezioni al futuro.
Questa rigenerazione identitaria è un prodotto in qualche modo locale o è parte del bagaglio politico-metodologico della coalizione che si chiama “centrosinistra”?
Il rapporto tra tradizione e immaginazione del futuro appartiene a tante comunità ricche di storie non dissipate. Però sono modelli che debbono alla fine anche incarnarsi nelle persone. E per fare la differenza credo che debbano anche essere più persone. In questa campagna elettorale, per esempio, c’è stata una parte della società civile – anche una parte notoriamente non identificabile con i partiti del centrosinistra – che si è esposta, che ha voluto partecipare. Per cosa se non perché ha avvertito esattamente questo tema?
Anche Milano ha conosciuto questo risveglio diciamo così della borghesia progressista. Non si è certi del suo volere stare a lungo in partita. La domanda insomma tocca questo tema un po’ carsico della borghesia del nord, di esserci e di non esserci, di partecipare o di giocare di rimessa…
Mi sono convinto che nessuno si spende più per una finzione. Soprattutto chi ha strumenti per considerarsi informato. Meno che mai si spende per una retorica, per una parola d’ordine dietro a cui non c’è la veridicità di chi la incarna.
In generale l’Amministrazione pubblica è un fattore di forza al nord, malgrado i molti noti problemi finanziari e organizzativi. In campagna elettorale essa è stata percepita come forza o come debolezza?
Quando si porta in campo l’Amministrazione si mette sul tavolo il rapporto tra le cose dichiarate e le cose valutabili in quanto realizzate. Gli annunci di cinque anni fa non si sono incarnati in nuovi annunci, sono stati atti (amministrativi, infrastrutturali, di servizio) attorno a cui l’Amministrazione – nel suo portato tecnico – porta testimonianza. Siccome qui c’è un rischio-paese evidente, mi sento di sottolineare molto questo aspetto nel suo essere anche un contributo in controtendenza. Non elenco le scelte coraggiose che abbiamo fatto (sulle periferie, sul PGT, sul suolo, in materia di parchi, eccetera); dico solo che tutto ciò è stato un nesso profondo tra organi politici e amministrativi della città. Se devo scegliere il dossier che ci ha portato più vantaggio elettorale – perché realizzato – è stato quello delle periferie.
Le componenti del successo
Tre parole chiave della campagna elettorale.
La parola chiave è stata “inclusione”. Nessuna astrattezza. Guardando in faccia le condizioni reali di segmenti di popolazione delle periferie che chiedeva migliore qualità di vita, guardando gli aspetti di degrado urbano e ambientale, operando sulla pressione migratoria, potendo contare sulla flessibilità del mercato del lavoro. In sostanza cercando di non tenere fuori nessuno dal “progetto di città” che abbiamo proposto. La “vitalità” della città è stato il secondo tema. Il terzo tema quello della “sicurezza” inteso come patto tra vecchi e nuovi abitanti. Qui abbiamo – metro per metro – lavorato sul lessico della Lega, dimostrando che la loro declinazione della parola sicurezza avrebbe prodotto una città più insicura.
Ci sono – nel contesto di una realtà pragmatica che sa fare i conti – le possibilità di raccontare, tentando il secondo mandato, i risultati dell’esperienza o invece anche qui si è trascinati nel circo degli anatemi e delle promesse mirabolanti?
Bisogna non dimenticare mai quando accenni ai grandi progetti di avere una parola anche per i piccoli concreti andamenti. E viceversa. Quanto alla promesse “mirabolanti” noi siamo su un altro pianeta. Per quel che mi riguarda credo anche di avere usato di preferenza la statistica – cioè i dati di verità – rispetto ai sondaggi, cioè i dati percettivi.
Prendiamo come soggetto ora il format della coalizione, quello che ancora conserva l’espressione “centrosinistra”. Per capirne il successo in un contesto di trazione moderata e con alcuni ambiti anche conservatori.
Provo a dare una risposta di metodo. Il punto sta nell’avere deciso noi, sempre, l’agenda. Mi sono rifiutato di correre dietro alle accuse e alle intemperanze del centrodestra. Intendiamoci l’agenda è la stessa per tutti, i problemi reali sono lì, uguali per tutti i contendenti. Ma se deformi le tue proposte per adattarti sempre alle condizioni di trattamento – che è un errore che il centrosinistra tende a fare di questi tempi – perdi la bussola.
Ma l’espressione “centrosinistra” è la più convincente per un elettorato come quello bresciano?
Non sempre suona benissimo. Se non hai risposte alla necessità di ripensamento che il XXI secolo ti impone nel rapporto tra parole e contenuti, puoi trovarti in mano una carta logorata. E se questo succede dilaga tra i cittadini un’idea di obsolescenza. Il che non vuol dire che non ci sia un popolo che chieda progresso, inclusione, Europa. Gli attrezzi della politica sono spesso antichi. E su questo punto bisogna lavorare anticipando i rischi. Se posso aggiungere: qui per i democratici c’è una prateria.
Se vale anche per questo il rapporto con le radici e le tradizioni, qui conta di più la cultura liberale (Zanardelli) o quella popolare (Martinazzoli)?
Risposta facile. Entrambe e in connessione. La cultura laica di Zanardelli è stata persino dialettica rispetto al cattolicesimo bresciano. Tra le valorialità di questo cattolicesimo c’è anche il fatto che esso non ha mai assunto forme bigotte. Il Novecento ha poi portato a sintesi. Il nostro tempo è quello del riadattamento a problemi di sostanza largamente cambiati.
E’ doveroso che io chieda al “federatore” che cosa vale e cosa pesa oggi la parola “sinistra” in questa città. Insieme a una risposta a chi dice che “destra e sinistra” sono categorie da buttare.
Credo che, al fondo, restino in campo due visioni della società e che nessun contesto moderno possa essere letto con gli occhiali di una monocultura. Bisogna però dire che negli ultimi anni la legittima visione di “sinistra”, ovvero la sinistra, è stata sempre più percepita come retorica. Con un fattore che ha pesato sugli esiti elettorali, quello di dare l’idea che essa era più preoccupata delle minoranze che delle maggioranze.
In una città di tradizione liberale l’economia non sarà propriamente guidata dal Comune. Ma seguendo una evoluzione con alcune discontinuità recenti la prima domanda è naturale: guidano gli imprenditori o guidano le banche?
L’economia di questo territorio è stata a lungo governata dalle banche. Ma è innegabile che gli imprenditori si siano riscattati negli ultimi anni. Nel rapporto tra innovazione e manifattura, la cultura del rischio di impresa è tornata a farsi sentire. E con essa la spinta all’internazionalizzazione. Argomenti che hanno fatto perdere terreno all’euforia di fare i soldi sostanzialmente con la finanza.
Al cuore di questa economia, dunque, la tenuta dell’economia reale e dunque del manifatturiero. Come esso nel bresciano tiene il passo con la competitività?
Innanzi tutto quando si parla di innovazione in questo campo spessissimo si deve parlare di innovazione di processo. Dunque un reale rapporto con la ricerca. E’ un andamento che – correlandosi seriamente alla crescita del lavoro e dell’occupazione – produce ciò di cui esso stesso ha bisogno, la stabilità. Che nella società richiede che funzioni bene anche l’altro stabilizzatore, che è la scuola. Queste condizioni di fondo ci hanno messo in campagna elettorale in condizioni di serenità.
E quale è la nota dominante del quadro occupazionale?
Le condizioni di cinque anni fa erano più difficili. Stiamo recuperando anno per anno quote di occupazione sia maschile che femminile (due punti di media generale tra il 2016 e il 2017). In ogni caso il dato sulla disoccupazione è meglio della media regionale e quasi la metà della media nazionale.
Per poter parlare di “innovazione” lo sguardo al futuro deve essere una pratica non occasionale. Chi fa la regia in questo campo a Brescia, in tempi in cui non dappertutto la realtà non assomiglia sempre ai titoli dei convegni?
Il dialogo è stretto. Per un sistema di impresa non volatile, il rapporto con il territorio infrastrutturato è essenziale e strategico. Amministrare il territorio e non cogliere le capacità di crescita del settore di impresa sarebbe un controsenso. Il Comune è oggi percepito come la rappresentanza della comunità, diventando non so se un luogo di regia, ma certo un riferimento essenziale perché non parziale per orientare le scelte.
E veniamo a parlare di “società”, tema altrettanto corposo per mettere a registro un’operazione di continuità come quella di cui stiamo discutendo. Comincerei da questa piazza sotto le nostre finestre e dal suo forte e doloroso significato simbolico. L’ antifascismo bresciano è ancora socialmente identitario?
Lo è non perché esso esprima paure connesse a storie di violenza, ma per un dato generale che riguarda l’acquisizione profonda del valore della democrazia. Brescia città antifascista è ancora un’espressione di senso.
Balza agli occhi il dato migratorio, il 18,5% che, uscendo dalla stazione – qui, come a Bergamo, come a Milano – si rappresenta subito plasticamente. Come avete trattato il tema in questa ultima campagna elettorale?
Il punto è che il tema migratorio non si governa con il lassismo, ma con la severità e il rigore. I cittadini capiscono molto bene se si chiacchiera o si governa la questione. I rischi e le insicurezze nascono nella rinuncia a gestire e governare le insorgenze. Oggi le comunità immigrate in questa città sono più di cento. Un grande ambito di scelta di vita e di lavoro qui, non un fenomeno transitorio, di passaggio, di rischio. Un processo globale e inevitabile che i cittadini capiscono solo a condizioni di riportarlo negli equilibri sostenibili. Tra i quali c’è anche l’elemento di sprovincializzazione e di novità di cui alcune componenti immigrate sono portatrici. Abbiamo pagato in Italia l’errore di aprire in eccesso la valvola dell’asilo politico che ha poi finito per clandestinizzare una parte consistente di immigrazione.
I nostri giovani, direi in tutta Italia, sono legatissimi alle città di origine. Sarà la risposta ad una globalizzazione radicale dei consumi, ma lo sguardo al proprio “fazzoletto” di memoria rende oggi i ragazzi molto glocal. In mezza Italia però i migliori se ne vanno per disegnarsi un futuro decente. Che rapporto hanno i vostri ragazzi con un progetto di futuro locale?
Il sentimento dei giovani rispetto alla città non è vincolato. Possono restare, ma se vogliono fare diverse esperienze possono anche andare. L’impegno della città è di consentire le condizioni di futuro. Chi pensa di fare un percorso diverso o più articolato sa che è un atto di libertà non di costrizione. Mi risulta anche che chi va e fa diverse esperienze, spesso torna, comunque mantiene relazioni. Anche di questo tema si è nutrito chiamiamolo così “il patriottismo municipale” che credo abbia ispirato la mia coalizione. E che piace persino ai nuovi cittadini. Quanto ai giovani basta girare nelle piazze nei fine settimana o in occasione dei grandi aventi per capire il clima.
L’offerta universitaria di Brescia è adeguata a questo “progetto di futuro”?
Due sedi universitarie e due accademie equiparate costituiscono un buon presidio, che tuttavia fino a poco tempo fa non era riuscito a incidere sui caratteri di Brescia, cioè sull’idea che la città fosse anche una città universitaria. Università che appariva soggetto estraneo, diciamo una sovrastruttura. Oggi ci sono ventimila studenti universitari. Si sono fatti passi avanti, ma vanno ancora molto consolidati. Proprio il tratto percettivo è ancora fragile.
Che cosa si può intendere oggi per lo “specifico cattolico” di Brescia, la città di Paolo VI?
Mi viene da dirla così: la cultura della promozione umana.
Vorrei toccare un tema che non trova univoci convincimenti. Quello del rapporto tra il civismo politico e i partiti. Partiti che hanno la loro legittimità costituzionale ma che nel territorio, in tutta Italia, tendono a tralasciare segni e simboli e a confondersi in un civismo che così diventa mezzo vero e mezzo contraffatto. Cosa conta a Brescia il civismo vero?
Il mio punto di vista è che il civismo non è solo un pezzo aggiuntivo della rappresentanza, ovvero una forma per instradare la cattiva reputazione dei partiti (sotto una certa soglia dimensionale ormai nel territorio è quella la “forma”). La mia idea è che la coalizione nel suo complesso – quindi anche comprendendo partiti – deve essere civica. Questa è la differenza con i tempi delle coalizioni uliviste in cui tutti rivendicavano le “parti” intese come spazi di potere, creando condizioni spesso conflittuali. Per arrivare a questa formula è stata necessaria una certa generosità dei partiti, soprattutto del Partito Democratico. Ci siamo, abbiamo il nostro definito carattere, ma accettiamo la condizione municipalistica della coalizione a cui diamo il nostro contributo. Il sindaco in questa formula deve essere un perno credibile in questo ruolo, voglio dire libero di rappresentare questo ruolo.
Da questo punto di vista, anche politicamente, il triangolo Milano-Brescia-Bergamo si presenta con un ruolo potenziale che appare ancora più importante. E’ percepito il tema? Sta producendo messaggi?
E’ vero, si colgono le occasioni, si potrebbe fare di più. Ma il messaggio – per usare questa parola – che per noi è più costruito è quello della Lombardia orientale (cioè Brescia, Bergamo, Cremona, Mantova), che è una realtà di oltre tre milioni di abitanti, economicamente articolata, che – per progetto e dimensioni – ha le caratteristiche per contare anche dialetticamente con Milano.
Il rilancio delle attività culturali – non solo espositive, ma anche legate ad aspetti strutturali – è parte della tenuta complessiva della città?
Per cultura dobbiamo intendere una complessità di fenomeni che attraversa la stratificazione sociale ed economica della città. Appunto, non confinando il tema agli eventi, che pure hanno la loro importanza. Da questo punto di vista Brescia si appoggia a laboratori anche antichi. Ma è vero che la recente rigenerazione ha dato un carattere diverso alla città.
Parlando di “classe dirigente” si entra trasversalmente in molti campi, ma quando si dice che un territorio ha “classe dirigente” si fa di solito sintesi. Si sente dire che Brescia sia arrivata ad un nodo, attorno alla necessità di un nuovo salto di qualità. Cosa si intende?
La metafora è questa: ci sono tanti mediani e generalmente si può contare su una buona difesa. Ciò garantisce di non averi rischi di classifica. Dentro la metafora fammi ricordare che un grande giocatore come Pirlo (un bresciano che appartiene all’etnia sinti) è molto rappresentativo di questa forza di governo della competitività. Tuttavia l’esigenza di qualche punta si avverte ed è un tema che appartiene all’ulteriore sforzo di tenere aperta la città e la società che dobbiamo fare.
Infine (poi torneremo in conclusione propriamente alla politica parlando di rapporti di Brescia anche con il paese) qualche argomento dedicato alla geopolitica della città. Cominciamo dalla qualità dei rapporti con la Lombardia e con Milano.
Il nostro sguardo tira a est, tira alla filiera che certamente parte da Milano ma va al triveneto e all’Europa centro-orientale. Tuttavia il tema di Milano ha una sua ambiguità, perché da un lato abbiamo coscienza di essere la seconda città della Lombardia con il rispetto dovuto a ciò che Milano rappresenta, ma anche con lo spirito che esprime, se e quando possibile, una certa competizione. Chiaro è al tempo stesso il tema che Milano (ormai a poco più di mezzora da qui) che cresce in attrattività anche internazionale fa crescere tutta la Lombardia e questo laboratorio deve riguardarci con priorità.
Cosa conta davvero Brescia in Italia? In che spazi può crescere il suo ruolo?
Il mercato nazionale è evidentemente interessante per una economia manifatturiera come la nostra. In più pensiamo che per l’Italia – e voglio dire anche per l’Europa – Brescia costituisca un buon modello di riferimento (la media dimensione che ha resistito alla crisi, ha modernizzato salvaguardando tradizioni e ora gestisce cambiamenti tecnologici e sociali) rispetto quindi a tanti parametri che anche in questo colloquio stiamo toccando. Ciò va al di là del mercato e apre il tema della conoscenza e della relazione.
Con quali città – in Italia e nel mondo – Brescia ritiene di dovere e potere competere?
Quando Piero Bassetti dice che la competizione è ormai tra sistemi urbani dice una cosa vera che riguarda sempre di più anche la media dimensione. Nel quadro europeo sono in campo tante città. Il nostro progetto di intercettare un dialogo funzionale a capire, a far strategia e a rafforzarci deve entrare ora a regime.
Nel dibattito politico nazionale
Ed eccoci ai quesiti finali. Innanzi tutto un giudizio lapidario ma meditato sul nuovo governo italiano?
La mia impressione è che l’alleanza di governo non abbia vita lunga. C’è già una crisi di egemonia. Che poi a staccare la spina sia chi vuole rapidamente bancare la crescita elettorale o chi vuole contenere emorragie, è una variabile che si vedrà. Il risultato di governo è che domina il clamore. Non è un buon segno.
Cosa pensa il sindaco “federatore” di Brescia del PD nazionale percepito come un ambito di conflitti e di non composizioni?
La cosa che ci deve essere chiara è che, se l’attuale governo avrà cedimenti, non è che ciò rilasci automaticamente elettorati a nostro vantaggio. Pensiamo qui al nord, ai presidi sociali e delle zone industriali che sono mancati. Prima vanno ricostituiti poi si parla di elettorati contendibili.
Per rigenerare un partito che si assuma il progetto di un’alternativa al quadro attuale serve leadership, modello di partito o generazione di nuove idee?
Servono le tre cose, ma non punterei a sviluppare chiarimenti solo dopo avere ridefinito la leadership. Prima si profila il progetto giusto poi in quell’ambito il gruppo di traino di delinea naturalmente.
A fronte delle prossime elezioni europee Brescia avrà elementi per concorrere immaginando un suo ruolo in Europa?
Quello che noi vediamo in Europa è che il maggiore cambiamento avviene nelle città e proprio a ragione di quello spazio centrale dei tessuti urbani di media dimensione una città come la nostra deve prepararsi – anche attraverso le prossime elezioni – a qualificare il suo messaggio e a capire meglio quali obiettivi siano perseguibili. Uno, evidente, è che per avere l’Europa più unita bisogna ripartire dalle città e non dalle nazioni. Sono le aree di profondità che esprimono oggi più paura dell’Europa e questo è un argomento su cui siamo più attrezzati dei governi centrali a sostenere discussione e confronto.
A proposito della “paura”, è una nuova retorica avere rimesso questa parola in discussione politica o ciò corrisponde ad un effettivo blocco percettivo dell’opinione pubblica?
Il tema c’è, ma non va tenuto in sospensione, come fosse un accadimento sovrastante ineludibile. Ci sono infinite paure che dipendono dai contesti. Il vicino, il diverso, il declino, il futuro. E quando c’è analisi dei contesti ci deve anche essere una argomentazione su come sconfiggere quella paura. Si deve lavorare sulle nuove convivenze. Non modellando rassicurazioni formalistiche. Sicuramente non c’è sconfitta della paura limitandosi ad inseguirla.
Infine, anche sull’onda della nostra conversazione, il sindaco di Brescia, già in Parlamento per tre legislature, immagina ragionevole il suo destino come leader alle prossime regionali magari per riportare dopo venticinque anni, con fisiologia democratica, il centrosinistra alla guida della Lombardia?
(Purtroppo questa domanda l’ho pensata mentre il Frecciarossa in 36 minuti mi riportava a Milano ed Emilio Del Bono non ha avuto così la possibilità né di sentirla né di rispondermi. Ne parleremo un’altra volta).