Presentazione del libro
“Emilio Lussu – Émile Chanoux. La fondazione di un ordinamento federale per le democrazie regionali”
di Gianmario Demuro e Roberto Louvin, Le Château Edizioni (settembre 2017)
Introduce Gianna Radiconcini (presidente onoraria di Partitodiazione)
Roberto Louvin (professore di Diritto pubblico comparato all’Università della Calabria, già presidente della Regione Valle d’Aosta), Gianmario Demuro (professore di Diritto costituzionale all’Università di Cagliari, già assessore AA.GG, Personale e Riforma della Regione Sardegna)
discutono con Stefano Rolando (professore di Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM di Milano), Cesare Pinelli (professore di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza “di Roma), Luigi Covatta (direttore di Mondoperaio)
La ripresa integrale audio-video di RadioRadicale della presentazione del libro apre ad un pubblico in rete un dibattito di qualità su storia e attualità delle democrazie regionali italiane ed europee, un tema non marginale nel quadro dei conflitti e delle potenzialità della campagna per le prossime elezioni europee.
Iniziativa del “Cantiere delle ragioni”, presso il Partitodiazione a Roma, in svolgimento il 20 settembre 2018 dalle 17.00 alle 19.00.
La videoregistrazione integrale al link:
L’intervento di presentazione di Stefano Rolando
I due autori sono giuristi, giuspubblicisti, professori universitari con qualificate esperienze politiche e istituzionali – Robert Louvin già presidente della Regione Valle d’Aosta e Gianmario Demuro, già assessore della Regione Sardegna.
Il testo è un bel libro e una bella scrittura. La definirei: ricostruttiva, affettiva, con la cultura civile degli insegnamenti fondanti. Bello anche lo schema: metà saggio introduttivo, poi testi delle due personalità qui indagate. Giuristi – voglio dirlo – che accantonano ogni tecnicismo (restando padroni sempre del senso del discipline che trattano) preferendo una divulgazione storiografica retta da etica e da chiarezza.
Lo sforzo principale degli autori non è difficile ma neppure scontato. E’ quello di fondere, di integrare, di complementarizzare due figure chiaramente distinte e per alcuni versi diverse, cioè con personalità, esperienze, provenienze e soprattutto culture politiche diverse. Ma con nessi che sono messi in evidenza fin dalla prima pagina del testo: “Lussu e Chanoux hanno entrambi cercato di fondare un ordinamento autenticamente federale come base e al tempo stesso cornice per le democrazie e le autonomie delle loro terre d’origine”. Le stesse terre degli autori: la Valle d’Aosta e la Sardegna.
Dunque, uno – Emilio Lussu – è un grande intellettuale, uno scrittore versatile (Marcia su Roma e dintorni lo lessi a 16 anni, Un anno sull’altipiano stava sul comodino di mio padre; Essere a sinistra non lo conoscevo, l’ho scoperto nella bibliografia interessante del libro, edito da Mazzotta (pericolosamente negli anni ’70), magari potrebbe essere il nostro nuovo breviario). Ministro, parlamentare, costituente di primo piano, azionista con formazione socialista. L’altro – Emile Chanoux – è il capo della Resistenza della Valle, legato al pensiero di Mounier, espressione di culture della tradizione ma anche teso alla previsione e dunque al cambiamento come portato degli eventi di cui è protagonista. Entrambi non sono professori universitari, in un momento storico in cui questa professione non gode di grande reputazione per l’adattamento largamente invalso tra i docenti al fascismo.
Tutti e due sono uniti (lo sono già tra di loro – non senza qualche venatura dialettica – e lo sono di più in una razionalizzazione storica degli autori) dalla sensibilità di “essere a sinistra” senza massimalismo, perché entrambi comprendono bene quale sia il terreno del patto possibile tra la massima aspirazione federalista e l’essere altresì parte di un progetto di rinnovamento nazionale. Questa mi sembra la chiave più bella e più moderna del saggio. L’aspirazione federalista dei due protagonisti ma anche quella dei due autori potrebbe portare oggi al trasferimento dichiarato di questo patto non tanto entro i confini degli Stati nazionali ma dentro la relazione tra territori ed Europa. Proprio quell’Europa oggi nei guai, forse anche per avere ceduto troppo al montante sovranismo e quindi alla ripresa di un ruolo degli Stati dappertutto con visione passatista.
Vorrei dire una parola anche come presidente della Fondazione Nitti. Diciamo che devo delle scuse, in tale veste, agli autori, magari con qualche attenuante. L’argomento tra me e Robert è stato già leggiadramente sciolto parlandone proprio in casa Nitti a Roma. Gli autori debbono nutrire la battaglia dei tre giorni di discussione alla Costituente (cuore del plot narrativo del libro) e inevitabilmente debbono essere accennati i “nemici”. Tra i quali Francesco Saverio Nitti non ha scampo per la fermezza meditata (e quindi a verbale) con cui intervenne in quell’Assemblea contro lo Statuto di autonomia della Valle d’Aosta nel quadro di fosche previsioni sul regionalismo italiano. Sui adombra nel libro al ritardo della cultura liberale post-risorgimentale, mentre qui – questa è l’attenuante – Nitti, politicamente radicale, era professore ordinario di Scienze delle Finanze e nello sforzo di tenere insieme, da ministro del Tesoro e poi da Presidente del Consiglio, il bilancio nazionale di avvio del ‘900 temeva come il veleno il rischio della riproduzione senza razionalità dei centri di costo. E voi capite dove andrà a parere storicamente questo timore. So bene che gli autonomisti valdostani e trento-atesini hanno molti e solidi argomenti al riguardo. Ma tutti sanno che la vicenda siciliana apre vorticosi interrogativi. Tanto che gli autori si pongo ad un certo punto seriamente la domanda di come rilanciare il dibattito anche sugli stati speciali rendendosi conto della disaffezione dell’opinione pubblica al riguardo.
A pagina 8 del testo il nome di Nitti è associato a quello di Rosselli per la fuga da Lipari. Qui mi consenta una piccola chiosetta da vecchio correttore di bozze. Il Nitti in questione non era Francesco Saverio ma Francesco Fausto, suo cugino. Vero è che un figlio di Nitti, Federico, medico e ricercatore dell’Istituto Pasteur, ebbe nelle braccia il corpo ormai morente di Rosselli nel disperato tentativo di tenerlo in vita e vero che nel crocevia parigino di Nitti gli azionisti (tra cui il suo consuocero Alberto Cianca) erano di casa.
Luigi Covatta – che ebbe il suo percorso nel Partito Socialista in un’area in cui le figure di Lombardi e Lussu avevano due belle leadership isolane e al tempo stesso nazionali – e Cesare Pinelli, che è tra i maggiori nostri studiosi di diritto pubblico riferito al sistema regionale (oltra a presiedere a Roma la Fondazione Modigliani) potranno meglio di me argomentare sui nodi di attualità che questo libro sottende. La domanda è chiara: che ispirazione ci dà questa lettura a fronte di una mission impossible, quella di capire da che parte cominciare per riprendere un dibattito che pare morto: quale qualità, quale futuro, quale servizio alla democrazia patendo dalle attuali condizioni del regionalismo italiano. Tradito e mortificato soprattutto nel corso di una seconda Repubblica centralista e senza riforme op con riforme pasticciate.
Sono onorato di avere messo nel calendario del nostro gruppo di lavoro e di ricerca attorno al progetto politico post-azionista, la presentazione di questo libro che riporta aria a tre cose essenziali, per questo nostro progetto in particolare:
- i nessi tra il maggiore cambiamento della storia italiana contemporanea (1945-1948) con la palude del presente;
- lo sguardo ai dissensi e ai disagi dei territori autonomisti e indipendentisti dell’Europa oggi, da trattare con sensato discernimento affinché questa materia posso essere una riqualificazione e non la tomba dell’Europa;
- il recupero dell’ispirazione democratica e federalista di Carlo Cattaneo (a cui gli autori fanno cenno) dopo l’incapacità della sinistra di tenerne viva la lezione e dopo la dissipazione volgare fatta dalla Lega che, dopo Miglio, non ha più avuto un gruppo dirigente alfabetizzato così da mettere in sostanza in soffitta le quattro cose che venti anni fa dicevamo essere “interessanti ma dette male”.