Si è aperta ieri – nello spazio ex Ansaldo a Milano – la Mostra “68 – Un Grande Numero” (un pensiero di Dino Buzzati sottolinea questo titolo) dietro a cui c’è un meritorio coordinamento sui contenuti dell’ISEC (diretto da Giorgio Bigatti) e un lavoro di progettazione visuale e di allestimento su cui una dozzina di studenti del “Laboratorio di Design” della IUAV (Venezia), coordinati dalla docente Paola Fortuna, danno un contributo che modernizza la visuale, riduce i rischi “nostalgici” o reducisti, facendone una mostra che mette in campo molto materiale originale e che rivela tutte le libertà, le discontinuità, le creatività e i limiti di un fenomeno politico, sociale, culturale, linguistico ed espressivo che ha segnato una generazione.
Giusto fare questa mostra a Milano (le fotografie di Uliano Lucas ricostruiscono lividamente e realisticamente questo contesto) anche se appare una Milano che non sa più bene cosa farsene di questa eredità, riducendo all’essenziale un committment che il ’68 pare non avere più. Tuttavia la mostra c’è, a guardarla con calma c’è un inventario realistico delle novità, delle trasgressioni e delle ingenuità di un lampo della storia, a Milano anticipato dal 1966 che aveva mosso i giovani attorno al “caso Zanzara” e dal 1967 che in Italia e nel mondo aveva fatto scendere in piazza milioni di giovani contro la guerra del Vietnam.
Rispondendo alle domande di Stefano Sepe nel libro-intervista “Il dilemma del re dell’Epiro” (Editoriale scientifica, 2018) c’era anche la domanda sul ’68. E avevo dato pochi mesi fa questa risposta:
Siamo nel cinquantenario di quel ’68, sono cominciate già rievocazioni di segno diverso. Rispetto al punto che in filigrana stiamo trattando – i caratteri di una generazione e la formazione dei gruppi dirigenti – quale è oggi la tua valutazione?
Tutti i sussulti dal basso, diciamo portatori di uno schema di liberazione, vanno considerati come “spinte” alla trasformazione, naturalmente valutando, in un certo senso “pesando”, anche i prezzi pagati per il sussulto. In questo caso la trasformazione principale ha riguardato il costume sociale e non tanto la riorganizzazione degli strumenti della democrazia. E soprattutto dello Stato. Convivono, credo, due sedimentazioni del ’68. Da un lato la rigenerazione valoriale di una generazione, attorno a temi globali e a questioni connesse a diritti. Dall’altro lato vicende di sbandamento e spaesamento che hanno influenzato il processo formativo e civile di una parte di quella generazione. Il conflitto tra queste due dinamiche, alla fine, penso che abbia più smorzato che sostenuto il riformismo possibile nel nostro Paese. Detto questo non mi ritrovo nella saggistica dei “laudatores” ma nemmeno nel disprezzo di Pasolini. La stessa Rossana Rossanda ora parla di “una forza destituente ma non costituente”.
