Nella foto: Carlo Ludovico Ragghianti
Nota di Stefano Rolando
Nella ricostruzione del pensiero e dei comportamenti degli azionisti ricorre spesso la parola “intransigenza”. Un recente riferimento è nel testo di Micaela Esposto che tratta direttamente la questione. Così inizia:
“Associare al concetto di intransigenza la vicenda del Partito d’Azione, dalle sue origini nell’estate del 1942 allo scioglimento del 1947, non è certo una novità: la tradizione storiografica ha riconosciuto questa attitudine tanto nell’opposizione al fascismo, quanto nella scelta repubblicana e nelle vicende del dopoguerra. L’obiettivo di questo contributo è mostrare l’esistenza tra gli azionisti di un’intransigenza morale di fondo che, unita a una concezione etica della politica, sottende a tutte le manifestazioni particolari del loro agire, per infine coglierne gli aspetti che possono essere un lascito per il presente. D’altra parte, sono gli azionisti stessi a rivendicare spesso questo tipo di approccio: nel 1943, ad esempio, Carlo Ludovico Ragghianti pubblica sulle pagine del periodico toscano del Pd’A La libertà un articolo dal titolo Intransigenza, in cui definisce tale caratteristica come opposizione «all’opportunismo e al politicantismo di qualsiasi colore, riconoscendo in questi una delle cause della malattia morale e politica che ha portato alla decadenza civile dell’Italia»[1].
In effetti l’etimologia della parola (che esprime opposizione allo spagnolesco “transigir”, ovvero transigere, fare compromessi) spinge l’evocatività verso confini ambigui. È riportata, per esempio nel lemmario della Treccani, la seguente interpretazione: “Che non transige, che si mantiene cioè irremovibile nelle proprie idee senza ammettere che altri possa pensare o agire diversamente, o che non tollera trasgressioni, deviazioni da un programma fissato, da una linea di condotta stabilita, da una regola imposta, sia come carattere e comportamento abituale”
Che poi – riferita allo specifico campo politico – trova una lettura un po’ più restrittiva: “Nella vita politica, di corrente estremista di un partito, che non ammette compromessi per quanto riguarda la difesa e l’attuazione del programma del partito”.
È proprio in relazione ai caratteri evocativi di questa espressione nei riferimenti spesso abituali agli azionisti che bisognerebbe discutere. Perché questo grande pregio – che lega la vicenda dell’azionismo italiano, le sue battaglie nella lotta antifascista e nella costruzione delle regole costituzionali, a comportamenti e opzioni fermissime sui punti fondanti (i famosi “sette punti” del 1942) – assume a volte una venatura che corre i rischi di lambire una talvolta arrogante “ideologia della diversità” e una assenza quasi fanatica di realismo che non corrispondono alla levatura della gran parte delle figure che hanno fatto la storia del Partito d’Azione. Non solo, ma che oggi vengono usate per una autocelebrazione di taluni che si ispirano a quella storia più per mantenere il compiacimento della propria separatezza che la qualità di un comportamento politico che non risulta più la pratica fondante del loro agire.
L’intransigenza morale e l’irriducibilità nella lotta attorno ad alcuni principi fondamentali del profondo rinnovamento dell’Italia e dell’Europa costituiscono una dottrina metodologica per capire la storia e per dare interpretazione profonda a vicende spesso costrette all’emergenza e al racconto a posteriori.
Dunque sono lezioni magistrali anche per il presente. Ma non devono far credere che quella speciale generazione di italiani non conoscesse le regole della politica e soprattutto il senso delle alleanze in cui bisogna trovare i comuni denominatori per fare fronte a rischi e problemi più gravi che celebrare la propria purezza.
Questo aspetto non va letto come l’anticamera dei cedimenti, ma come un punto di metodo che sa distinguere le stagioni e gli eventi, soprattutto cogliendo in certe circostanze – come quelle che stiamo attraversando appunto in Italia e in Europa – l’assoluta necessità di costruire legami o almeno alleanze in una vasto quadro di soggetti “progressisti” in cui la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista in Italia deve rimontare una lunga e progressiva emarginazione che ha attraversato tutta la seconda Repubblica e ora vede la prioritaria necessità di avere un diritto di parola e di iniziativa in una condizione di dialogo e di mediazione sulle cose che contano per fermare una deriva evidente.
Non è escluso che arrivi il momento di alzare le bandiere, che sia necessario su alcune cose guardare in faccia quell’ “opportunismo e politicantismo”, come diceva Ragghianti, anche nei propri stessi ambiti. Ma sempre ricordando che la politica serve a realizzare il bene della collettività non a darci un personale salvacondotto per il paradiso.