Con grandissimo rammarico vedo il risultato delle presidenziali brasiliane in cui si afferma il capitano Jair Bolsonaro, nostalgico della dittatura militare, razzista e xenofobo, con il 54% dei voti espressi. Un ritorno ideale al ventennio della dittatura militare (1964-1984), contro la quale (diritti umani in testa) scrissi nel 1970 il mio primo libro a 22 anni (“Brasile, società e potere“, La nuova Italia).
Una compressione populista (da destra e da sinistra) che ha spazzato via del tutto la stagione razionale e riformista di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002), già piuttosto compromessa negli anni di Lula (malgrado alcuni sprazzi), quella in cui il Brasile ha teorizzato e realizzato il suo posto al mondo nella libertà e nello sviluppo.
Ho frequentato per tutta la vita questo grande paese, la sua classe dirigente, i suoi intellettuali, la sua università, le sue passioni, i suoi (alcuni magnifici altri meno) luoghi comuni. Finirà quest’onda internazionale spiegabile e deprecabile. Ma questo tassello nel mosaico della deriva è grave e sarà grave per un certo tempo anche per le relazioni con l’Italia (e nel timore che la vasta comunità italo-brasiliana – so per certo con alcune aree di netta contrarietà – abbia parteggiato per questa svolta).