
Dinastie, donne, denaro
Stefano Rolando
Il secondo romanzo scritto da Ludina Barzini [1] ha tre scansioni evidenti, segnalate con i nomi di tre donne: Rosa, Isabella e Livia.Naturalmente sono anche tre scansioni storiche e generazionali. Che dividono il ‘900 nelle conseguenze immediate della prima guerra mondiale, nel fascismo e nella complessità post-bellica fino alle soglie del nuovo secolo.
Leggendo si percepiscono anche nette distinzioni di scrittura e di postura psicologica dell’autrice.
Il primo tempo è lento, descrittivo e psicologicamente pacificato. Il secondo è accelerato, conflittuale e psicologicamente combattuto. Il terzo è dichiarativo, aggressivo e per alcuni versi sconsolato, forse persino disperato, psicologicamente in cerca di una via di fuga.
Il carattere autobiografico lo coglie anche chi non sa nulla della vita dell’autrice. Perché non bastano i traslati sui nomi e i luoghi a distogliere l’attenzione dal perseguimento di una costante narrativa: segnalare e separare i buoni dai cattivi, gli utili dagli inutili, i generosi dagli egoisti, i responsabili dagli irresponsabili.
Chi poi – in amicizia – sa qualcosa di quella vita personale si ritrova anche nomi ricomposti, iniziali ineludibili, nomi presi a prestito dalla realtà, luoghi spostati di millimetri e un dentro e fuori rispetto alla città attorno a cui ruota tutto, Milano, che rende la milanesità alto-borghese il tratto alla fine dominante.
Le mie note di lettura[2] si sono delineate strada facendo.
Nella prima parte ho intuito che l’autrice avrebbe scelto (credo più consciamente che inconsciamente) la via di vedere un netto protagonismo femminile, nel senso di centrare la vicenda attorno al ruolo prevalente delle donne e di scandire il tempo e le vicende attorno a quello che chiamerei il protagonismo responsabile delle tre principali protagoniste. Gli uomini caratterizzano, formano confini, apportano patrimoni, rivestono ruoli sociali per i tempi certo preminenti. Ma a ben guardare sono umanamente quasi marginali, prima o poi escono dalla carreggiata narrativa, o perché muoiono o perché vengono disarcionati. Le donne litigano, anche crudelmente. Ma restano in carreggiata e alla fine – nella selezione darwiniana – dominano, una per tempo, la scena.
La maternità diventa così una condizione di intenerimento di figure sempre alle prese con uno speciale combattimento (poi lo definiremo) ma al tempo stesso (per via di quello “speciale combattimento”) anche una condizione di potere. Quindi al tempo stesso generare figli è una gioia e un’alimentazione della guerra permanente. Più figli arrivano, apparentemente generando più umanità, più la storia è nutrita di protagonisti di varie inumanità.
Lo “speciale combattimento” – come, senza perdere tempo, l’autrice dice fin dal titolo – sono i soldi. Soprattutto i soldi accumulati e quindi, per certezza dei cicli biologici oppure per fatalità di salute e di eventi, da dover ripartire in un combattimento perenne tra regole e volontà, cavilli e affetti, scelte e obblighi, pulsioni e convenienze.
Così nella seconda parte si costruisce, si staglia, si disegna a fondo la vera protagonista delle tre protagoniste. Quella che fa da raccordo, che accentra poteri e simboli, che si propone come un continuo andirivieni di vicende che subiscono le perversioni o semplicemente le aggressività altrui e cercano di mostrare invece e per converso potere, determinazione, persino una certa arroganza. L’autrice conosce bene questa figura. E’ sua madre, la sua reale madre. Non fa niente per evitare questa condizione. La ritrae da subito con quel monocolo che l’ha resa simbolicamente famosa nella storia delle classi agiate milanesi del ‘900. Il suo nome è un trait-d’union tra la finanza che prende il sopravvento dopo il consolidamento dell’età industriale (dunque l’età delle grandi banche) e la reazione generale al potere di casta e a quelle regole di durezza e reputazione che la terza generazione comincia a rifiutare. Chi rifugiandosi nelle professioni intellettuali o artistiche, chi sbandando esistenzialmente, chi alzandosi alla mattina in pigiama di shantung nell’idea di fare, ad una certa ora comoda della giornata, la rivoluzione. Di mezzo c’è lei, nella vita Giannalisa Feltrinelli, qui più delicatamente Isabella, che a sessant’anni aveva consumato quasi tutte le sue ansie e le sue contraddizioni risparmiandosi almeno la decadenza fisica, lasciando questo mondo nel punto più centrale e più simbolico di tutta la sua vita, via Manzoni a Milano.
Nella terza parte l’autrice – che intitola a se stessa questo capitolo, che potrebbe anche chiamarsi “l’eredità dell’eredità” – regola conti. Lo fa duramente, non voglio troppo addentrarmi nei paragoni (salvo segnalare che, per chi conosce qualcosina, la lettura è doppia perché bisogna tenere a mente la storia romanzata e non perdersi tra nomi e cognomi che flottano dentro e fuori una quantità inverosimile di case, ville e città; e tenere a mente i veri nomi e cognomi, i veri luoghi di quelle case e di quelle ville) ma debbo dire che questo aspetto di rendicontazione a chiunque costerebbe qualcosa. E se Ludina è arrivata a volerlo fare avrà le sue meditate ragioni. Credo che non lo abbia deciso a cuor leggero.
Ora qualche osservazione specifica.
In generale questo segmento sociale sotto osservazione – una mescolanza di alta borghesia e piccola aristocrazia – nasce dalla cultura che nel ‘900 va assumendo ruolo centrale nell’orientamento dell’economia industriale, quella del credito, ruotando attorno più alle banche che alle fabbriche. Non si sporca le mani di morchia, non vede da vicino gli operai, mantiene prudente amicizia con i poteri politici di turno, ma soprattutto crede più nel denaro che alla patria e tanto meno alla società, ovvero più alla fonte della propria ricchezza che alle risorse che possono responsabilmente generare investimenti e miglioramenti sociali e occupazionali. Insomma la visione egocentrica dell’uso del denaro fin dall’inizio diventa (non solo in questo romanzo, ma anche in tanti libri di storia su questa storia) la ragione della perdizione, dell’avvio di conflitti interpersonali, in una parola la ragione della parabola della fortuna che diventa dannazione.
Questa traccia si sposta in tutte e tre le stazioni della vicenda. Nella seconda lasciando qualche frammento di contraddizione. Isabella comincia a avere qualche stizza verso il fascismo, apre gli occhi davanti a qualche assurdità del tempo. Ma non riesce mai ad aderire ad un’idea moderna e di progresso in cui la sua classe sociale possa mettere tempo ed energie verso il bene comune (virtù purtroppo molto rara nella borghesia italiana e persino milanese, rispetto ad altri contesti borghesi diciamo dell’Europa protestante). Così che quando arriverà qualcuno – nel terzo tempo della storia – a riequilibrare questa mancata “politicità responsabile” di quelle famiglie, lo farà esagerando, lo farà senza metodo e con tratti impulsivi e infantili, lo farà più per protagonismo personale che secondo una visione culturalmente meditata e socialmente responsabile. E sarà appunto Giangiacomo Feltrinelli a interpretare questa parte – esatto pendant alla fine irresponsabile rispetto all’egocentrismo finanziario ed elitario delle generazioni che lo hanno preceduto. Si, magari con un vago modello di garibaldinismo che aveva infatuato i giovani borghesi e aristocratici di cento anni prima. Ma davvero vago e ormai piuttosto delirante. Tanto da ritorcersi in forma violentemente autolesiva. Anche se in questo libro l’autrice arriva a propendere – come ci sono arrivati ormai anche molti analisti – per la liquidazione del “pericoloso Feltrinelli” da parte dei servizi segreti. In aggiunta, va detto che appare sconcertante – pur non avendo notizie più circostanziate, l’episodio citato nel libro dei diritti d’autore non corrisposti dall’editore alla vedova di Boris Pasternak per la pubblicazione di Dottor Zivago, che fu la fortuna della casa editrice.
Infine una chiosa sulla Madonna di Raffaello.
Questo piccolo prezioso quadro perduto dalla famiglia già prima dell’entrata in
scena di Rosa, quindi ai prodromi del racconto, è il filo conduttore di un tema simbolico, diciamo così salvifico.
Le tre donne protagoniste intuiscono che se quel quadro si ritroverà sarà
restituito un compenso morale o per meglio dire valoriale alla loro vita. Per
cui – come fosse una via parallela a ogni vicenda – lo cercano (ovvero lo fanno
cercare) e in modo più o meno fortuito alla fine della saga il quadro torna a
casa per attutire il potere della maledizione
del denaro nella forma simbolica della benedizione
del valore. Non so se la storia abbia una radice vera e quindi qualche tratto
realmente accaduto e non posso nemmeno dire di considerare questo adattamento
narrativo come la cosa più riuscita del romanzo. Certo è rivelatore di un sentimento dell’autrice. Che vorrebbe mettere un
punto di pacificazione sul senso del percorso e dell’agire umano e capisce che
può solo farlo come lo avrebbero fatto i narratori della tragedia greca:
calando dall’alto un fatto simbolico, dono degli dei per attutire il male e
riportare nella benevolenza lo sguardo degli esseri umani.
[1] Ludina Barzini, L’eredità, Bompiani, 2019. Il romanzo precedente, Solo amore, Bompiani, è del 2016.
[2] Predisposte per la presentazione del libro, con Diamante D’Alessio e Pier Luigi Vercesi, alla Libreria Rizzoli in Galleria a Milano il 27 febbraio 2019.