


Stefano Rolando [1]
Intervento alla “Giornata della comunicazione pubblica” (Regione Lombardia, 28.3.2019)[2]
Stiamo parlando di un ambito evolutivo della comunicazione pubblica che potremmo considerare alto e strategico: come è quello della comunicazione di crisi e di emergenza, come è quello della public diplomacy, come è quello della comunicazione politica (che agisce con evidenti contaminazioni e con legittime intrusioni).
- Alto, vuol dire che serve un profilo formato per le carriere direttive, intersettoriale, relazionato ai centri di conoscenza e agli ambiti decisionali interni. Sappiamo che nel sistema della comunicazione pubblica in Europa i due terzi degli operatori agiscono senza sostanziale contatto con gli ambiti decisionali, in parte – ma solo in parte – per la giornalistizzazione di una parte delle funzioni direttive del settore che è il portato mondiale di politici in crescente prioritario bisogno di visibilità.
- Strategico vuol dire che l’elaborazione avviene prima – quindi in forma istruttoria – del processo decisionale e non dopo come puro confezionamento.
Si tratta di uno dei segmenti relativamente nuovi di un quadro funzionale che tiene conto di vari fattori:
- l’evoluzione della domanda,
- le opportunità delle tecnologie,
- nuovi approdi gestionali (in questo caso di tipo pubblico-privato) che riguardano profili emulativi che nascono dalla necessità competitiva, spesso equilibrata da una necessità di presidio interno della tradizione identitaria.
Dunque non c’è un disciplinare normativo preciso che riguarda questa funzione. Anche se essa rientra nei principi generali della legge 150. Meriterebbe più che un legge nuova, diciamo uno statuto professionale e formativo.
In particolare queste evoluzioni tengono conto di una ampiezza degli scopi della comunicazione pubblica:
- essa resta basilarmente ancorata al servizio puntuale al cittadino e alle imprese;
- ma – a fronte dei campi limitati di iniziativa sia del giornalismo che delle piattaforme dei socialmedia – essa deve anche affrontare seriamente i compiti di accompagnamento sociale (a cui ha fatto riferimento Fulvio Matone nel suo intervento);
- e in particolare compiti di spiegazione (dalle norme ai cambiamenti che si riverberano sugli interessi generali).
Indicatori questi che sottolineano un grandissimo bisogno, a partire da quel terribile dato del 47% di analfabetismo funzionale nel nostro paese che dipende largamente da mancanza di accompagnamento e di spiegazione (dato che mi ha fatto propendere per il titolo ”Il dilemma del re dell’Epiro” al recente libro intervista sul tema “vinta o persa la guerra della comunicazione pubblica in Italia?” [3]).
Il titolo del nostro panel è “valorizzazione dell’immagine istituzionale”.
Dedico a questa espressione la breve seguente riflessione. Mi piacerebbe molto che essa venisse pensata, discussa, programmata, messa in valutazione nei nostri luoghi di lavoro istituzionali. Posso dire di avere svolto per trenta anni periodici rapporti sullo stato di attuazione di questa importante funzione a livello europeo, a livello nazionale, a livello regionale e locale. So che essa non è uniforme questo mandato.
“Immagine istituzionale” vuol dire che l’istituzione viene prima della parte politica che governa, viene prima del vantaggio elettorale, viene prima del rapporto censorio che insidia a volte la funzione degli uffici stampa non per deformare ma spesso per omettere, per tralasciare.
E tuttavia quell’immagine non è per nulla effimera, non è per nulla fragile, non è per nulla secondaria. E’ una colonna vertebrale di quello che chiamiamo patrimonio simbolico collettivo, restituisce dividendi a tutti, politica e società, è intrisa di cultura competitiva. Posso anche aggiungere che nella mia vita professionale ho conosciuto momenti e vicende in cui l’ho vista seriamente perseguita. E ho conosciuto momenti e vicende in cui non l’ho vista per nulla perseguita.
Veniamo ora specificatamente alla potenzialità di questo segmento della comunicazione pubblica che chiamiamo Public Branding. Questo panel mi pare disegnato per ragionare su un doppio terreno di evoluzione della comunicazione pubblica come disciplina e come professione:
- da un lato l’ambito delle nuove opportunità;
- dall’altro lato l’ambito dei nuovi rischi.
Provo a spiegarmi cercando di fare un brevissimo disegno del perimetro di questo “nuovo” (tra virgolette) spazio.
Brand pubblico è una ampia cornice, che contiene dinamica storica, evoluzione materiale e immateriale del patrimonio simbolico collettivo, mutamento e ibridazione dei processi identitari, sviluppo dei sentimenti di appartenenza (oggi sia chiaro questa parola significa un misto di paura e coraggio, di speranza e rancori).
Il tutto legato alla forza delle loro narrative. Quelle pubbliche e quelle private. Quelle delle istituzioni e quelle della società. Quelle figlie della libertà e quelle figlie della propaganda[4]. Come si sa quelle narrative agiscono verso l’interno migliorando oppure peggiorando la coesione. E agiscono verso l’esterno migliorando oppure peggiorando l’immagine.
Per chi deve far fronte a pesanti stereotipi, i rischi sono maggiori, ma la possibilità di lavorare per ridurre quegli stereotipi – in presenza di una politica effettiva di cambiamenti e riforme – ripaga con importanti effetti.
Tra gli effetti la questione della attrattività ha una sua
centralità, che va considerata senza ideologismi, cioè usando soprattutto il
parametro della sostenibilità. Essa non deve contare solo turisti, ma
preliminarmente deve riguardare un indice di fiducia e di affidabilità che ha
molto a che fare con investimenti, scambi, relazioni su conoscenza e cultura,
eccetera. Con queste brevi definizioni ho già, in fondo, detto dove stanno le opportunità e dove stanno i
rischi.
Mi limiterei ad aggiungere che più il potere politico-istituzionale comprende di non essere il padrone del brand ma solo il regista di un equilibrio tra le narrative in campo e soprattutto più comprende che la propaganda serve poco a modificare percezioni che – logica da Tripadvisor – è quasi sempre sgamata in un sistema a rete che, in assenza di conferme, consolida vecchie icone negative; ebbene più esso fa queste cose più riesce a utilizzare il potenziale comunicativo sociale (e quindi anche di impresa, della conoscenza, dell’arte e della cultura, del mercato) che è un potente testimone di immagine e un veicolo che accelera appunto il mutamento delle percezioni del passato. E’ chiaro che il Public Branding comprende lo scopo di determinare anche atti d’acquisto, il che rende legittima – a valle di una certa coerente politica adottata – una componente comunicativa suggestiva, che non vuol dire – come ha ben detto prima Giovanna Maggioni – che essa sia falsa o manipolatoria.
Quali sono le conseguenze di questo schematico ragionamento sugli
aspetti disciplinari, formativi e organizzativi della professione comunicativa
nel settore pubblico?
- La prima conseguenza è la necessità – anche in forme semplici, elementari – di agire in forme pluri e interdisciplinari, dove storia, economia, sociologia, tecnologia, filosofia, antropologia, urbanistica, eccetera, sono tasselli qui con molte sovrapposizioni.
- La seconda conseguenza è la necessità di creare condizioni per avere una strategia e una politica in questo campo, prima di assumere iniziative operative. Iniziative che tanto sono più efficaci quanto più vengono dopo: dal marketing territoriale alle dinamiche di visual identity, dalle culture pubblicitarie al disegno digitale.
- La terza conseguenza è di riflettere sempre bene su cosa significa che i potenziali destinatari dell’iniziativa comunicativa legata al public branding in larghissima maggioranza non conoscono il nostro territorio, la nostra città, la nostra lingua, il nostro patrimonio – anche quelli che stanno teoricamente molto vicino – ma semplicemente “lo immaginano” e non lo immaginano con arzigogolati discorsi ma in una rapida sequenza di icone, che mescolano fatti storici e fatti attuali, cose evidenti e cose arbitrarie.
In conclusione vorrei dire che questo settore, come altri sviluppi specialistici della CP, deve essere tenuto in considerazione nel dibattito sulle prospettive della disciplina e dei suoi profili formativi.
Perché prima di imboccare le strade di una eventuale nuova
legiferazione nel settore, associazioni, istituzioni e politica devono fare uno
sforzo per comprendere bene il nuovo perimetro dei contenuti che si va formando
e soprattutto l’esigenza preliminare di prevedere
forme di valutazione con standard almeno europei. Riducendo così lo spettro
degli adempimenti che resta una dominante inaccettabile e contribuendo
piuttosto a dare certezza al senso e alla portata delle risorse finanziarie
necessarie solo se la funzione dimostra la sua seria e argomentata utilità.
[1] Professore di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica e di Public Branding all’Università IULM di Milano e direttore dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica e il public branding. Già direttore generale del Consiglio regionale della Lombardia e già capo del Dipartimento Informazione ed Editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[2] Promossa da Regione Lombardia in collaborazione con Polis, Anci-Lombardia, Ferpi, Associazione italiana comunicazione pubblica e istituzionale, PA-Social, Ordine Giornalisti della Lombardia.
[3] Stefano Rolando con Stefano Sepe – Il dilemma del re dell’Epiro – Vinta o persa la guerra della comunicazione pubblica in Italia? – Editoriale scientifica, 2018.
[4] Il riferimento più recente e più organico di una analisi corale (cento contributi) sull’evoluzione delle narrative riguardanti proprio le modifiche di brand di un territorio è al volume Brand Milano. Atlante delle nuove narrative identitarie, promosso da Associazione Brand Milano, prefazione di Giuseppe Sala, a cura di Stefano Rolando, Mimesis, 2017.