Incontri mensili al Censis sull’andamento sociale – “Il cimento del continuismo” – Giovedì 27 giugno – ore 10.30 – Censis – Piazza di Novella, 2 – Roma
Introduce
Massimiliano Valerii – Direttore Censis
Intervengono
Giuseppe De Rita – Presidente Censis
Fausto Bertinotti – Alternative per il Socialismo
Antonio Calabrò – Fondazione Pirelli e Assolombarda
Fabio Martini – La Stampa, Torino
Stefano Rolando – Università Iulm, Milano


Intervento di Stefano Rolando
(Università IULM Milano, presidente della Fondazione “Francesco Saverio Nitti” Melfi)
I due paper proposti da Giuseppe De Rita sottendono questa domanda: dal momento che le maggiori scosse di discontinuità che l’Italia ha espresso negli anni repubblicani hanno trovato quasi sempre ricomposizione nell’onda lunga della continuità di adattamenti sociali e politici, si pensa che anche la discontinuità governativa a cui assistiamo attualmente, sostenuta da volontà popolare, sia destinata a questo riflusso?
Prima di provare qualche riscontro, vorrei guardare più da vicino questa parola. Essa – il “continuismo”- contiene una certa provocazione che chi ha sbandierato – dal tempo della controtendenza a quello della nostalgia – il vessillo del “riformismo”, cioè della necessità dei cambiamenti, potrebbe provare. Ma per quanto conosco il pensiero di De Rita – che seguo da non meno di 40 anni – credo che non si tratti (per usare un altro suo titolo) di guelfismo pregiudiziale. De Rita ha sempre sostenuto che, a fronte di una storia di dolori e sofferenze, la metabolizzazione è sempre stata una capacità e in varie occasioni anche una fortuna italiana.
Per estensione la sua idea di continuismo credo si debba incrociare con quella per cui, senza metabolizzazione (che significa spiegazione, accompagnamento sociale, rassicurazione), non c’è alcun riformismo fruttifero, ma solo dichiaratorio e quindi a rischio di retorica. Nel testo che stiamo discutendo, infatti, De Rita chiama questo fenomeno “tempi di evoluzione” concetto che ne sottende altri due: il fattore tempo che trasforma propositi in condizioni e la questione qualitativa del cambiamento, senza la quale non vi è alcun protagonismo sociale, che è la cosa che De Rita apprezza di più della storia.
Letto così il continuismo non ci dovrebbe apparire come una parolaccia, ma come una dialettica che ha pervaso certamente la vita nel tempo in cui l’abbiamo vissuta e conosciuta. E nel corso della quale abbiamo dovuto fare la tara agli annunci di grandi cambiamenti immediati ma abbiamo anche dovuto riconoscere salti di qualità e quindi discontinuità (progettate o subite) da affrontare.
Prendiamo per esempio la seconda parte della prima Repubblica. Più che grandi discontinuità vediamo una continua e costante altalena tra sforzi in avanti e frenate. Un’altalena che, diciamo, è parte naturale di un processo di “metabolizzazione democratica”.
- Gli anni ‘60 generano – con chiara domanda sociale e con intuizione originale rispetto agli assetti internazionali – un’idea di centrosinistra in cui sono i socialisti ad alzare la bandiera delle riforme, i comunisti e i liberisti a doverla ideologicamente combattere, i democristiani a doverla sostanzialmente mitigare (da Sullo a Moro, si intende, con varietà di posizioni) alla fine per trovare uno spazio largo e condiviso di metabolizzazione dei cambiamenti possibili ( spazio che sarà insufficiente a reggere l’urto tra le spinte radicali di fine decennio, rispetto al conservatorismo duro dell’apparato dello Stato mai riformato).
- Negli anni ‘70 la dialettica sarà quella del processo di ristrutturazione dell’economia industriale che ci farà mettere il naso nel mondo a cui si contrapporrà da un lato l’immensa ambiguità del terrorismo e dall’ altro lato l’inerzialità della democrazia bloccata.
- Negli anni ‘80 sarà rilanciato il progetto del riformismo in chiave europea e sarà di nuovo il ritardo funzionale della gestione dell’apparato pubblico (università e ricerca comprese) – tema questo che torna nel secondo testo integrativo di De Rita – a coprire la difficolta politica (a destra come a sinistra) di accompagnare questa scelta come una condivisione nazionale. Pur essendo quella una stagione (dopo il Rapporto Giannini, novembre 1979) a mettere mano seriamente alla riforma della P.A.
- Gli anni ‘90 cominceranno nel segno di una globalizzazione di tipo nuovo e di una involuzione provincialistica della politica italiana su cui seminerà la svolta berlusconiana largamente sostenuta da una società che chiedeva tanto fortemente quanto confusamente meno lacci. Machiavelli potrebbe descrivere quel provincialismo come limite del riformismo con parole attualissime a proposito del primato dell’opus.
- La vera discontinuità arriverà con la seconda Repubblica. Il potenziale trasformativo appare in quel venticinquennio assai poco profilato dalle classi dirigenti ma imposto da influenze internazionali. Così che quel “provincialismo” produrrà un progressivo primato della comunicazione rispetto alla qualità dei piani.
Sarà insomma più importante confezionare e annunciare che dare senso organico alla modernizzazione necessaria. Il marketing (tecnica con effetti apparentemente immediati) vincerà su qualunque forma di accompagnamento sociale. Nel giro di quella periodizzazione (che De Rita riferisce a uno spunto di Nadio Delai) avremo una società spaccata in due, per metà capace di una laboriosità critica, per metà malata di analfabetismo funzionale (il dato che più volte il Censis ha assunto è del 47%). I poteri saranno più sovrastrutturali, i saperi più autoreferenziali, la società quella che ho detto.
E qui sta il nodo che alimenta il costante piede sul freno della storia italiana: il paese che non comprende né i cambiamenti né i processi grosso modo equivale a quello che ha strumenti di interpretazione e giudizio. Quella è la parte frenante che trova di volta in volta una rappresentanza politica per agire nei luoghi e noi modi giusti per ridurre la portata delle trasformazioni. Unita a quella componente dell’apparato pubblico che difende più la sua auto-referenzialità che la sua cultura di servizio (ciò che De Rita ha da tempo chiamato lo “Stato soggetto” in alternativa allo “Stato funzione”). In alcuni momenti della storia l’altra metà è disunita, ha obiettivi confusi e incerti, litiga e lo stesso ruolo di impulso della parte migliore delle istituzioni è ridotto da un insieme di congiunture negative.
Eccoci così nel cono d’ombra della situazione attuale. A proposito del quale De Rita fa nelle conclusioni una affermazione che periodizza un grave declino: “non esiste oggi alcune memoria del passato è alcuna speranza nel futuro”. Mi sentirei un filo più propenso a leggere ancora un po’ di scontro, un po’ di conflitto su questa materia. Ma capisco in modo sofferto questa riflessione. Così il rapporto socio-culturale con la Germania da questo punto di vista (quello della rielaborazione complessiva delle eredità del ‘900) sta diventando umiliante.
Aggiungo qui due brevi considerazioni sul rapporto tra continuismo e metabolizzazione. E poi un breve tentativo di rispondere al quesito.
La prima considerazione riguarda la fonte primaria della decisione in ordine ai cambiamenti che hanno influenza sulla nostra condizione identitaria.
La seconda considerazione è quella sui problemi di qualità del cambiamento (e quindi sulle classi dirigenti).
- Le decisioni in ordine alle discontinuità sono una strana mescolanza tra progetto e destino.De Rita parla di chi pianifica obiettivi evolutivi della “perfezione d’autore” (riferendola largamente all’età delle ideologie). In estensione si dovrebbe parlare di condivisione delle classi dirigenti – nazionalmente e localmente (su cui esistono più fattori di coagulo in Italia). Poi c’è una più complessa trama della storia che accoglie oppure smonta quei piani, quegli obiettivi. Spesso senza alcuna consapevolezza delle stesse classi dirigenti e con pari scarsa leggibilità da parte dei tessuti sociali più esposti al rischio culturale. Per farmi capire prendo Milano nel corso del ‘900 (ho scritto di questo e magari Antonio Calabrò pazienterà se mi ripeto). La periodizzazione venticinquennale dei cosiddetti “cicli lunghi” (De Rita-Delai) per l’Italia significherebbero quattro grandi cambiamenti in un secolo. Per una città laboriosa e incessante come Milano il calcolo dei cambiamenti che hanno inciso sulle identità interne e sul negoziato esterno sono almeno dieci i passaggi. Non mi dilungo. Dal lavoro fatto da vari esperti si è colto che non più di tre sono costituiti dall’attuazione non avversata di piani prodotti dai gruppi dirigenti. Gli altri sette sono prodotti dal “cigno nero”, dall’imprevedibilità (o dalla sottovalutazione) del destino forgiato da fattori più complessi. La forza della continuità, malgrado tutto, di progettazione del futuro da parte delle classi dirigenti riduce i tempi di reazione e talvolta di riscossa rispetto ai guai poco o male previsti.
- Una parola – risuonata ora – va dunque detta sulle classi dirigenti. Che sono un ambito di patto tra poteri e società. Cooptate ma anche protese e competitive. Favorite nella loro responsabilità, in certi tempi; oppure umiliate nella loro responsabilità in certi altri. Chi ha fatto il mio mestiere (per 25 anni direttore generale in sistemi pubblici, prima di decidere di fare il concorso a cattedra già da anzianotto) formato attorno al paradigma “io propongo tu decidi” ha visto nel passaggio al terzo millennio inverarsi – a destra e a sinistra – il paradigma di “no guarda, tu proponi quello che io propongo e poi io decido”. Qui c’è un ambito decisivo di contenimento tra continuismo e cambiamento che dovrebbe reggersi sulla competenza della sostenibilità. Temo che questa competenza si sia assottigliata molto, nel sistema istituzionale togliendo dignità e nel sistema di impresa togliendo coraggio. Pur restando possibili da una parte le figure come quella di Falcone e dall’altra le figure come quella di Marchionne. Vorrei solo dire che qui si doveva agire per non far evaporare nella fase di tramonto delle ideologie anche la populistica eliminazione delle teorie (di gestione, di sviluppo, di crescita, di riorganizzazione delle uguaglianze, eccetera). Credo che il bilancio sia a chiazze e che per questi limiti lo stesso paper di De Rita comprende gli obiettivi sociali del governo ma ne critica fortemente l’attuazione. Ciò che in un anno ha limitato le riserve da cui dipende la vera reputazione di una comunità nazionale.
Ed eccoci così alla domanda del nostro panel: il continuismo acchiapperà prima o poi anche ciò che ora leggiamo come “grande discontinuità”? E più a fondo: siamo condannati per vizio genetico a questo continuismo? De Rita stesso introduce bene l’argomentazione, ma lascia in sospeso la risposta, con uno spunto limitato a un verso del Talmud.
Le ragioni che ho prima descritto come massa critica dell’uso costante del “freno” e quindi come leva permanente di contrasto alle trasformazioni, anche le più necessarie, hanno la loro base nell’immensa dimensione del paese civilmente analfabeta, e hanno concause nelle insufficienze degli apparati pubblici (scuola e università comprese, malgrado molti sforzi) e nei media (come ha ricordato Fabio Martini) che appaiono più complici della spettacolarizzazione della politica che “cani da guardia della democrazia” (con un grande tema che continua a riguardare la Rai). Insomma questo blocco di cause frenanti storicamente a sostegno del continuismo, questa volta appaiono come le cause strutturali di quella che ci appare come una discontinuità. Viene quasi da dire che questa volta il vero continuismo che mette il freno ad un’Italia certamente minoritaria ma consapevolmente riformatrice sia proprio costituito da ciò che appare come “discontinuità”. Al di là delle parole, ma anche per questa ragione credo che si debba propendere per i “tempi lunghi” del processo populista e demagogico che stiamo vivendo, al di là delle formule di governo che lo interpretano. Questo attuale o sue varianti. Perchè in fondo esso viene da lontano, molto da lontano.
Quindi credo che ci si debba attrezzare per un percorso lungo di revisione dell’idea che il continuismo sia per sua natura salvifico, cercando di rigenerare ragioni che ci connettano meglio alle radici più virtuose della nostra storia e al recupero di laboratori idonei ad un ritorno alla progettazione dei cambiamenti necessari.
Grazie alla tesi sul patrimonio di storia e di invenzione (nell’Italiano di Giulio Bollati che De Rita ama ricordare spesso e lo ha fatto anche oggi, trovando l’approvazione di Fausto Bertinotti), noi possiamo mettere in priorità nell’agenda di questo nuovo lungo viaggio il tema del rapporto tra tradizione e innovazione. Il mio primo scritto universitario fu su Carlo Cattaneo, il mio primo vero lavoro post-universitario fu con Altiero Spinelli. Per questo la mia reazione al citato argomento, che Marco Follini ha appena scritto sul Foglio, dei sentimenti è di immaginare un continuismo che contiene certamente il fascino della discontinuità. Ovvero un continuismo più antico di quello che abbiamo qui riconosciuto più come sedativo che come propulsivo.
Con questo sguardo il mio spunto riguarda l’indisponibilità e anche l’insofferenza per un contesto politico (quasi tutto il centrosinistra) che ha regalato ai nazionalisti e ai sovranisti la gestione dell’idea di Nazione e di Patria. Ammetto che il tema non sia esaustivo. Concordo infatti sui due primari obiettivi di recuperare fiducia nel futuro e di riportare in flusso gli investimenti privati. Ma questi investimenti appunto dipendono da un rilancio di fiducia nel Paese stesso che ha bisogno di una moderna attualizzazione di quella che in tutti i Paesi europei forti si chiama identità competitiva. Bisogna vedere, insomma, come declinare oggi un‘idea di Patria all’apposto di come è trattata dai fautori primitivi del “prima gli italiani”.
Oggi l’identità nazionale può cominciare con Mazzini e finire con Cacciari (Europa) o con De Rita (comunità sociale) o con Bassetti (italici). Può leggere Italia e Europa con vincoli antichi e nuovi. Ma può anche essere scritta tanto da chi difende legittimamente i patrimoni simbolici quanto dalle centinaia di migliaia di giovani cervelli italiani sparsi nel mondo nella battaglia delle idee, delle invenzioni, dei linguaggi e dei brevetti del nostro tempo. Può essere scritta con la storia nazionale, ma anche – in Italia – con l’avvincente storia delle nostre città.
Può evitare di glorificare il dannunzianesimo e ricordarci nel 2019 – nel centenario del suo coraggioso e modernizzante governo stroncato dal dannunzianesimo – la figura del liberal-radicale Francesco Saverio Nitti.
Dunque bisogna ricominciare a fare alleanze culturali e politiche contro l’estremismo della disintermediazione e profilare adesso la discontinuità attorno non solo al polo sterile del nazionalismo, ma anche riguardo a cicli che non hanno trovato soluzioni di fronte alla violenta crisi del ceto medio, come è stato purtroppo per i socialisti e i popolari.
Per dire un pensiero personale considererei utile una cultura post-azionista (e in fondo anche post-risorgimentale) di impianto liberaldemocratico. Norberto Bobbio ci aveva spiegato cosa leggere e cosa pensare trenta anni fa per rigenerare il rapporto tra politica e cultura. Da noi è finito in soffitta, in Francia, in Germania, in Gran Bretagna e in Olanda lo hanno tradotto. Con ben noti risultati.