Maratone tv. La nuova vita della comunicazione politica

Articolo pubblicato da Mondoperaio, n.9 – settembre 2019 – Pagg. 11-14

Stefano Rolando

Premessa. Storie di vulcani, conversioni e sceneggiate

L’estate, come dicono gli economisti, è stata anticiclica.

Anziché accompagnare nelle forme sopite, tropicali, disperse, il bisogno degli italiani di far perdere le tracce, valido non solo per gli emuli di Bruce Chatwin smarriti in Patagonia, ma anche per coloro che hanno prenotato l’abituale pensione al mare o riempito lo zaino per il trekking di gruppo, i mesi di luglio e agosto hanno subito la condizione vulcanica innescata dal risultato delle elezioni europee.

Con la Lega di Matteo Salvini oltre i 9 milioni di voti (34%), poco meno degli elettorati del PD e di M5S tra loro sommati, il carattere vulcanico ha fatto per un po’ ruminare nel ventre della terra la potenzialità di un cambio di paradigma nella ormai inceppata vita politica nazionale, per esplodere a agosto avviato nella più singolare delle crisi.  Quella crisi che alla fine ha punito il vincitore delle elezioni e premiato gli sconfitti (rispetto agli esiti della precedente elezione europea) indicando tuttavia un prezzo da pagare ai giocatori. La condizione cioè che tutti gli attori in campo si impegnassero in un copione molto singolare: dire esattamente il contrario di quanto era stato stentoreamente detto in precedenza. Un detto ricco di parole, gesti, fiumi di post in rete.  Affidato nei mesi precedenti ai “mai”, ai “mai più”, ai “per sempre”, agli “assolutamente “. Mancavano solo “lo giuro sui miei figli” e “potessero incenerirmi”.

Come si sa la rete ora ci restituisce in una messinscena corale queste contorsioni, così da evitare gli imbarazzi personali. I politici della prima Repubblica, che non sapevano cosa fosse la rete, non si sarebbero mai fatti scappare esclamazioni così impegnative. Quelli contemporanei, che tutto sanno della rete, questa volta si sono dimenticati la regoletta semplice che la rete tutto conserva e tutto ripropone. E sono stati proprio i contemporanei a dare vita a un copione in cerca d’autore. L’autore principale di questa operetta estiva è stata in realtà una autrice, cioè Nostra Signora Televisione, vecchia dama di compagnia degli italiani che ha fatto da madre nella prima Repubblica, da amante nella seconda Repubblica e da appassionato luogo di vacanze in questo principio di terza Repubblica. Lo sceneggiatore invisibile (perno di ogni serietà dello spettacolo) aveva in verità predisposto le cose per il meglio. Scegliendo accuratamente i protagonisti.

  • La vittima truce. Per l’innescatore del dramma, Matteo il Truce (secondo la soprannomenologia di  Giuliano Ferrara) è stata predisposta una parte ingenerosa. Quella di sbagliare clamorosamente l’entrata in scena con un ritardo di oltre due mesi. Certo, attraversati da un romanzo parallelo centrato sul fascino démodé dell’Hotel Metropole di Mosca. Ma in ogni caso mettendo sulle spalle della medaglia d’oro delle elezioni un inspiegabile e inspiegato carico di remore che si rivelerà fatale nella reazione vulcanica di ferragosto.
  • Il Carnefice soave. Per la vittima predestinata del colpetto di Stato, che era stato il vice dei vicepremier, è stata invece scritta una parte fortunata. Che ha permesso a Giuseppe Conte di non smarrirsi nel turismo istituzionale internazionale e, ricordando di essere da buon civilista più avvocato d’affari che avvocato del popolo, di collezionare meriti e prodromi di sostegno dai potenti della terra, cercando di evitare solo le rischiose benedizioni del Cremlino ma non facendosi mancare niente di rilevante per l’atlantismo e l’europeismo dell’Italia tornati ad essere baluardo necessario dopo la confusa vicenda del Russiagate salviniano (come lo chiama Marco Minniti). Chi era stato il carnefice di Salvini, con retorica ferma e soave, nell’arena del Senato del 20 agosto in una sola settimana è riuscito a fare del proprio nome che, pur salvando l’onore personale, era diventato quel 20 agosto sinonimo di fallimento, il sinonimo di una imprevedibile rigenerazione.
  • L’attore cupo. Il terzo attore era ansiosamente alla ricerca di una scrittura da protagonista, perché percepiva tutto il rischio di vedere sfumare in parallelo a Salvini il capitale politico miracolosamente racimolato in meno di due anni. Per Luigi Di Maio la parte era particolarmente difficile ed è stata ispirata all’idea del trance difensivo. Alla vista del suo dioscuro gemello che, calzato il passamontagna, intimava Il “mani in alto” prima dalle spiagge del Tirreno e dell’’Adriatico, poi nella sala circolare di Palazzo Chigi, l’idea di sceneggiatura è stata formidabile: quella di provare a fingersi morto. E fino alla fine della sparatoria di attenersi nel modo più cupo all’avaro copione che prevedeva di non dire una parola e soprattutto di non pensare a niente.
  • L’attore gioviale. Il cast doveva comprendere anche un professionista del lieto fine. Quello scelto dal destino era un attore di provincia, poche scritture, copioni intellettualistici, trame nevrotiche. Ma anche professionista al corrente della tipologia prevalente nel cinema americano, cioè del fatto che cambiando storia si può anche cambiare vita. E viceversa. All’assediato Nicola Zingaretti – allenato alla parte dal rinomato fratello – lo sceneggiatore ha assegnato un plot ugualmente difficile, quello di convertirsi in modo convincente. Persino il ribelle della conversione, a sua volta notoriamente uomo di spettacolo, Carlo Calenda, ha ammesso con occhi lucidi la buona fede del suo segretario.

A partire da queste premesse narrative, un vero poker scenico, bastava solo un po’ di mestiere per mettere in campo figure così stagliate e farle interagire con un pubblico che avrebbe prima o poi comprato i posti in prima fila per un imprevisto spettacolo della politica. Proprio una questione di sceneggiatura. Prendere i fatti salienti adattarli ai caratteri degli attori prescelti e distribuire il rapporto tra fatti e commenti con un occhio sempre aperto agli imprevisti.

Dal manuale Cencelli alle maratone del “detto e contraddetto”

Giusto chiedersi: quale spettacolo? Quello della lunga sequenza delle auto blu che scaricano – una volta si sarebbe detto “doppiopetti”, oggi si vedono giacche blu (impeccabili per le immagini ravvicinate) sopra jeans sdruciti (impeccabili per i campi lunghi dedicati ai giovani elettori) – a poco a poco delegazioni di ogni colore, format caro a decenni di cronaca politica dei TG? Oppure quello di interviste chimicamente trattate con il manuale Cencelli, soprattutto fatte – per ogni angolo di reti e testate – da giornalisti inginocchiati spesso privi del diritto di porre vere domande? È evidente che i nuovi format sarebbero nati in cucine televisive più al riparo da reti, pubbliche o private, in vario modo controllate dalla politica.

E infatti i format più disinvolti sono negli ultimi anni nati in particolare alla 7 e a Sky. E il loro successo ha poi anche influenzato in generale forme di maggiore sdrammatizzazione e in vari casi di ritrovata libertà di iniziativa anche negli ambiti di talk show e persino delle testate Rai e Mediaset, che restano tuttavia regolate da principi generali di controllo. Si è così dimostrata una vecchia legge dei media, Quella che dice che non è vero quello che temeva Pirandello che con la nascita del cinematografo annunciava la morte del teatro. Ovvero quella che hanno sostenuto gli aspiranti vedovi del cinema per la nascita della tv e gli aspiranti vedovi della tv per la nascita del web. Nonché i pur oggi declinanti nostalgici della carta stampata rispetto alla nascita di tutto il resto. No, i generi non muoiono, ma possono deperire e perdere di ruolo se non ripensati, reinventati, riportati in sintonia con una meditata trasformazione della domanda.

Certo un protagonista di questa reinvenzione – per ciò che riguarda il trattamento dell’informazione e della comunicazione politica – si chiama Enrico Mentana, a cui qui merita di affiancare – rispetto a tanti nomi che sarebbe giusto ma anche troppo lungo fare – almeno quelli di Maurizio Crozza e di Diego Bianchi con Propaganda Live (autori e programmi che in questo contesto meriterebbero ampio trattamento).

Le esperienze che hanno allargato i confini della libertà professionale hanno anche inciso sull’interpretazione da parte delle istituzioni nel cercare diversi modi per garantire non solo la concorrenza tra i soggetti politici ma anche la qualità del prodotto e alcuni diritti degli utenti. Nel campo della comunicazione politica tanti gli esempi oltre a quelli fatti: Mixer, Samarcanda, Porta a Porta,  Matrix, Servizio Pubblico. Mario Morcellini presentando un monitoraggio dell’Agcom all’inizio di questo anno ha scritto:

In tempi di cambiamento, abbiamo bisogno più che mai della mediazione giornalistica che non è riducibile al ruolo di telecronisti sportivi. Ciò significa prendere atto che l’opinione pubblica ha diritto di considerare il giornalista un mediatore e un conduttore, mentre l’esigenza di un contraddittorio autentico non può che essere rappresentato da un diverso parere politico. Ne discende la necessità di pensare a una messa in sicurezza dell’informazione politica[1].

Ad ogni modo Enrico Mentana, allevato nella ruspante generazione dei giovani socialisti e dei TG di una Rai al centro di tutto, ha inventato – nel quadro di una coraggiosa piccola emittente caratterizzata dalle news e lanciata dall’asso della satira politica Maurizio Crozza, cioè la 7, in tempi più recenti fortificata dall’ingresso nel gruppo editoriale del Corriere della Sera – il rischioso format delle maratone politiche attorno alle elezioni e agli eventi destinati ad essere percorsi a più incognite e quindi anche con più copioni narrativi.  In passato, si è fatto cenno, questi sono stati eventi di difficile trattamento al di là di notizie frammentate e fredde. Nei tempi in cui il calore era conosciuto e riservato solo ai contesti delle campagne elettorali. L’invenzione delle maratone ha riguardato la scommessa che quel calore (fatto di opinioni alternative, testimonianze, colpi di scena strappati dal giornalismo di appostamento, qualche analisi, comunque molta spiegazione) fosse trasferibile dalle campagne elettorali  (promesse, annunci, esagerazioni) agli esiti della politica (urne, sondaggi, cambiamenti).  Aldo Grasso, sulle colonne del Corriere, ha spiegato di recente con due pennellate il successo di questa invenzione: “Se non ci fosse la maratona Mentana, summer edition, la crisi sudaticcia sarebbe ancora più buia e gli ostacoli che si frappongono all’intesa ancora più ardui”. Ed entrando nella specificità del format, ha aggiunto: “La logica della maratona Mentana è che si può dire tutto e il contrario di tutto, altrimenti sarebbe impossibile affrontare così tante ore di tv. I suoi ospiti fissi – la sua compagnia di giro – sono acrobati sul filo della parola e poco servono le puntuali precisazioni della brava Alessandra Sardoni. Tra maratoneti, pedagoghi indignati, la conversazione è scambio continuo di detti e contraddetti[2].

Questo format ha avuto un cantiere di origine su cui era davvero arduo scommettere, quello della battaglia, aspra in modo crescente, sul referendum costituzionale del 2016. Dice Marco Damilano, direttore dell’Espresso: “Mentana ha capito prima di tutti che il referendum sarebbe stato l’evento politico dell’anno. Sul piano comunicativo e dell’informazione non era però scontato che diventasse un evento seguito da milioni di persone: i precedenti referendum costituzionali erano stati confinati agli addetti ai lavori e inoltre il tema era molto tecnico[3].

Per dire la verità, il format stesso della “lunga spiegazione” attorno a un oggetto carico di mistero viene da lontano nell’esperienza televisiva. La vasta tipologia di “maratone” attorno a complessi e drammatici fatti di cronaca ha avuto molti protagonisti, da Bruno Vespa (Rai1) a Giusi Leonini (Rai3). Ben inteso con cambio della rete di esperti, ora politologi e costituzionalisti, là psichiatri e criminologi. Nel caso della recente crisi di governo, la pubblica fustigazione di Matteo Salvini in Senato ha rappresentato, in un certo senso, un plateale raccordo tra i due format. Naturalmente non basta l’invenzione per il successo di questo format. Serve anche la gestione. Qui un certo spiritaccio di Mentana – fatto di mestiere, di una rete di conoscenze personali dei tanti attori in campo (compresi quelli minori) e soprattutto di un esercizio interpretativo veloce e sintetico nelle narrazioni – è andato assumendo un punto di equilibrio tra competenza e sdrammatizzazione che si pone come la “tecnica” di una innovazione narrativa corredata da consenso e incremento dell’ascolto.

Precedenti: il populismo mediatico

In una ampia analisi dell’informazione politica in Italia, Fabio Martini – responsabile della pagina politica della Stampa – ci ricorda che i format che in precedenza avevano cercato di aggredire il torpore, il conformismo, la neutralità poco creativa del giornalismo soprattutto televisivo non erano passati invano. Creando pubblico ma anche imprigionandosi in una sorta di concorso a produrre ciò che evidentemente già era parte di una domanda crescente dei telespettatori: il populismo mediatico. Questo il passaggio del suo consultabile testo:

Ripercorrendo gli ultimi trent’anni di politica italiana si scoprirà che l’escalation dei principali leader è stata preceduta e preparata da una formidabile semina mediatica. Sul declinare della Prima Repubblica, Michele Santoro fa da battistrada e apre una lunga striscia di imitatori: talk show quasi tutti privi di contraddittori significativi, ma soprattutto impregnati dallo stesso mood. Indignato e vittimista. Sempre all’inizio degli anni Novanta, l’«Indipendente» di Vittorio Feltri, col suo linguaggio pop, diventa l’apripista di un giornalismo gridato, al quale alla lunga si sono allineati anche i politici. E quanto ai principali giornali, anni e anni di retroscena sanamente ficcanaso ma talora apocrifi, hanno contribuito a sdoganare la categoria del verosimile: una terra di nessuno nella quale i leader si sono trovati a proprio agio. Una complicità “involontaria”, quella del populismo mediatico, tipica degli ultimi decenni, ma che si intreccia con una complicità di più antica data. Il giornalismo italiano ha scritto grandi pagine in tutte le stagioni – dal pre-fascismo al dopo-Tangentopoli – ma senza mai sentire come propria una vocazione al quarto potere e interpretando semmai una tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri. Poteri non necessariamente di governo. Anche di opposizione. Con un consociativismo diffuso in tutti i rami dell’informazione: i giornalisti giudiziari sono indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo sportivo, culturale, sindacale, per non parlare di quello economico. Con una tentazione comune: partecipare al gioco, consigliare il potente. Condizionarlo. Dettargli la linea”[4].

Spiegazione e interpretazione

Abbiamo cercato di insinuare che il segreto delle “maratone” sta nel combinare la domanda di spiegazione con la tecnica della sceneggiatura. Ampi contenitori costruiti da tante e diverse modalità narrative, strettamente raccordate attraverso linguaggi dialoganti, quindi un copione di battute semilibere: all’impronta sì, ma con percorso ben programmato. Una storia rintracciabile nello storytelling mediatizzato di tanti leader politici del nostro tempo[5]. E altresì una storia che è parte importante del grande libro dell’infotainment[6]. Si può aggiungere che le condizioni di contesto che hanno portato questo format al successo vanno anche al di là di uno schema sperimentato in tutto il mondo, quasi sempre con anticipazioni che provengono dalla televisione americana.

Nel caso italiano ne possiamo individuare almeno tre.

  • La prima consiste nel decadimento culturale del ceto politico. Senza per questo elogiare pregiudizialmente l’ancien regime, resta il fatto che la cosiddetta “statura culturale” (memoria, linguaggi, senso dei nessi, conoscenza delle interdipendenze) rendeva un tempo un politico professionista (purché dotato di queste competenze) idoneo a sostenere una domanda di spiegazione. Da qui formati giornalistici magari un po’ noiosi ma contenenti risposte alla domanda sui “perché”, non di tutti gli utenti ma di quel vasto numero di lettori o spettatori non paghi di un’informazione limitata ai fatti. Sempre più questo raccordo tra passato e presente, questa ricerca di ragioni capace di aiutare a collocare gli eventi nel loro essere iceberg di fenomeni complessi, si è spostato su quei giornalisti che hanno continuato a credere che il pubblico non fosse un monolite passivo. Ma, al contrario, capace di esprimere a tutti i livelli generazionali un bisogno di conoscenza e partecipazione di carattere più maturo e argomentato. Proprio quei giornalisti hanno cominciato a svolgere da intervistatori e sempre più da intervistati, con vasto ricorso anche agli “esperti”, quel lavoro di interpretazione che per molto tempo è restato compito diffuso della categoria professionale più esperta della politica, cioè i politici. Non sarà un caso se di questi tempi a mantenere interessante questo ruolo interpretativo sono rimasti in campo straordinari novantenni, citati per le loro opinioni “interpretative” a tutti i livelli. Da Emanuele Macaluso a Rino Formica, da Piero Bassetti a Ciriaco De Mita.
  • La seconda consiste nella profonda spaccatura della società italiana circa l’alfabetizzazione di secondo livello (capire le cose, non solo saper leggere e scrivere) che è considerata da tempo il fattore principale di contenimento della domanda di demagogia e populismo che in Italia si è molto accentuata. Il mondo dell’informazione ha cominciato a capire questo schema perché proprio la stampa – soprattutto la stampa scritta – non è riuscita ad adeguare il prodotto in funzione di questa immensa battaglia civile, creando così una spinta interna ad aguzzare il cervello per la sopravvivenza stessa della professione. Ma anche per un’altra causa, cioè la necessità di adeguare e inventare prodotti adatti alla parte alfabetizzata, digitalizzata, informata e impegnata a non farsi sfuggire le ragioni della riorganizzazione del potere. Anche perché in democrazia – loro lo sanno – una leva decisiva per non perdere quota (libertà e qualità della democrazia stessa) risiede nel controllo sociale informato.
  • La terza condizione consiste nel collocarsi in un ritorno di moda della comunicazione politica rispetto alla lunga sottomissione – tra i professionisti del settore e anche tra i giovani – alla comunicazione di impresa. A cominciare dalle agenzie, un tempo tese alla creatività di prodotto e in particolare ai prodotti di consumo, con margini importanti corrispondenti anche a compensi importanti; tenendosi marginalmente a disposizione di esperienze di comunicazione politico-elettorale più per ampliare le loro PR che per ragioni di business. La “pubblicità” commerciale ha omologato una certa banalizzazione di stile e linguaggi, perdendo appeal e vedendo anche ridursi compensi. E esperienze professionali di comunicazione politica stanno sorgendo in forma autonoma e specializzata, a livello territoriale e nazionale (oltre a Steve Bannon che fa “l’eroe dei due mondi”). Insomma semplificazione, twitterizzazione, assertività, unite a virulenza di forme e intenzioni, hanno aumentato audience e adepti.

[1] Mario Morcellini, “Servizio pubblico. L’informazione politica in Tv e i nuovi rischi”, in Avvenire, 22 gennaio 2019.

[2] Aldo Grasso, Mentana e la crisi, un vero leader della maratona in diretta, Corriere della Sera, 29 agosto 2019

[3] In dialogo Marco Damilano e Enrico Mentana a “Più libri, più liberi” all’edizione della Fiera del Libro 2018 a Roma, con sintesi sul sito dell’AIE (https://plpl.it/storia-da-piu-libri/mentana-e-damilano-il-racconto-della-politica/#)

[4] Fabio Martini, La credibilità dei media. I “supereroi” della politica e le complicità dei giornalisti, già pubblicato nel fascicolo 1/2019 di Rivista Politica, al link:   http://www.istitutodipolitica.it/la-credibilita-dei-media-i-supereroi-della-politica-e-le-complicita-dei-giornalisti/

[5] Tredici casi sono ben descritti e contestualizzati nel recente saggio di Sofia Ventura, I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia, Il Mulino 2019.

[6] Gianpietro Mazzoleni, Anna Sfardini, Politica pop. Da Porta a Porta all’Isola dei famosi, Il Mulino, 2009. Anche se questo libro coglie l’inizio del ciclo e considera dunque che l’infotainment “offra un’informazione minima, ma sufficiente a una cittadinanza sottile“. Ora non si sa se la cittadinanza sia diventa un prodotto più robusto, argomento controverso,  ma è almeno vero che lo spessore informativo è molto cresciuto.

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