Disintermediazione e ricomposizione delle forme di partecipazione politica

Claudia Mancina, Luigi Covatta, Stefano Rolando, 15 dicembre 2018

Intervento al Seminario di formazione promosso dalla Scuola di democrazia europea “Luciano Cafagna” a Roma, presso le ACLI, dal 14 al 16 dicembre 2018 sul tema “Oltre la disintermediazione”.

Pubblicato in Mondoperaio n. 2 /febbraio 2019 col titolo La politica digitale

Stefano Rolando

I punti di partenza

La trasformazione dei processi digitali ha modificato da anni il concetto di sfera pubblica[1], aprendo le porte a modelli di disintermediazione. Essi sono stati originati quaranta anni fa dalla cultura dell’economia finanziaria che ha profondamente modificato la cultura delle banche[2]), poi applicati in molti ambiti, ma specificatamente all’area dell’informazione e della conoscenza (si parla di “spazi pubblici mediali o interconnessi”) con delegittimazione dei corpi intermedi. Ha evidentemente resistito molto di più il sistema produttivo riferito al manifatturiero (che resta un volano sia economico che sociale con una quota in Italia attorno al 15% nella formazione del PIL, al 20% in Germania) in cui il fattore territoriale ha mantenuto articolazione di presidio e in cui la struttura sindacale ha ancora ruoli definiti piuttosto certi.

La disintermediazione, come si vede, ha una sua geografia che rappresenta situazioni difformi.

La politica, sollecitata così da modelli di riferimento contrapposti, anche in relazione alla condizione meno strutturata e spontaneista del reclutamento dei suoi quadri e della loro immissione nei ruoli di rappresentanza, ha progressivamente optato per il modello di riferimento prodotto dalla comunicazione rispetto a quello della produzione industriale, che rappresentava un riferimento storico.

Dopo di che l’amazonizzazione – che nel campo editoriale ha portato alla sparizione di una parte dell’editoria ma anche alla costituzione di Amazon come super-editore[3] – ha investito anche altri ambiti, tra cui – non c’è da meravigliarsene – la politica stessa[4].

Come si è detto da tempo, con battuta efficace, “la rappresentazione si è mangiata la rappresentanza”.

E infatti rappresentanza e rappresentazione hanno subito un effetto di confusione e di intercambiabilità.

Con il successo elettorale di movimenti ideologicamente strutturati attorno a questa filosofia (M5S primo partito scelto dall’elettorato il 4 marzo 2018) la nozione stessa di democrazia ha subito una variazione tanto più incidente quanto argomentata quotidianamente da una forza di maggioranza parlamentare e di governo.

In particolare la più forte discontinuità è da individuarsi attorno alla nozione di “democrazia liberale riguardata dal vincolo preliminare del ruolo dei contrappesi e quindi dalle dinamiche di controllo e garanzia (nelle architetture istituzionali, nel rapporto tra politica e centri di interessi, nella divisione classica dei poteri, nel rapporto tra potere politico e potere mediatico, eccetera). Connettendosi a una certa idea applicativa della disintermediazione, ha preso corpo (non solo in Italia) il principio della “democrazia illiberale”, nel senso di tagliare l’architettura dei contrappesi favorendo dinamiche partecipative cosiddette dirette (in Italia diventata competenza ministeriale)[5].

La commistione tra rappresentazione e spettacolarizzazione ha poi confermato nel tempo un fenomeno che aveva avuto segnali in coda agli anni della prima Repubblica. Cioè quello della personalizzazione comunicativa e della forte leaderizzazione. Processi che hanno trasformato i partiti da essere essi stessi “corpi intermedi” socialmente radicati a sostanziali comitati elettorali, secondo il modello americano. Un passaggio che si svolge in modo trasversale, qualche deroga, qualche nostalgia, ma con sostanziale diffusa trasformazione del modello di “far politica”.

Largamente questo processo ha avuto luogo in una prima fase (iniziata con l’intuizione comunicativa di John Kennedy) nella piazza televisiva. Fase che naturalmente è stata accompagnata da lungo dibattito, stimolato internazionalmente da Karl Popper, su influenze e rischi della tv proprio riguardo alla natura del processo democratico[6]. Mentre negli ultimi dieci anni la piazza virtuale costituita dalla rete ha acquisito uno spazio crescente che fa parlare ora di cyber-attivismo come principale leva della partecipazione politica. Con la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008 l’equilibrio nelle dinamiche partecipative passa nettamente dal baricentro televisivo all’uso strategico del web.

Ma tante altre cose hanno concorso. La disintermediazione ha un design evidente: l’orizzontalità. Ed era da molto tempo che i processi verticali perdevano quota. La sociologia politica fissa la data alla caduta del muro di Berlino: senza più nemici di fronte, oltre a tutto, i nemici si cercano in casa. Da noi tuttavia il berlusconismo ha prolungato ancora la verticalizzazione e si è affermato attorno a tre discontinuità: molto mediatizzato, molto personalizzato, ancora verticalizzato. Prolungherà un po’ quel ciclo, ma ne innescherà di nuovi. E quando declinerà, poco spiegabilmente Matteo Renzi – pur intuendo ed esprimendo alcune novità – non riporterà a sufficienza le bussola su contenuti, serietà, condivisione. Cercherà soprattutto di strappare lo scettro e di proseguire la mediatizzazione, la personalizzazione, la verticalizzazione.

Il ruolo dell’antipolitica

Nel territorio concettuale che va dall’intermediazione alla disintermediazione, la politica ha alla fine consumato il vecchio modello del “collateralismo” fatto di soggetti sociali, associazioni, rappresentanze, in accompagnamento co-decisionale capace di mantenere vivo il rapporto con la società e con gli interessi consentendo alle istituzioni di trovare mediazione con la base sociale del Paese. Un meccanismo che aveva assicurato partecipazione, prossimità, comunicazione e, dunque, consenso reale e diffuso. Ma essa non ha ancora trovato il modo di ottenere gli stessi risultati se non producendo – a destra come a sinistra – una dinamica per così dire ipocrita, quella dell’antipolitica, che fingendosi fuori dai partiti ha sollecitato partecipazione movimentista per scopi occasionali.

È nella formazione delle crepe di questo fenomeno, sottoposto ora alla micidiale tensione della ineludibilità di governare, che si sta discutendo attorno alle vie d’uscita.

Argomento in cui torna una polarizzazione preoccupante: il sogno dell’assemblearismo senza gerarchia e gli incubi dell’autoritarismo fascistoide. Queste sirene (strana convivenza delle due fantasie opposte nel “non detto” dell’attuale contratto di governo) hanno la dolce colonna sonora della demagogia che produce più fatturato elettorale della sgradevole partitura del realismo responsabile impopolare. Ciò insieme a una sequenza di fenomeni indigeribili di offesa al principio costituzionale dell’art.49[7], ultimo dei quali la casella “Segnalazioni” della piattaforma Rousseau per “denunciare iscritti, candidati e portavoce che non rispettano i principi del Movimento”.

L’uso strategico del web, intanto, ha sviluppato funzioni di raccolta fondi e di diffusione delle argomentazioni promozionali. Ma nel corso dell’ultima accelerazione planetaria ha anche spostato qui (con commistioni tra apparati politici e apparati di Stato) investimenti per la guerra reputazionale e per la falsificazione delle notizie, che oggi costituiscono ambiti di punta nei modelli organizzativi della politica intesa come perenne campagna elettorale (nell’inventario dei “danni” va compreso – in Italia già da un certo tempo – anche questo tema che subordina ormai ogni atto decisionale all’uso strumentale della sua comunicabilità).  Proprio perché “campagna elettorale”, si è inventato uno scenario che legittima tutti i giorni una inaccettabile applicazione. Quella della continua trasformazione del rapporto tra vero, falso e verosimile, argomento centrale del disorientamento di massa che investe non più solo i giovani predisposti ai consumi digitali ma anche fasce adulte e anziane[8]. Pur essendo in atto un fenomeno di esclusione sociale che pesa su molte questioni, tra cui l’astensione elettorale.

La nuova guerra fredda tra USA e URSS, va qui ricordato, è dominata da processi di disinformazione che si spandono nel mondo. In Russia prevalgono le fonti di Stato, negli USA si sommano fonti pubbliche e private.

Nel 2016, con l’elezione di Trump, la svolta riverbera sul mondo. “La disinformazione – ha scritto l’analista americano Chuck Tryon[9]alimentata soprattutto sui social media come Facebook e Twitter – ha dominato il discorso politico durante le elezioni del 2016, schiacciando i tentativi di riferire in modo obiettivo le notizie”.

Eccoci così alla complessa mappa attuale di fenomeni nuovi che interagiscono tra di loro. E che mostrano che non è vero che la ricaduta di tutto ciò riguardi solo il campo della comunicazione. Sempre più essa mette in discussione il senso della modernizzazione di linguaggi, scambi, effetti, poteri, modelli culturali, eccetera. Ma anche provoca cambiamenti e adattamenti per tutta l’architettura di un’ampia area associativa e partecipativa, una volta chiamata “sub politica”, che ha aperto nel tempo ipotesi di nuova formazione delle decisioni e da almeno venti anni (Ulrich Beck, Pierre Rosanvallon, Manuel Castells, eccetera) ha portato a concepire una potenzialità dei singoli cittadini di svolgere un certo protagonismo politico. Si parla di “sfera pubblica post moderna proprio per indicare nel campo della comunicazione la pista e la fabbrica per alcuni di “emozionalizzazione” per altri di “trasfigurazione” per altri ancora di “democratizzazione” della politica. Un processo certamente con problemi, ma anche, va detto, con innovazioni.

Tra i problemi quello che appare più grave è che, in realtà, il ciclo della politica fondata sul sociale non ha retto. Alain Touraine, al riguardo, ha spiegato che il sociale presuppone il “noi”[10] e in tutte le svolte recenti – dalle nostre ai gilet jeunes – il “noi” è sventolato per tornare tendenzialmente indietro (assistenza, protezione, ridotta nazional-locale, una marea di “no”) non un “noi” in avanti. Finiti i collanti, finiti i collateralismi, finite le collettività: lo smarrimento non ci ha fatto progredire.

Piero Bassetti, capace a 90 anni ancora di sintesi fulminanti, alla recente domanda del Corriere della Sera “come si moralizza la politica?” ha risposto: “dicendo la verità agli elettori; se invece li sottoponiamo a un rincretinimento potentissimo, la democrazia va in malora[11].

Il dibattito sul cambiamento e i punti di ricaduta

Per introdurre un primo sguardo alle prospettive un punto va condiviso. L’idea che queste trasformazioni non dovrebbero oggi creare un fronte “passatista” in cui la vecchia scuola della politica e della democrazia si senta in dovere di resistere nostalgicamente ai cambiamenti. Dovrebbe invece essere promosso un concreto riallineamento a consapevolezze in ordine agli sviluppi maturati attorno a web 2.0. e successive parametrazioni senza lasciarne l’esclusiva gestione a portatori dell’egemonia della democrazia elettronica che, ove si agiscano attitudini sbrigative, rischiano di collocare l’attuale passaggio storico sulla nuvola della destrutturazione.

Mentre invece (ecco per esempio il riferimento a pensatori come lo stesso Rosanvallon[12] e soprattutto come Anthony Giddens[13]) esiste ormai una ventennale predisposizione attorno alle opportunità della democrazia dialogica, ovvero quella in cui il discorso pubblico – utilizzando il portato della trasformazione digitale –   diventa materia per produrre nuova solidarietà sociale e forme di governo di miglioramento della realtà secondo tecniche e principi di scuola riformista[14].

Non andrebbero così perdute finalità di battaglie in riflusso: quella del federalismo nella prospettiva dell’Europa o quella delle forme di autonomia politica rispetto alla competitività interna dei territori. Per consentire alla rete dei cosiddetti mini-pubblici di mettersi nella lunghezza d’onda di un dibattito per problemi, per coinvolgimenti consapevoli, per scelte condivise secondo logiche di metabolizzazione diffusa delle trasformazioni. Diciamo che non va considerata perduta tutta l’infrastruttura culturale del riformismo classico che parte anche da una pedagogia sociale della spiegazione civile e quindi da una politica di contrapposizione rispetto all’uso dello strumento della propaganda che sta, al contrario, prendendo piede come idea della politica fondata solo sull’annuncio “insostenibile”.

Si colloca in questa dimensione anche il pensiero che, nella ricomposizione di un progressismo politico in Italia e in Europa, possa e debba contare l’area del civismo. Per esempio quello che si è creato attorno alle tematiche della nuova sostenibilità, ovvero a favore di un ambientalismo non più conflittuale tra naturalismo e catastrofismo, ma compenetrato da più robusta cultura socio-economica e giuridica e fondato sul “prendersi cura” di territori, patrimoni, risorse (materiali e immateriali) e soprattutto sulla capacità di gestire le interdipendenze tra soluzioni ecologiche e dinamiche del lavoro[15].   Il carattere partecipativo e deliberativo assume nella battaglia e nella prospettiva sociale dell’ambientalismo ruolo decisivo. E le forme di questo “far politica” conducono ad un rapporto flessibile (convergente/confliggente) rispetto allo schema partitico della democrazia rappresentativa. I temi dominanti dei commons (beni o risorse comuni) costituiscono attualità in agenda attorno al riscaldamento globale, la depauperazione di ecosistemi unici o la perdita di biodiversità. Temi colossali di cornice rispetto a qualunque scenario materiale che si voglia prefigurare. Interferendo con la democrazia rappresentativa, questo ambito in parte provoca polemiche, in parte provoca interessanti commistioni e trasformazioni. Analoghe esperienze agiscono in materia di educazione, diritti civili, accesso alla conoscenza, fruizioni culturali, modelli di solidarietà e anche rispetto a nuove forme “sostenibili” di vita pratica quali residenza e consumi.

Tutto ciò permette di tornare su alcune scelte che parevano irreversibili. Partendo da istanze settoriali per arrivare a questioni centrali del modo di far politica, ecco esempi su cui si discute:

  • la leadership sconfinata che potrebbe essere tema ridimensionato; la formula del “portavoce” appare adatta a questa fase di riequilibrio, insieme a collegialità che rispettino la democrazia decidente; pur essendo necessario il ruolo di chi sa interpretare anche retoricamente sentimenti collettivi e quindi anche come leader ma – in politica come nel quadro istituzionale – concepito con i suoi contrappesi;
  • il modello organizzativo della partecipazione  chedovrebbe uscire dall’autoritarismo sostanziale dell’uso delle piattaforme per entrare in una regolazione del rapporto tra opinione e deliberazione che non strattoni gli ambiti sociali realmente coinvolti nelle decisioni;
  • il principio della rappresentanza che necessiterebbe di regole adattate alle potenzialità della rete almeno a dimensione europea, per conservare la funzione nella manutenzione della democrazia, connessa al principio di responsabilità e quindi alla valutazione del rendimento sociale.

Riordinare l’agenda della discussione

Anche alla luce di questi fragili dibattiti, molte cose vanno riconsiderate in un inventario del riequilibrio, tra cui le forme referendarie del civismo territoriale; la regolazione dal basso delle forme di coinvolgimento agli indirizzi dell’uso degli spazi pubblici e sulle opere pubbliche; il rapporto tra advocacy e trasformazione di bisogni in diritti soggetta a nuove griglie non solo dipendenti dal potere lobbistico di generare comunicazione egemonica.

In parallelo vi è il tema del ripensamento dei modelli organizzativi e funzionali dei soggetti della rappresentanza degli interessi economiciche conoscono certamente in Italia una crisi rilevante e spesso paralizzante. Crisi dipesa anche dall’aver cercato più soluzioni nell’opacità del lobbismo che in una organizzazione relazionale forte e trasparente del dialogo tra istituzioni e corpi intermedi. 

Voci nuove tuttavia esprimono riflessioni su questi cambiamenti. Enrico Giovannini, ad esempio, spiega che, dando dimensione europea a queste politiche, è venuto il momento di tenere in equilibrio cinque parole chiave: proteggere, promuovere, preparare, prevenire, trasformare (nella cornice della parola trasversale sostenibilità)[16]. Dimensione europea secondo Giovannini significa l’unico scenario in cui questi temi possono essere concepiti in tutte le connessioni essenziali e soprattutto essere portati a soluzione.  Vero è anche che alcuni di questi soggetti di rappresentanza economica hanno di recente ripreso capacità critica. Tanto che hanno messo i due leader gialloverdi, come scrive Dario Di Vico[17], in una sorta di ansia concorrenziale (uno convocando gli imprenditori addirittura al Viminale, l’altro convocandoli in numero doppio sia pure nel posto giusto). Ma risulta evidente che ormai questi confronti avvengono con soggetti sociali trattati nettamente come “altro da sé”.

Nella ridefinizione dei criteri sulla regolamentazione della partecipazione (che comprende anche il ruolo di nuovi professionisti della “infomediazione, attori sociali capaci di gestire il flusso delle informazioni, facilitando meglio domanda e offerta) c’è poi un’area di rischio che va attentamente valutata. Spiegano gli studiosi che la partecipazione ha carattere reale se determina una “redistribuzione delle risorse a vantaggio di chi ne ha meno”. Se guardiamo al rendiconto possibile delle misure di governo adottate vediamo che per ora siamo all’opposto, nella confusione demagogica a cui si assiste. La tensione tra domanda di sicurezza e protezione localistica (che si limita a ridurre lo spazio di inclusione e a gestire in forma punitiva l’integrazione migratoria) e la domanda di redistribuzione fondata su una visione planetaria degli equilibri sociali e ambientali con capacità di prevedere i punti di sostenibilità e di produrre una narrativa sociale convincente, è ora tale che questa regolamentazione appare praticamente impossibile. Ma per questo è anche l’ora del “laboratorio necessario”: una sperimentazione territoriale possibile quando vi siano condizioni – soprattutto in città evolute e territori ben governati – per dare miglioramenti visibili in tempi brevi.

Nel nostro inventario un tema è qui ineludibile. Discutiamo di come immaginare un recupero di senso sociale dei soggetti politici, riportando in priorità il tema della “giustizia sociale” e partendo dal pensiero che senza partiti   è difficile fare correzioni sostanziali allo stato confusionale che ci circonda. Ma non possiamo non vedere che la perdita di credibilità e di reputazione dei partiti costituisce l’ambito della malattia su cui bisognerebbe intervenire con priorità, non continuando ad operare per una delegittimazione del modello complessivo a vantaggio di un dequalificato populismo.

Sul cosa e come fare – andando oltre la pubblicistica scandalizzata e di denuncia – stanno lavorando alcuni laboratori di scienza politica. Innanzi tutto agendo criticamente sui caratteri ancora operanti della partitocrazia costruita sui modelli della rappresentanza corporativa e clientelare, che alla lunga sono stati – per esempio in Italia – la malattia prima invisibile e poi non reversibile della prima Repubblica.  In generale ma soprattutto l’attuale opposizione si dovrebbe fare un passo avanti sapendo che anche l’incattivimento sociale ha preso il suo corso e – come è scritto nel 52° Rapporto Censis presentato nei giorni scorsi[18] – non sono solo più i “rancori” a dover essere governati ma anche quel “sovranismo psichico” che prima ancora che essere parte dell’offerta politica è parte della nuova domanda sociale. Il che rende più complicato di qualche anno fa fare emergere modelli di riorganizzazione adeguata della politica. Fa parte di questo “sovranismo psichico” anche la lettura della disgregazione della rete di tradizionale intermediazione di cui si parla in cui – come scrive Luciano Fasano [19]–  si vanno formando “degenerazioni settarie”.

Qualche parola va ancora detta sulla “rappresentanza”. Il pluralismo della rappresentanza politica ha rappresentato un valore costituzionale cardine del ritorno dell’Italia alla democrazia. Poi i partiti di massa hanno cercato di offrire tutto a tutti, una sorta di bulimia elettorale e di marketing teso a minimizzare le differenze. Ciò ha depotenziato criteri storici di distinzione (come quello di destra e sinistra) ma che ha anche enfatizzato costi e inquinato spesso la contabilità della politica e naturalmente la tenuta etica fino a clamorosi fallimenti.

Per il momento rimontare questa caduta appare opera difficilissima forse tentabile solo tornando ad agire su realtà  piccole e meno vincolate sia alle clientele che al generico professionismo del ceto politico. In certi contesti anche agendo su condizioni di meditata autonomia nei modelli territoriali in cui – a livello locale e regionale – possono essere migliorate le condizioni di rappresentanza, cioè consentendo alleanze, laddove possibile, tra ceti produttivi e innovativi così da provocare un dinamismo competitivo che, percepito anche nei territori meno evoluti, crei stimolazione al cambiamento. Prospettiva che appare una regolazione generale più saggia di quella “autonomia rafforzata” a strappo per alcune regioni del nord con  l’azzardo di trasferire la competenza dell’istruzione e che rischia di muoversi sostanzialmente a favore della disunità nazionale fine a se stessa.

Appare poi – nella situazione italiana – importante una volta di più la questione della modernizzazione professionale e della finalità sociale delle prestazioni della pubblica amministrazione. Sull’onda della trasformazione determinata attorno alle aziende di servizio pubblico territoriale, la burocrazia italiana deve vedere rapidamente tre manovre portate a termine:

  • togliere alle culture giuridico-amministrative il primato nella gerarchia di potere, affiancando a questa linea di formazione anche quella economico-gestionale e quella comunicativo-relazionale;
  • modificare il principio di valutazione, oggi di facciata, con un principio strutturato sul carattere premiante della soddisfazione dell’utenza e quindi secondo il rendimento sociale;
  • ripristinare i modelli di accesso per concorso con forme di vigilanza di alto rigore attorno a fenomeni di eccesso di politicizzazione della filiera.

La politica con i piedi per terra. Spunti per la ricomposizione

Coscienti che se avessimo chiarissime vie di uscita saremmo ora i profeti di successo della svolta (che per ora non c’è), proviamo a riassumere qualche punto di indirizzo per tentare di capire se sia possibile rilanciare  politiche di partecipazione praticate da soggetti che si dichiarano orientati a vivere nella modernità dei contesti sociali, culturali e tecnologici del nostro tempo.  Come appena accennato, il punto di vista può, in questa fase, anche non essere collocato nella responsabilità di un grande partito di opposizione di massa che appare paralizzato da eccesso di autoreferenzialità e crisi di strategia. Può anche essere collocato, come in altri momenti gravi della storia, in ambiti politici più raccolti, più netti, più decisi e meno esposti alla contraddizione del cerchiobottismo elettoralmente prudente. Per questo più capaci di seminare e di far lievitare i cambiamenti.

  • Il primo tema è avere chiaro che lo schema culturale che ha sorretto la slavina della disintermediazione è stato dominato dalla cultura dei consumi non da quella del lavoroe per meglio dire dalla cultura della distribuzione, non da quella della produzione. Quest’ultima è più severa, faticosa, responsabilizzante. Predica che si debba lavorare di più tutti, non tutti meno[20]. Predica di stare nel territorio non solo nelle piattaforme virtuali. Non è cultura operaista, ma continua a declinare (come è evidente debba fare una rivista che si chiama Mondoperaio) un’idea moderna e trasformativa che viaggia con la trasformazione digitale non per volatilizzare né la creatività, né la progettazione, né il valore aggiunto che sostiene la qualità sociale. Non è la nostalgia delle ciminiere. Anche la forma più avanzata di economia della creatività si colloca in queste dinamiche e concepisce risultati di alta gamma perché sogna con i piedi per terra.
  • Il secondo tema è quello di investire sulla modernizzazione dei sindacati, portando queste organizzazioni a concepire presidi a modelli adatti a misurarsi con la globalizzazione ma anche in sintonia con i cambiamenti necessari per mantenere alta la competitività.
  • In questo orientamento contano soggetti sociali attivi nel processo di negoziato professionale per l’innovazione, la crescita, l’etica pubblica. Tuttavia l’appello indistinto a questi settori – che talvolta torna come un’ancora di salvezza – presupporrebbe in Italia una nozione di borghesia diffusa in senso weberiano che nessun territorio, forse nemmeno quello della Milano in trasformazione post-moderna, possiede. Esiste un ceto medio-alto che si è salvato dall’impoverimento, che in alcuni contesti si è coinvolto occasionalmente attorno a specifiche occasioni politiche. Ma ne va letto tuttora un fronte “spezzato” – progressista e conservatore – con mobilitazione possibile quando si profila un “federatore” che assicuri di superare lo schema ideologico di destra e sinistra a favore di scelte che, nella sollecitazione competitiva dei territori, significhino “andare avanti” rispetto a tendenze regressive cavalcate da incompetenze sia di destra che di sinistra.
  • Caso mai un terzo tema potrebbe definirsi nel premiare la provenienza professionale per accedere ad una idea della politica da cui si può uscire, nelle prestazioni di rappresentanza, consistendo in proprio e mantenendo partecipazione valoriale e deliberativa.
  • Un quarto tema potrebbe essere rappresentato dallo sforzo di ricostruire rappresentanza attorno al patto generazionale, tra portatori di innovazione e portatori di esperienza, fermando la deriva dell’idea della politica come scorciatoia per chi non studia, non lavora, non dimostra l’apprendistato attorno a moderni percorsi formativi e a concrete storie di servizio sociale.
  • Al tema del conflitto Nord-Sud va dedicato un punto di prospettiva. Il “contratto di governo” salta la questione, sapendo che un alleato di governo domina momentaneamente un polo, l’altro domina momentaneamente il secondo polo per errori delle forze più tradizionali e per cortocircuiti emotivi occasionali che l’espressione “sovranismo psichico” ben esprime. Ogni parola messa in campo dal “contratto” avrebbe rotto equivoci equilibri. Sarà saltato il vecchio schema di intermediazioni, ma in ogni caso alla Lega non va lasciato il monopolio della questione identitaria del nord e a M5S va contestato l’approccio assistenzialistico per il sud. Al nord operando sulla modernizzazione rappresentata dalle città, dalla tradizione amministrativa, dal civismo politicizzato e da culture creative e produttive che, per definizione, non possono accettare perdita di relazione con la politica annegandola nella emotività della “promettocrazia”. Al sud dove queste componenti sono più friabili e meno trainanti, operando da posizioni anche minoritarie capaci di contestare prima ancora dell’assistenzialismo di M5S il clientelismo dei partiti oggi rappresentati. Dunque sapendo che nell’interesse del paese, che sarebbe strutturalmente danneggiato da una sostanziale disunità, sono gli stessi circuiti progressisti del nord a dover tenere aperto dialogo e collaborazione con gli ambiti più ispirati della cultura politica meridionale.
  • Ancora – tema spesso richiamato ma in forma sconsolata – deve chiarirsi, in netta controtendenza con gli orientamenti dell’attuale maggioranza governativa italiana, una priorità politica e di investimento nella scuola, nei processi educativi, nel ruolo dell’università e nei settori creativi e produttivi della cultura, riportando in questi campi il valore del public engagement non per puro collateralismo di partito, ma per rilanciare, contro le forme demagogiche e passatiste del governo gialloverde, la questione del rinnovamento identitario connesso tra Italia e Europa.
  • Questa cornice – culturale ed educativa – deve indurre anche ad affrontare una delle fandonie del movimentismo di governo connessa all’ideologia della disintermediazione: il falso principio democratico alla base di questo movimentismo, ovvero l’aureo “1 vale 1”[21]. La retorica intrinseca dell’uno vale uno, in chiave comunicativa, è: se uno vale uno, uno vale l’altro, dunque nessuno vale veramente[22].  Resta il caos senza direzione, con la pancia aperta alle propagande demagogiche di turno. Questo falso idolo è la morte della meritocrazia, della credibilità di qualunque voce, pubblica o privata.

Provo a profilare due spunti di iniziativa.

In primo luogo, in ambito sociale, a partire dalla formazione per i cittadini di domani, ci si deve abituare a diffondere una riflessione critica sull’identità digitale, una situazione nuova nella storia umana. Cultura sull’identità digitale non vuol dire sapere come funzionano i social media, se bastasse questo saremmo a cavallo. Vuol dire conoscere a fondo le possibilità che questi mezzi rappresentano: possibilità creative e distruttive; costruttive e dissolutive del tessuto sociale; influenzanti in senso lato la qualità del dibattito pubblico di un paese; produttrici di vero e di falso[23].

Occorre altresì ragionare su come i dati dei cittadini siano il centro delle future lotte politiche. Evgenij Morozov, in articoli recenti[24] ha indicato il bivio: estrattivismo dei dati, nel medioevo digitale in cui oggi viviamo, o distributivismo dei dati. Qui la politica può giocare un ruolo. La via capitalista riguarda la consapevole liberalizzazione dei dati, ma almeno venduti al miglior offerente; la via socialista riguarda la nazionalizzazione dei dati che diventano nuova grande risorsa e bene pubblico. Il nuovo soggetto privilegiato per giocare queste lotte (lo dice Morozov come altri da anni) saranno le città: l’ultimo luogo in cui nelle comunità possono generare appartenenza, partecipazione e quindi impulso deliberativo. 

In conclusione: nessun luddismo riaprirà le porte alla qualità sociale e umana della partecipazione politica fondata sul ritorno alla responsabilità della progettazione sostenibile di riforme coerenti con lo stare, per noi, nella dimensione di un Europa al tempo stesso solidale e competitiva. La disintermediazione è stata finora magnifica conquista di spazi di conoscenza, ma anche abuso attorno alle superficialità della conquista, per schivare l’onere di progettare il cambiamento nella libertà a misura di una vera e responsabile metabolizzazione civile. 


[1] Jürgen Habermas, Storia e critica dell¹opinione pubblica Laterza, 1962.

[2] Paul Howken, The Next Economy, New York, Henry Holt&Co, 1983

[3] Come osserva Riccardo Fedriga, docente all’Università di Bologna e già coordinatore del Master in Editoria fondato da Umberto Eco.

[4] Sono passati tre anni dal 12° Rapporto Censis sulla comunicazione in Italia dedicato all’economia della disintermediazione digitale (Franco Angeli, 2015).  Il  boom delle connessioni mobili è continuato anche in Italia, nell’idea che la disintermediazione garantisse qualche riequilibrio rispetto al perdurare dalla crisi economico-finanziaria. Ciò ha cambiato la gerarchia dei media, mettendo FB e Google in testa alle classifiche.

[5] Al ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro (M5S) è stata assegnata, con pari dignità di funzione, anche la competenza per la “democrazia diretta”.

[6] Prima di internet, nel 1994, Giovanni Sartori, scriveva di videocrazia e sondocrazia, immaginando la mitizzazione della partecipazione diretta attraverso le tecnologie, paventando una delegittimazione della democrazia per lo “stato scadente dell’opinione pubblica”, argomento ripreso in forma più polemica contro la videobanalità poi nel 2007 in Homo videns. Televisione e post-pensiero (Laterza).

[7] “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

[8] Stefano Rolando, Comunicazione, poteri, cittadini – Tra propaganda e partecipazione, EGEA, 2015.

[9]  Chuck Tryon, Political Tv. Informazione e satira, da Obama a Trump, Minimum Fax, 2018.

[10] Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, 2015.

[11] Intervista di Stefano Lorenzetto a Piero Bassetti, Corriere della Sera, 8 giugno 2018.

[12] Pierre Rosanvallon, La contro-democrazia. La democrazia nell’era della diffidenza, in Ricerche di storia politica, n. 3/2006;

[13] Anthony Giddens fin da Oltre la destra e la sinistra, Il Mulino 1997.

[14] Debbo alla segnalazione di Massimiliano Panarari i riferimenti a materiali di discussione promossi dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sul  tema “Mass media e sfera pubblica. Verso la fine della rappresentanza?“ con contributi di Luciano Fasano, Michele Sorice e dello stesso Panarari, editi nel 2016.

[15] Enrico Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza 2018.

[16] Intervista a Enrico Giovannini, Il Mattino, 8.12.2018.  Lo stesso Giovannini ha operato di recente in un team di proposta finalizzata alle elezioni europee con figure che hanno discusso attorno al principio – tematizzato da Fabrizio Barca in una lettera a Repubblica – di “contrastare nella prospettiva europea sia la tendenza iper-liberista che la tendenza autoritaria”.

[17] Dario Di Vico, Governi e imprese. I tavoli dell’ansia. Corriere della Sera, 12.12.2018.  

[18] Fondazione Censis, 52° Rapporto sulla situazione sociale del Paese.

[19]Mass media e sfera pubblica. Verso la fine della rappresentanza? “, op.cit.

[20] Parte di conversazioni, nella collaborazione professionale di ricerca, con Nadio Delai, sociologo, presidente di Ermeneia, già direttore del Censis.

[21] Materia di discussione nel team della didattica di “Teoria e tecniche della comunicazione pubblica” all’Università IULM di Milano. Ringrazio in particolare Michele Bergonzi per il contributo.

[22] Massimiliano Panarari nel suo ultimo libro Uno non vale uno, Einaudi 2018.

[23] Il nuovo direttore dell’Agenzia Digitale Italiana, Luca Attias, inquadra questo punto come una priorità (“Introdurre l’educazione alla cittadinanza digitale nelle scuole” e “stimolare i media a svolgere servizio agli utenti” (Corriere della Sera, 22 dicembre 2018).

[24] Evgenij Morozov, Le sfide della sinistra nelle città digitali, Internazionale, 31 agosto 2018

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