L’economia della creatività (en attendant l’Etat)

Relazione svolta al Seminario di formazione promosso dalla rivista Mondoperaio

Dalla società dei due terzi all’alleanza fra meriti e bisogni

Fondazione Anna Kuliscioff  – via Vallazze 34,  Milano, 26 novembre 2016 

Testo pubblicato sul n.1/genaio 2017 della rivista Mondoperaio (con il titolo “Mangiare conn la cultura“)

Stefano Rolando [1]

Questa relazione

Riassumo in poche parole il senso di questa relazione nel quadro del dibattito che mi pare si stia profilando in questa giornata. Userò la metafora della squadra di calcio, che deve esprimere funzioni diverse sinergiche e non conflittuali. Proprio questa mattina abbiamo ascoltato la difesa, cioè chi legittimamente difende l’economia industriale, la vocazione manifatturiera e la cultura della fabbrica, con il racconto (interessante) delle trasformazioni tecnologiche e funzionali che rendono questo storico comparto in perdita di occupati ma con la sua resistenza importante nella formazione del PIL. Conosciamo bene la narrativa del “nuovo”, cioè della promessa del cambiamento immenso e radicale determinato dalla tecnologia fino al nuovo mondo della robotica.  E’ la narrativa dell’attacco, che ha infatti uno spazio crescente nei media e nella convegnistica. Pensando alla economia della creatività – o per usare un’espressione che ha preso piede  alle industrie culturali e creative – abbiamo (da sempre) pensato al classico centrocampo all’italiana, quello che tiene le connessioni, si radica nella tradizione del territorio, coltiva al tempo stesso materialità e immaterialità, tiene a bada (un po’) i processi di globalizzazione e soprattutto – nel merito del titolo di questo seminario – coniuga esemplarmente la valorizzazione dei talenti (il merito) e la qualità sociale (creazione di una pre-condizione di gestione del bisogno). Pensavamo queste cose appunto nella stagione che ha anticipato e tirato la volata alla conferenza di Rimini del 1982. Pensavamo che fossero “a portata” gli esiti, nel senso delle riforme istituzionali e delle politiche necessarie per generare competitività nazionale grazie a questo settore. Al tempo eravamo, come paese, nel gruppo di testa. Quelle riforme sono state disattese, quelle politiche sono state fatte da molti altri paesi e da molti altri territori. Noi abbiamo continuato ad invocare, pur generando casi esemplari e frammenti di territorio in continuo adeguamento. Adesso navighiamo, nel mondo, a metà classifica e siamo in ritardo di vent’anni. Ecco il senso di questa relazione all’interno del cahier per rilanciare oggi le politiche riguardanti “meriti e bisogni”.

Prima parte – Tutto ciò che ci sta alle spalle

Amarcord

Nella stagione in cui si preparò la conferenza “Meriti e bisogni” a Rimini (diciamo, per capirci, una quindicina di anni prima dell’avvento di internet) avevamo la percezione di una velocità della trasformazione dei caratteri dell’economia industriale che potremmo definire con tre parole: rapida, colorata, ri-equilibratrice (nel rapporto tra le economie dell’utile e le economie del bello).

Funzionavano gli uffici studi (pubblici e privati) come sensori interpretativi del cambiamento.

Funzionavano (abbastanza) i partiti come mediatori tra bisogni e diritti e, per una parte (non grande ma sufficiente), anche nella rigenerazione in senso qualitativo della classe dirigente.

Funzionavano le aspettative di una nuova e possibile riforma delle istituzioni: bastava solo sostituire forze troppo “mediatrici” nella guida del governo.

Ora gli “studi” – se si così si possono chiamare – sono sostanzialmente tesi al posizionamento, cioè sono in prevalenza di marketing non di interpretazione. La mediazione tra bisogni e diritti la fanno troppo spesso il sistema mediatico e le lobbies. Conta più l’algoritmo di Google dei sindacati. Attorno alla formazione della classe dirigente sta passando l’idea che la competenza non sia più la leva dirimente, pur esprimendosi ciò con una giusta – e per altro storica – condizione, quella della affermazione di nuove leve anagrafiche.

La riforma “funzionale” dello Stato appartiene spesso ad invocazioni, annunci, aspirazioni ma con disegni riduttivi e da anni senza incidenza sostanziale. E’ evidente che se quello della sinergia (previsionale e regolatoria) delle istituzioni nell’adeguare le politiche pubbliche è un fattore importante che frena l’Italia anche in questo campo, l’esito referendario sul diritto o no di mettere mano a disegni di riforma istituzionale in tempi che l’economia possa considerare “competitivi” sta davanti a noi come dirimente.

La visione post-industriale

Appartiene a quella stagione – quella di “Meriti e bisogni” – una percezione che allora ci pareva dirompente, oggi è cultura di contesto, ma ancora capace di produrre resistenze e riluttanze.

Raccontata in poche battute essa era formulata così.

Il concetto di società post-industriale accoglieva gli studi del sociologo statunitense Daniel Bell in cui nei primi anni settanta si descriveva la Post-Industrial Society[2] facendo luce su alcune trasformazioni gradualmente emerse in capo alla società di tipo prettamente industriale, segnando, per l’appunto, un prima ed un dopo economico e sociale.

In primis, il passaggio da un’economia prevalentemente manifatturiera, incentrata cioè sulla produzione industriale, ad un’economia dei servizi. Infatti arrivati a fine anni Novanta, il settore manifatturiero americano avrebbe contribuito al PIL solo per il 17%, a fronte del 50% invece apportato dal settore dei servizi. Fondamentale è stata poi l’affermazione di un nuovo concetto di capitale, ovvero la presa di coscienza della straordinaria potenzialità economico sociale detenuta dal capitale umano, ossia dall’uomo e dalla sua cultura, dalle sue conoscenze, esperienze ed idee.

Da una teoria del valore basata sulla pura forza lavoro, si è passati dunque ad una knowledge theory of value, dove la ricchezza economica vede la propria origine in conoscenza ed innovazione. Siamo entrati in una fase economica laddove, per riprendere il pensiero dell’economista franco-magrebino Daniel Cohen[3], l’idea conterebbe più della produzione. O meglio conta più della produzione l’intero processo di attivazione di relazioni che sta attorno al prodotto tra narrative e attrattività.

Come dice il mio collega Pier Luigi Sacco, reputato economista della cultura:

 “Nell’economia del XXI secolo, la produzione di contenuti è diventata la vera materia prima che genera il valore economico. I consumatori sono attenti alla qualità del prodotto, ma la percezione della qualità è legata più al racconto della qualità stessa piuttosto che ad una sua percezione oggettiva[4].

La società post-industriale sancisce insomma un nuovo legame tra l’aspetto immateriale e ideativo, da un lato, e la funzione produttiva, dall’altro, del generico bene economico.  Si tratta di un legame caratterizzato da un progressivo affievolimento dell’importanza materiale, dove il concepimento ideale e la distribuzione di un prodotto assumono una maggiore rilevanza economica e sociale rispetto al suo processo produttivo.

Questo filo rosso è stato percorso rispetto a molti obiettivi del nostro tempo. Tra cui quello di dare forma e corpo al crescente ruolo dell’economia della creatività.

Trasformazione e galleggiamento

E’ vero però che negli ultimi dieci anni non tutti i paesi – anche occidentali – hanno impresso un pari investimento teorico e di riorganizzazione delle politiche pubbliche sulla materia. Gli effetti della globalizzazione agiscono con forza su tutto.

Così in alcuni ambiti vi è stato un conferimento alla rivoluzione tecnologica, in quanto tale, di più poteri di quel che le sarebbe spettato nell’orientare il cambiamento del modello industriale dell’economia produttiva e degli scambi verso le dinamiche della immaterialità, dei consumi simbolici e della conoscenza.

Comunque questo insieme di fattori propulsivi e di più confusa gestione previsionale dei processi (spinte e controspinte) è alimentato anche dall’induzione nei processi chiave spesso più dalla forza della globalizzazione rispetto alla chiarezza dei disegni delle economie locali e nazionali.

L’economia industriale – con vecchie regole di trasformazione di materie prime e di standardizzazione sovrannazionale di prodotto e processo – convive nella difesa della cultura della fabbrica con la forza crescente di economie creative che maturano prevalentemente nei territori di tradizione. E convive anche con la potenza immaginifica ma legata ad elementi importanti di ricerca di un capitolo rivoluzionario che potrebbe con una parola di sintesi essere chiamato “quello della robotica”. Le economie creative tentano di orientarsi al di là e oltre il “locale”, grazie alla trasformazione del valore aggiunto generato dalla rete e dalle funzioni digitali, in una potenzialità universale di fruizione, di mobilità, di conoscenza. Restano modelli tra di loro competitivi che coalizzano anche racconti, poteri, rappresentanze, promesse future.

Il senso di un eccessivo equilibrismo delle associazioni imprenditoriali (su cui pesa – anche se non sempre – l’indolenza e la prevalenza del “quieta non movere”) è alleato sovente a pari sottovalutazioni e paure delle organizzazioni sindacali. E’ ancora viva l’idea che facilitare la trasformazione tecnologica introduca nel breve e medio termine condizioni “job killer”. Una tendenza progressivamente meno controbilanciata dalla forza progettuale delle organizzazioni politiche e delle stesse istituzioni legislative.

Questa premessa ci aiuta a comprendere perché nel corso degli ultimi anni le potenzialità trasformative connesse al peso pur crescente delle economie creative abbiano conosciuto percorsi a zig zag e in alcuni contesti perdita di opportunità. Insomma, il potenziale trasformativo determinato – soprattutto per un paese dalle caratteristiche come l’Italia – dall’economia della creatività sia a vantaggio delle politiche di investimento, sia dell’occupazione, sia della qualità di vita nei territori e ancora sulla reputazione del paese e sulla sua maggiore attrattività, sull’adeguamento delle istituzioni connesse a educazione, cultura, ricerca, commercio estero eccetera, sia infine sul nesso tra trasformazione digitale e conoscenza,  ha avuto alcune spinte – ciò è innegabile – ma anche battute di arresto attorno  a cui oggi è importante riflettere e correggere. Spinte corporative e di autodifesa di un certo sistema produttivo (comprendendo anche la parte sbagliata di alcune vicende di delocalizzazione) sono stata parte di questi fattori frenanti.

Istituzioni inadeguate

Ma da noi è soprattutto nel ritardo tra strategie del rinnovamento delle istituzioni, nel peggioramento delle relazioni tra amministrazione centrale, regioni e territori, nella fragilità dei processi di concertazione governativa (sostituiti a strappo da eccessi di centralizzazione, anch’essi non sempre utili in questa partita) che si è annidato il peso di una debole progettazione istituzionale di questo possibile grande cambiamento, in cui i soggetti – pur intraprendenti, intelligenti, veloci – che costituiscono le dinamiche imprenditoriali necessitano fortemente di caratteri chiari e forti di “sistema Paese”.

Qualcuno dice anche che la stessa espressione “economia della cultura” sia diventata più un framework accademico che una implementazione pratica di modelli di gestione, A buoni conti l’economia creativa in Italia non deve essere inventata di sana pianta. Essa ha tradizione millenaria sia nei patrimoni naturali e culturali che la alimentano sia nelle culture tecnico-professionali che la adattano ai contesti operativi e competitivi.

In essa si sommano caratteri dell’economia immateriale e dell’economia della conoscenza, caratteri della crescita di consapevolezza economica attorno al patrimonio culturale, caratteri di strategicità nella gestione finanziaria di processi che agiscono sul patrimonio simbolico.

Il tema “Meriti e bisogni”

Questo tema – valeva trenta anni fa e in parte vale ancora ora – si declina qui in molto atipico, trattandosi di dinamiche occupazionali frammentate e alcune con profili professionali solo parzialmente codificati e trattandosi di sistemi gestionali ancora con un rapporto formazione/prestazioni e con una cornice valutativa del rendimento degli investimenti che non hanno carattere generalizzato nei sistemi territoriali di riferimento. L’anno prima della conferenza su “Meriti e bisogni”, quindi nel 1981, Claudio Martelli chiuse (con alcuni di noi qui presenti) ì un’altra conferenza (dal provocatorio titolo “Nello Stato spettacolo[5]) dopo un ciclo di fortunati convegni di proposta per modernizzare il settore pubblico e risvegliare la pulsione del sistema di impresa attorno all’insieme delle industrie culturali e creative. Ci si candidava a governare quelle proposte. E questo segmento era quello che – qualche volta a denti stretti anche dalle forze politiche più antagoniste – ci veniva riconosciuto come una delle letture più nette e chiare di indilazionabili bisogni di sistema generati dalla pressione di meriti non sufficientemente accolti. Gli impulsi generali riguardavano politiche originate dalla proposta di nuovi orientamenti che i socialisti produssero negli anni ’80 che per semplificare riassumeremmo nella valorizzazione del “made in Italy”.

Certo in trenta anni si sono evolute molte letture. Si è superata l’idea (che noi avevamo già superato) che si trattasse di un complesso di “nicchie”.  Si è superato – riguardo ad alcune di queste nicchie – l’idea tuttora promossa da una parte del mondo della moda che il carattere dei “mercati creativi” sia confinabile nel cosiddetto “lusso”. Si è soprattutto affermata (e ciò da almeno dieci anni) l’idea complessiva – che pure ci animava –  che questo settore sia direttamente correlabile ai processi economici, culturali e sociali sostanziali che caratterizzano la qualità della vita e la qualità sociale.

Seconda parte – Metodo, classificazione e repertorio delle priorità

Un punto di svolta, il lavoro della commissione Santagata del 2007-2008

Per venti anni, poi, non si è fatto tutto ciò che quel periodo prometteva.

Ovviamente la società – impresa, ricerca, innovazione, nuove professioni – ha fatto la sua corsa.

Ha anche raggiunto livelli internazionalmente di punta. Ma alcuni paesi hanno anche adeguato istituzioni e norme. Altri no. Noi a chiazze, territori sì e territori no, settori si e settori no. Poi va dato merito al lavoro tenace, spesso solitario, spesso fragile persino nel negoziato interno ai poteri disciplinari accademici, degli economisti della cultura (una associazione, una rivista, un rapporto di analisi periodico[6] che –  consentitemi di ricordare –  per primo feci editare nella prima parte degli anni ’90 da Palazzo Chigi per alzare l’asticella della forza del messaggio contenuto) e si riaprì – ma a singhiozzo – il negoziato su un aggiornamento inderogabile. Le istituzioni rimasero un’altra volta indietro. Avanzò invece la ricerca accademica. E (proprio su questo si radicarono idee e metodi d’oltre oceano) l’onda della rivoluzione digitale fece affermare il tema professionale che Richard Florida aveva marcato con la sua teoria della “classe creativa[7]. Nell’interessante sconfinamento disciplinare prodotto dalla nuova ricerca accademica italiana, mi sia consentito almeno di citare il lavoro condotto in quegli anni dal professor Enzo Rullani sull’economia della conoscenza e sulle fabbriche immateriali[8].

Nel 2007-2008 (in quel contesto) si completava – per iniziativa dell’allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli – la grande ricognizione compiuta dalla commissione presieduta dal compianto professore Walter Santagata e costituita dai maggiori economisti della cultura italiani (ricordo qui, ritengo nel dispiacere di noi tutti qui presenti, la scomparsa di Paolo Leon che era parte di quel tavolo).

Commissione che ho avuto l’onore di coordinare, che ha fatto evolvere in modo rilevante l’approccio metodologico al campo di analisi e al rapporto con gli orientamenti delle policies.

Il capitolo finale del Rapporto conteneva raccomandazioni e indicazioni di politiche culturali attuabili sia nel lungo periodo (18 Decisioni Fondamentali) sia nel breve periodo e nei diversi settori culturali (72 Azioni)[9].

Nell’apertura del nuovo secolo si profilano in questo ambito nuove iniziative di connessione tra politica e sistema di impresa. Per alcuni si tratta di sollecitare la modernizzazione del tradizionale artigianato, per altri si disegnano nuove aree di implementazione delle economie digitali, per altri ancora si cercano soluzioni di riscossa e di cambiamento di territori coinvolti nel declino industriale.  Si consolida, a buoni conti, una visione di creatività per la qualità sociale che espressamente salda l’intera tematica al rapporto tra valorizzazione dei nuovi talenti (i meriti) e di risposte nei processi formativi e normativi ad un bisogno di non omologare la perdita di identità nazionale nella globalizzazione.  Al contrario si tratta di caratterizzare i processi globali con uno spazio più robusto dell’offerta delle qualità tradizionali nazionali a cui paesi come Italia, Francia, Gran Bretagna non possono che dichiararsi favorevoli e disponibili.

In questo filone di ricerca e di promozione vi è stato lo sforzo – fatto soprattutto negli ultimi due decenni – di realtà quali Symbola, Civita, Federcultura, a cui si devonoanalisi e proposte parte ormai della cultura condivisa di chi aspetta ancora una compiuta modernizzazione dell’approccio istituzionale alla materia.

Tre aree e tredici settori

Torno brevemente alle acquisizioni e ai risultati di quelle ricognizioni. Subito dopo cercheremo di fare qualche annotazione sui caratteri (risolti e irrisolti) del cambiamento che il decennio successivo ci riconsegna. La classificazione dei settori presi in considerazione da quel Rapporto innova anche un po’ sui criteri fino a quel punto invalsi internazionalmente, portando nel compendio anche le industrie del gusto in precedenza non rubricate. La tabella è rimasta sostanzialmente rispettata anche nelle ricerche successive.

I settori delle industrie culturali e creative

Cultura materiale

  • Moda
  • Design Industriale
  • Artigianato
  • Industrie del Gusto

Produzione di contenuti, informazione e comunicazioni

  • Software
  • Editoria 
  • Radio e  Tv
  • Pubblicità
  • Cinema

Patrimonio storico e artistico

  • Patrimonio Culturale
  • Musica e Spettacolo
  • Architettura
  • Arte Contemporanea

Ed ecco la sintesi dell’apprezzamento economico-finanziario dell’andamento di questi settori nel contesto italiano, qui solo nel totale 13 ambiti citati:

  • Valore aggiunto: 116 mld di €
  • Addetti:   2.855.900   
  • % VA sul PIL:  9,31%  
  • % addetti su occupazione totale:  11,79

Valori qui dettagliati (con dati che si riferiscono all’anno 2004)

                             Settori                                           Val. Agg. (mln.€)        Addetti (migliaia)     % VA su PIL   % addetti su occ. tot

               Cultura Materiale

  • Moda                                                                   38.024,2        1.112,6         3,04%        4,59%
  • Design Industriale e Artigianato                   19.659,7           520,7         1,57%        2,15%
  • Industria del Gusto                                            5.054,8            125,1          0,40%        0,52%

Industria dei Contenuti, dell’informazione

e delle comunicazioni

  • Software                                                            14.641,4            282,7         1,17%         1,17%
  • Editoria                                                              10.781,8            224,9         0,86%          0,93%
  • TV e Radio                                                          4.070,8              89,4          0,33%          0,37%
  • Pubblicità                                                           2.405,8              64,9          0,19%          0,27%
  • Cinema                                                               1.929,8              37,6           0,15%          0,16%

Patrimonio Storico e Artistico

  • Patrimonio Culturale                                      7.811,0             105,4           0,63%          0,44%
  • Architettura                                                     6.683,5              172,3           0,54%         0,71%
  • Musica e Spettacolo                                       5.186,2              120,2           0,42%         0,50%
  • Arte Contemporanea                                        357,2                –                  0,03%               –
  • TOTALE                                                             116.606,2          2.855,9         9,31%        11,79%

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Utilizziamo questo quadro di riferimento perché esso ha una specificità di adattamento alle condizioni italiane ancora interessante. Oggi possiamo rubricare una decina di approcci metodologici alla classificazione internazionale dell’economia della creatività, ognuno dei quali con specificità e originalità, che rendono i dati strutturali complessivi poco comparabili e con moltissimi scostamenti. Esistono comunque ottime tabelle riassuntive che aiutano nei percorsi definitori[10].

I rapporti recenti di Symbola (2015 e 2016)[11], pur con diversi approcci classificatori che ridimensionano i valori complessivi, sono utili per capire le interdipendenze di questi settori nell’economia nel suo complesso. Osserva Ermete Realacci: “

Il ‘sistema Italia’ deve molto alla cultura e alla creatività: il 6,1% della ricchezza prodotta in Italia nel 2015, pari a 89,7 miliardi di euro. Ma non finisce qui: perché il Sistema Produttivo Culturale e Creativo (SPCC) ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,8. Per ogni euro prodotto dal SPCC, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,7 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 160,1, per arrivare a quei 249,8 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 17% del valore aggiunto nazionale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano. Più di un terzo della spesa turistica nazionale, esattamente il 37,5%, è attivata proprio dalla cultura e dalla creatività”.

Richard Florida – come ho prima brevemente accennato – è considerato il fondatore della prospettiva “professionale” rispetto al tema della creatività e la sua attenzione si è centrata sulla presenza e sul ruolo sempre più importanti, della cosiddetta “classe creativa” nell’economia contemporanea dei singoli paesi e in quella globale.  In Italia Irene Tinagli ha curato, in questa cornice, una ricerca sulla creatività presente in ciascuna provincia italiana utilizzando le categorie di Florida.

L’indice del talento è ricavato dagli indicatori sulla presenza della classe creativa, del capitale umano e dei ricercatori sulla forza lavoro totale. L’indice della tecnologia è ricavato dagli indici dell’high tech, dell’innovazione, della connettività high tech. L’indice della tolleranza è ricavato dagli indici di diversità, di integrazione e di tolleranza verso i gay. Tinagli e Florida hanno stimato che dal 1991 al 2001 la classe creativa in Italia è cresciuta del 128%, da meno di 2 a oltre 4 milioni di persone, passando dal 9% al 21% della forza lavoro complessiva[12].

Terza parte – L’aggiornamento dell’analisi

Intanto appare evidente che l’area qui identificata come “software” presenta oggi dilatazioni strutturali.

E’ chiaro che i limiti dell’individuazione tendono a non comprendere mai caratteri “hardware” dei settori stessi (per esempio per “architettura” si intendono gli studi di progettazione, non i cantieri e l’edilizia). 

Ma è evidente che una parte rilevante delle start up innovative oggi confondono facilmente ambienti di lavoro e condizioni di immaterialità, così che solo partendo da questo elemento molti dati andrebbero scomposti e ricomposti.

Ho riattivato per l’occasione di oggi i contatti con il nucleo di ricerca di base di quell’esperienza (che è rimasto in attività universitaria nel settore, con ottima esposizione agli studi più avanzati internazionali[13]) e questa è in grande sintesi la valutazione degli andamenti dell’ultimo decennio.

La griglia delle categorie

In linea di massima la griglia delle categorie proposta nel Libro Bianco è rimasta uguale a sé stessa, anche se successivi studi (almeno per l’Italia) hanno proposto differenti raggruppamenti delle categorie.

Gli operatori si riferiscono soprattutto ai Rapporti Symbola “Io sono Cultura che hanno proposto una misurazione costante dal 2011 delle Industrie Culturali e Creative in Italia.

Nel rapporto 2016 si propone una tabella abbastanza illustrativa della ri-categorizzazione proposta che prevede Industrie culturali, Industrie Creative, Patrimonio Storico Artistico, Performing Arts e Arti visive e infine il settore Creative Driven (che include molto del Made in Italy – Moda, artigianato e gastronomia, della precedente classificazione).

Al di là della riclassificazione, il Rapporto Symbola, ponendo l’enfasi sulle produzioni del Made in Italy come componente rilevante dell’economia creativa e culturale italiana, appare molto vicino allo sforzo di classificazione fatto nel Libro Bianco della Commissione Santagata.

Le stime del Rapporto Symbola 2016 indicano che il settore complessivo raggiunge un po’ più del il 6% del PIL e dell’occupazione. Ma le cifre non sono metodologicamente comparabili con quelle del Libro Bianco, perché le attività economiche incluse nei diversi settori sono diverse.  

Per l’aggiornata definizione delle aree utile il riferimento, principalmente, a due fonti:

  • la ricerca sulle realizzata dalla Pricewaterhouse Coopers con l’obiettivo di individuare le aree più significative nella sfida sulla creazione delle strategie future [14]
  •  il testo di Charles Landry che, con l’obiettivo di definire la visione dell’arte del city-making per le città del ventunesimo secolo, riassume vent’anni di riflessioni di questo autore [15].

Nuovi nessi

E’ chiaro che il bisogno di aggiornamento, autorevole e condiviso, delle classificazioni, comporta oggi tre segnali di evidenza:

  • L’espansione dell’area della ricerca scientifico-tecnologica applicata ai processi creativi (appunto ciò che anni fa andava sotto la voce “software”) è divenuta una ineludibilità relativa a qualunque necessità di rendere valutabile ed economicizzabile l’applicazione stessa;
  • La dimensione di una economia ambientale che va considerata in positivo come fattore costitutivo di attività creative e produttive specifiche e come fattore strategico dell’attrattività; e va considerata in controluce rispetto alle crisi ambientali, soprattutto riguardanti catastrofi; cosa che permette di riportare come pre-condizione anche del rapporto turismo-cultura il tema dell’assetto idro-geologico e territoriale del paese.
  • La valorizzazione dei nessi e delle interdipendenze, come questione della gestione economica e regolatoria di sistema che definisce a sua volta professionalità specifiche nella relazione tra istituzioni e imprese per il governo del settore.

L’incidenza del lavoro in rete e nei processi digitali

Manca nelle analisi correnti una risposta esaustiva perché non si evidenziano nei diversi rapporti sulle industrie creativi statistiche coerenti nel metodo e anche attendibili su questo fenomeno. Molti studi riconoscono il sempre maggior peso della digitalizzazione e dell’economia creativa in rete, ma considerando la difficoltà di rilevazione da parte degli uffici statistici delle attività e transazione in rete, ci si basa al più su sporadici dati raccolti ad-hoc. 

Alla domanda : “Cosa le politiche  pubbliche italiane hanno accolto del  repertorio di raccomandazioni di quel rapporto?” si risponde:

Considerando il numero elevato di raccomandazioni presenti nel rapporto del 2008, messo in un cassetto dal ministro Sandro Bondi e mai più dissepolto, non è facile verificare se e in che modo politiche italiane o a livello europeo abbiano recepito dettagliatamente di quelle proposte. Potrebbe essere volontà delle Amministrazioni più esposte promuovere questo esercizio utilissimo da fare, anche per risollevare il dibattito sul tema. Quello che emerge interrogando gli operatori è che in realtà in Italia il tema delle industrie creative (e quindi l’accoglienza delle raccomandazioni) non ha avuto un seguito concreto e sistematico nelle politiche nazionali. Per fare un esempio, la proposta di dare una maggiore centralità al Mibact su questi temi in coordinazione con altri ministeri non è stata mai presa davvero in considerazione. Anzi l’obiettivo all’origine riguardava anche il cambiamento della stessa denominazione del Mibact comprendendo la parola “creatività”. E il nodo – già evidente alcuni fa – dell’ambito della regia istituzionale sulla materia non è sciolto. La riforma del Mibact e le ultime politiche messe in atto, per quanto molto condivisibili, si sono in gran parte concentrate sulla valorizzazione del patrimonio storico-artistico, ma non sull’economia creativa.

Seconda domanda : “le politiche europee che sviluppo hanno avuto?”

Dal 2008 in avanti le industrie creative sono entrate in modo più esplicito nell’agenda politica della UE, sia attraverso la pubblicazione del Libro verde della Commissione, sia attraverso il nuovo programma Europa Creativa. La Commissione Europea sta preparando un nuovo studio sull’economia creativa basato sull’approccio di filiera preparato sempre da KEA (alcuni elementi si possono desumere da anticipazioni che sono in rete). In realtà l’approccio metodologico di focalizzarsi sulle filiere si ispira in parte all’esperienza del Libro Bianco, anche perché chi in Commissione sta seguendo lo studio è Erminia Sciacchitano, che fu membro della Commissione del Libro Bianco.

Il nodo culturale del Libro bianco del 2008 puntava all’obiettivo della “qualità sociale” della creatività . Domanda: “Siamo ancora su questa strada?”

Negli ultimi anni, dopo la pubblicazione del Libro Bianco, sempre più studiosi e policy maker che avevano posto maggiore enfasi sugli aspetti economici della creatività stanno riconoscendo le limitazioni di questo approccio restrittivo (che Walter Santagata nel suo ultimo libro “il Governo della Cultura[16] aveva denominato “fase economicistica”) e abbiano iniziato a orientarsi verso aspetti di qualità sociale. Per fare un esempio concreto, due importanti fondazioni di origine ex bancarie come la Cariplo e la Compagnia di San Paolo hanno sviluppato dei programmi dedicati alla “Innovazione Culturale”, nozione che è all’intersezione proprio dei temi creatività, cultura e qualità sociale.

Un’ultima domanda: “Quale è dunque oggi il nostro posizionamento?”

Con la memoria alla stagione che coinvolge la progettazione socialista dei primi anni ’80 e che ha trovato qualche sostanziale aggiornamento nei citati percorsi di ricerca è ora naturale chiedersi se la chance italiana nel settore sia oggi maggiore o minore perché malgrado il nostro “posizionamento strutturale” l’effetto sulla crescita resta modesto.

Per capire il nostro posizionamento è bene far breve riferimento al cambio di paradigma di molti paesi soprattutto anglosassoni fin dalla metà degli anni ’90. Proprio il cambio di “attenzione politica” nasce in Australia. Era il 1994, infatti, quando l’allora Premier laburista Paul Keating presentò il primo rapporto sul tema, che già nel titolo – Creative Nation – indicava un obiettivo preciso. In quel lavoro – preceduto da una lunga consultazione con personalità della cultura e delle industrie creative – si trovano concetti che anticipavano futuri sviluppi. Dal fatto di avere “molto da guadagnare e poco da perdere dall’aprirsi al mondo“, al considerare la cultura “perno della identità del Paese” e “generatrice di ricchezza“, sino all’affermazione per cui “politica culturale è politica economica“. Un documento che guardava avanti.

Nel 1998 arriva anche il primo Rapporto britannico sul tema.  In Italia, tenendo conto delle dichiarazioni di governo – oltre al passaggio (rimasto di studio) del 2008 – si deve arrivare all’attuale governo che per bocca del Ministro Dario Franceschini ha fatto fare marcia indietro allo stereotipo maturato – un po’ per una battuta paradossale attribuita a Tremonti (ma che Tremonti sostiene che Sandro Bondi gli abbia affibbiato ingiustificatamente) alla fine comunque tradendo culture politiche – attorno all’idea che “con la cultura non si mangia“.

Vi sono paesi – come detto – in cui dagli anni ’90 si percepiscono i benefici di una politica attenta e costante in ordine all’economia della creatività. In Gran Bretagna le consegne sono passate da Tony Blair, a Gordon Brown, a David Cameron. E regolarmente i rapporti di governo segnano i risultati: il settore cresce oltre volte di più della media nazionale, conta più del manifatturiero, della finanza, delle costruzioni, oltre due milioni e mezzo di addetti, un fatturato che ormai sfiora gli 80 miliardi di sterline.

Il Global Creative Index vede al primo posto degli Stati creativi l’Australia da alcuni anni. Il fenomeno è stato ben spiegato di recente da Alberto Magnani sul Sole 24 ore[17]. Ed è ancora la qualità e la costanza della politica a fare la differenza. Così come nei territori urbani sono stati piani coordinati a fare la differenza: Barcelona Creativa, Creative Shangai, Buenos Aires Creativa, Creative Lagos, per fare solo qualche esempio.

Nel gruppo di testa oggi – oltre all’Australia – paesi che hanno messo una marci in più: la Finlandia, l’Olanda, la Svezia, la Nuova Zelanda, Singapore, per citare i primi, ma anche la Germania evolve verso risultati molto significativi. L’Italia è al 21° posto. Dietro all’Austria e davanti al Portogallo. 

Ha osservato Giampaolo Manzella (che fu membro del team amministrativo del Libro Bianco):

“Si può sicuramente recriminare sui metodi di calcolo e di valutazione utilizzati per questa classifica che non catturano appieno le specificità del modello italiano. Quello su cui invece si non può recriminare è un’altra cosa: l’assenza di una politica nazionale per la creatività, proprio del tipo di quella avviata in Australia nel 1994”[18].

Quarta parte – Brevi conclusioni

Vi sono dunque alcuni elementi in evidenza nelle argomentazioni sull’esigenza di invertire la rotta.

  • Expo 2015 ha concentrato di più l’attenzione del mondo sul Made in Italy. L’opinione comune ha oramai chiaro che “con la cultura si mangia” e che la parola creatività non è più fondata su connotati “frivoli”, anche se un po’ di leggerezza è parte del successo.
  • Questa esperienza ha lasciato punti di forza (tra cui il ruolo di Milano), ma anche ha – per ricordare un’espressione di Giorgio Ruffoloallungato ancora di più il paese in condizioni che, in alcuni contesti e in alcuni settori, sfiorano la rottura della corda che tiene faticosamente il legame. 

La citazione del punto di partenza di una recente inchiesta di Dario Di Vico sul Corriere  [19] è specificatamente a questo punto:

“Quanto dista Milano dal resto d’Italia? Tanto, viene da rispondere e la stessa percezione la deve aver avuta ieri il premier Matteo Renzi dopo aver ascoltato in Assolombarda la relazione di Gianfelice Rocca. Mentre il presidente degli industriali milanesi sciorinava i numeri che fotografano lo straordinario balzo in avanti della città, molti in sala hanno avuto la sensazione di leggere la carta d’identità (aggiornata) di una delle grandi capitale terziarie d’Europa. Il guaio è che mentre si riduceva il gap tra Milano e le Londra, le Parigi, le Francoforte, si andava ampliando quello tra la città di Ambrogio e il resto dell’Italia. Il motivo è doppio: da una parte Milano si è messa a correre ma dall’altra il Paese — preso nella sua media — non solo non ha fatto altrettanto ma nel complesso è rimasto fermo. Da qui l’appello di Renzi ai milanesi «a prendere per mano l’Italia», non per una breve stagione ma addirittura per i prossimi 20 anni”.

  • L’Europa si comincia ad impegnare sul tema in termini molto concreti: con l’incorporazione del tema nelle strategia di crescita comunitaria, con il programma Europa Creativa, con l’apertura alle industrie creative nei fondi europei, con una serie di progetti di collaborazione tra amministrazioni territoriali sul tema.
  • Alcune regioni italiane (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Puglia, Lazio, Toscana), solo per fare qualche esempio hanno creato infrastrutture e ricognizioni che dovrebbero trovare un coordinamento forte per fare sintesi di esperienze ora ancora disperse.  Ottimo, per esempio, il rapporto Ervet (Istituto per la valorizzazione del territorio dell’Emilia Romagna) del 2012.[20]
  • L’attenzione alla costruzione delle città metropolitane è oggi un punto cruciale per la riqualificazione nazionale del dibattito sull’economia creativa. La città metropolitana, la cui definizione amministrativa e politica varia sensibilmente nelle diverse parti del mondo, è al centro dell’interesse ovunque in quanto il fenomeno della città diffusa che concentra saperi, risorse e larga parte dei consumi, si sta diffondendo a livello globale. Il dibattito è ampio e complesso e si sviluppa da molti anni. Esso è bene illustrato da molti autori negli ultimi dieci anni. In Europa. Su questo, un punto avanzato di discussione è in Germania, con il beneficio sia del suo sistema federale sia degli impulsi dati al regolato ruolo competitivo delle città[21].
  • Alcuni mesi fa è stato presentato a Milano il “Primo Studio sull’Industria della Cultura e della Creatività”[22], realizzato dalla Ernst &Joung con uno stile comunicativo inedito,  con prefazione del Ministro Dario Franceschini in cui per la verità non viene nemmeno citata l’esperienza del  Libro Bianco (pur essendosi svolta in quell’Amministrazione). Magari siamo in progressione qualitativa, ma anche per questi dettagli è evidente che serve una regia che curi da vicino il rapporto tra esperienza e strategia competitiva. E da questo punto di vista le culture amministrative che prevalgono nei nostri ministeri giocano un ruolo decisivo, da questo punto di vista spesso frenante.
  • Presso il Ministero per lo Sviluppo Economico è stata costituito un Ufficio dedicato alle industrie creative che è parte di un concertazione istituzionale che può e deve riprendere. Anche qui sarebbe utile capire con quale collocazione nelle interdipendenze.
  • Il disegno di questa stessa nostra conferenza fa intendere che il tema potrebbe avere una rivisitazione importante nelle strategie di coordinamento economico, culturale e sociale in cui potrebbe coinvolgersi la Presidenza del Consiglio dei Ministri. I punti di forza e di debolezza della relazione tra istituzioni e sistema di impresa restano – nel merito generale (con variazioni contestuali ma non strutturali) – scritte nelle Raccomandazioni del Libro bianco del 2008.
  • Valore in sé e nelle potenzialità espansive del settore chiedono un aggiornamento autorevole e un disegno delle relazioni permanenti che debbono nascere in tutto il Sistema Paese. Molti operatori (imprenditoriali e professionali) debbono essere aiutati ad uscire da un certo solipsismo a volte snob altre volte disilluso. L’aggiornamento della riflessione sulla modernizzazione dell’artigianato deve convergere in questa visione di insieme e le risorse di analisi che il nostro sistema universitario contiene devono essere messe a disposizione di uno schema che non si può accontentare di svolgere solo “ricerca”.

[1] Professore universitario (nel raggruppamento di Economia e gestione delle imprese-area Marketing pubblico, docente di discipline nell’ambito delle Scienze della comunicazione all’Università IULM di Milano), già dirigente della Rai, direttore generale dell’Istituto Luce, direttore generale dell’informazione e dell’editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Attualmente anche presidente del Comitato Brand Milano.

[2]  Daniel Bell, L’avvento della società post-industriale.  Harper Colophon Books, New York, 1974.

[3] Daniel Cohen, Tre lezioni sulla società post-industriale, Seuil, Parigi,2006.

[4] Nel progetto di “Siena capitale europea della cultura 2019”, di cui Pier Luigi Sacco è stato responsabile.

[5] Nello Stato spettacolo – Cinquanta idee, dieci proposte per la cultura italiana – a cura di Vittorio Giacci, Bruno Pellegrino e Stefano Rolando – Conclusioni di Claudio Martelli, Guanda editore, Milano, 1983.

[6] Associazione per l’economia della cultura – Rapporto sull’economia della cultura in Italia (1980-1990) – Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1994. 

[7] Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stili di vita, valori, nuove professioni, Mondadori, 2003.

[8] Enzo Rullani, Città e cultura nell’economia delle reti, Il Mulino, 2001; La fabbrica dell’immateriale, Carocci, 2004; Economia della conoscenza, Carocci, 2004; Creatività in rete (con Francesco Prandstraller), Franco Angeli 2009.

[9] Walter Santagata (a cura di) – Libro bianco sulla creatività. Per un modello italiano di sviluppo (con molti autori nei capitoli tematici). Editrice Università Bocconi, 2009. Il Rapporto è altresì consultabile integralmente in rete (anche in versione inglese):

http://www.ufficiostudi.beniculturali.it/mibac/export/UfficioStudi/sito-UfficioStudi/Contenuti/Pubblicazioni/Volumi/Volumi-pubblicati/visualizza_asset.html_1410871078.html

[10] Nel dibattito in corso abitualmente si fa riferimento ai seguenti rapporti – di cui si trova ampia traccia in rete – pubblicati dal 2006 al 2015: KEA (2006), Unesco (2009), Unctad (2010), Oecd (2011), Eurostat (2012), ESSnet-Culture per Commissione UE (2012), Wipo (2015) , oltre al Libro bianco sulla creatività Mibact 2008 (e pubblicato nel 2009).

[11] Io sono cultura-L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi –  Rapporti per il 2016 e per il 2015  di Symbola e di Unioncamere, presentato da Ferruccio Dardanello, presidente Unioncamere e da Ermete Realacci, presidente Fondazione Symbola, in un quadro di pubblicazioni che iniziano nel 2004.

[12] Irene Tinagli (con Richard Florida), Europe in the Creative Age, Demos, Londra, 2004.

[13] Con specifico riferimento al dott. Enrico Bertacchini.

[14] Pricewaterhouse Coopers, Cities of the future: Global competition, local leadership, rapporto realizzato nel 2005.

[15] Charles Landry, The art of City Making, Routledge, Londra, 2006

[16] Walter Santagata, Il governo della cultura – Promuovere sviluppo e qualità sociale, Il Mulino, Bologna, 2014.

[17] Alberto Magnani, Perché l’Australia è il paese più creativo al mondo (e l’Italia è 21ma), Il Sole 24 ore, 27 gennaio 2016.

[18] Giampaolo Manzella, Riprendere il filo della creatività, Huffington Post Italia, 11.2.2015.

[19] Dario Di Vico, Il paradosso di Milano che si avvicina all’Europa e distacca (ancora) l’Italia  – La città è in trasformazione, sta diventando un hub della conoscenza e della creatività – Corriere della Sera, 10 ottobre 2016.

[20] Ervet, Cultura%Ceatività. Ricchezza per l’Emilia Romagna (aprile 2012)

[21] Il punto di riferimento è ancora considerato il saggio di Klaus R. Kunzman An Agenda for Creative Governance in City Regions (2004), con sviluppi di ricerca e scrittura fino al 2015.

[22] Primo Studio sull’Industria della Cultura e della Creatività – Rapporto realizzato da  Ernst &Young, presentato alla Triennale di Milano il 20 gennaio 2016 dal ministro Dario Franceschini con il supporto delle principali associazioni di categoria, guidate da MiBACT e SIAE.

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