”Ripensando a quei giorni con Turati, Nitti, Pertini e mio padre Bruno” – Intervista a Iole Buozzi Martinet

Articolo di Daniela Pasti, La Repubblica, 31 maggio 1984. A colloquio con la figlia di Bruno Buozzi e moglie dell’ambasciatore di Francia in Italia Gilles Martinet.


Buozzi sorridente insieme a Pietro Nenni in un caffè parigino. Da sinistra Leon Blum, la figlia più giovane di Buozzi, Iole che avrebbe sposato il giornalista e dirigente socialista Gilles Martinet diventato negli anni Ottanta ambasciatore di Francia a Roma, la figlia di Blum e Vera la moglie di Modigliani (tratto dal sito della Fondazione Bruno Buozzi)

ROMA – “Mio padre aveva un carattere molto calmo, cercava di creare in casa un clima sereno, disteso. Con noi era un padre adorabile, molto affettuoso. Malgrado questo i miei primi ricordi della nostra vita famigliare sono dei ricordi di paura: lui che torna a casa, una sera, e ha il viso e le mani insanguinate. Era stato a una riunione sindacale, non rammento bene la data, ma sarà forse stato il 1920, o il 21, gli anni dei primi assalti fascisti alle camere del lavoro: i fascisti avevano appunto fatto un’incursione e l’ avevano picchiato duramente” .

Iole Buozzi Martinet, figlia del sindacalista italiano, deputato socialista per tre legislature, racconta del padre di cui fra pochi giorni ricorre l’anniversario della morte. Bruno Buozzi fu infatti ucciso dai tedeschi nella notte fra il 3 e il 4 giugno del 1944, insieme agli altri 13 prigionieri trucidati a La Storta, furono le ultime vittime dei tedeschi che avevano occupato Roma: dopo poche ore le truppe alleate entravano nella capitale, accolte dall’ entusiasmo popolare. La signora Martinet è oggi la moglie di Gilles Martinet, ambasciatore di Francia e parla l’italiano intercalandolo con espressioni francesi, la maggior parte della sua vita l’ ha infatti trascorsa in quel paese dove il padre si rifugiò nel 1926, quando la legge sindacale Rocco mise fuori legge i sindacati legittimando solo quello fascista, cui i lavoratori avevano l’ obbligo di iscriversi.

 “Mio padre” ricorda Jole Buozzi “andò ad Amsterdam per un congresso internazionale socialista. Al momento di rientrare in Italia degli amici lo avvertirono che qui il clima era ancora peggiorato e che i fascisti lo cercavano. C’ era stato infatti l’attentato di Bologna contro Mussolini ed erano state votate le leggi eccezionali. Già in passato i fascisti erano venuti a casa nostra e quando le acque erano un po’ agitate per prudenza tutta la famiglia passava la notte fuori casa, ci ospitavano degli amici. Noi abitavamo in Corso Regina Margherita, a Torino: ricordo che una volta ci rifugiammo di corsa in un altro appartamento dello stesso palazzo, dove abitava il direttore della Fiat. Così da Amsterdam mio padre invece di rientrare in Italia andò a Parigi. Mia madre chiese il passaporto perché anche noi potessimo raggiungerlo, ma le autorità fasciste ce lo negarono. Espatriammo un anno dopo, clandestinamente, con l’aiuto del figlio di Cesare Battisti: ci accompagnarono in macchina fino a Bolzano, poi mentre l’ auto passava regolarmente la frontiera, io con mia sorella e mia madre raggiungemmo l’ Austria attraverso i boschi. Al di là del confine ci aspettava mio padre che ci abbracciò commosso”.

La signora Martinet ha con sé le lettere che il padre scriveva alla madre in quei mesi di lontananza, sono lettere affettuose che raccontano del suo dolore di esiliato e della sua amarezza di sapere che degli amici e compagni sindacalisti come Colombino e D’ Aragona si erano convertiti al fascismo. Buozzi, che era figlio di operai e aveva fatto le scuole solo fino alla quinta elementare, aveva diretto la Fiom ed era stato nominato segretario della Confederazione generale dei lavoratori. Nel 21, appunto con Colombino e D’ Aragona aveva avuto una parte importante nell’ occupazione delle fabbriche. Di come questa vicenda fu gestita dal partito socialista lo stessoBuozzi avrebbe però più tardi dato un giudizio negativo: “Il movimento socialista italiano mancò di decisione… con queste importanti forze non seppe decidersi né per la rivoluzione né per la partecipazione al potere. Esso non comprese che ci sono dei periodi nei quali la peggiore strada è quella dell’inazione“.

Mio padre“, ricorda la figlia, “era un socialista riformista, era grande ammiratore e amico di Turati. Più tardi anzi a Parigi Turati venne a vivere con noi. Io lo ricordo come un nonno dolcissimo, facile a commuoversi, mi aiutava a fare i compiti, giocava con noi. A Parigi la comunità italiana era molto legata: vedevamo spesso la famiglia Nitti, i Rosselli, Modigliani, la famiglia Saragat. La moglie di Saragat mi cucì l’ abito da sposa. Una volta venne anche Pertini, è stato proprio lui a ricordarmelo quando ci siamo rivisti qui a Roma. Allora facevamo una vita modesta, ma non misera, dopo il primo anno che fu molto duro l’atmosfera si era fatta abbastanza serena, ricordo che organizzammo anche qualche festicciola. Gli unici italiani con i quali non avevamo contatti erano i comunisti, la ferita della scissione dalla quale era nato il Pci era ancora viva e fomentava le polemiche”.

Quando Parigi fu occupata dai tedeschi Buozzi fu fatto prigioniero e mandato in Italia attraverso la Germania “Lo trasferivano da un carcere all’ altro, in un mese perse quindici chili”. In Italia Mussolini lo mandò al confino a Montefalco. Quando cadde il fascismo Badoglio lo incaricò di riorganizzare la Confederazione generale del lavoro. Bruno Buozzi era un convinto assertore dell’ unità sindacale, questo argomento anzi era stato dibattuto a lungo con Di Vittorio che aveva conosciuto e frequentato a Parigi. Cominciò quindi subito a lavorare in questo senso con i cattolici e i comunisti. La bozza del patto unitario sindacale fu stesa però durante la clandestinità nella quale Buozzi dovette rifugiarsi dopo l’otto settembre per sfuggire alla Gestapo che lo cercava. “Mio padre e mia madre che nel frattempo lo aveva raggiunto“, ricorda Jole Buozzi, “si separarono. Lei fu ospitata in un convento, lui diventò l’ingegner Alberti. Venne scoperto quasi per caso, durante una perquisizione nella casa dove si era rifugiato e inviato in Via Tasso il 13 aprile del 1944. Il comandante del carcere era Kappler”.

Durante i cinquanta giorni che Buozzi passa in quel lugubre luogo di torture gli amici fuori fanno molti tentativi per liberarlo, ma nessuno riesce. Intanto gli alleati sono alle porte. La notte fra il 3 e il 4 giugno un gruppo di reclusi vengono chiamati e avvertiti di tenersi pronti a partire. Gira la voce che i tedeschi li vogliono portare al nord come ostaggi Buozzi è nel gruppo. Un testimone, Vittore Bonfigli lo ricorda “solido e dritto nella persona, i capelli folti che vanno divenendo grigi, il solito suo sguardo franco, sereno”.

Cosa sia successo dopo nessuno lo sa con precisione. Sembra che il camion sul quale sono stati fatti salire i prigionieri subisca un’avaria e si fermi a La Storta. I 00868 tedeschi sono nervosi, hanno fretta di allontanarsi da Roma. Spingono i prigionieri in una valletta, poco dopo le contadine dei casolari vicini sentono dei colpi di pistola automatica.

Appresi che mio padre era morto“, ricorda la figlia, “il giorno dopo, a Parigi, dalla radio vaticana“.

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